speciale - elezioni Usa 2004


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Quanta amarezza, America
Amy K. Rosenthal

Diciamo che "the day after" il 2 novembre non è stato certo un giorno felice. Noi americani convintamente democratici abbiamo sperato fino alla fine in una svolta. Inizialmente abbiamo pensato che le cose potevano andare a nostro favore - si sono visti più elettori in fila di quanti non se ne vedevano dal 1968, un buon segno sicuramente - e tutti i sondaggi hanno indicato la probabilità di successo per i democratici. Invece la realtà del 3 novembre ha dato risultati diversi da quelli previsti. E ci troviamo Bush alla Casa Bianca per altri 4 anni. Fino a questa tornata elettorale potevamo consolarci dicendo di aver avuto errori di conteggio e di attribuzione, sostenendo che il "cowboy" non era stato eletto in modo legittimo. Ma questa volta non possiamo dire lo stesso.

Qual è il significato di tutto questo? Tony Judt, docente di Studi Europei all'Università di New York aveva dichiarato nelle pagine "New York Review of Books" che "se Bush fosse rieletto molti nel mondo (inclusi anche i milioni di nostri concittadini all'estero) darebbero le spalle all'America, se non per sempre, per molti anni". Judt ha aggiunto, "…con le nostre disuguaglianze e la povertà delle famiglie, le nostre scuole sotto un livello standard e i nostri inadeguati servizi sanitari, i nostri politici che pretendono di parlare con Dio, una stampa faziosa, la nostra società votata alle armi e alla pena capitale, non dobbiamo essere sorpresi se l'America ha cessato di essere un esempio per il mondo. La tragedia vera è che noi non siamo neanche un esempio per noi stessi. Il resuscitato presidente americano insiste nel dire che siamo impegnati in una guerra di buoni contro i cattivi, che i valori americani 'sono giusti e veri per ogni persona in ogni società'. Forse. Ma è giunta l'ora di mettere da parte il libro biblico della Rivelazione e ricordare un'altra frase cantata nei Gospel: 'Quale beneficio trae una nazione che conquista il mondo ma perde la sua stessa anima?'"

Per Sidney Blumenthal, ex consigliere del Presidente Bill Clinton, "la questione non è quello che succederà ma quello che non succederà". E aggiunge: "E' una porta aperta per Bush verso la promozione di un unilateralismo imperiale". Comunque vada, non è solo il rapporto degli Stati Uniti con il mondo a preoccupare le sensibilità democratiche. Un'altra questione che va affrontata riguarda se la Costituzione degli Stati Uniti d'America sarà protetta e se le nostre 'libertà domestiche' saranno garantite come lo sono sempre state fino all'arrivo di Bush e del suo clan. Dobbiamo chiederci come il secondo mandato di Bush vorrà incidere sulle questioni irrisolte della nostra società quali l'aborto, i matrimoni gay e il controllo delle armi. Noi democratici americani siamo molto preoccupati, ma non siamo soli, perché anche i conservatori tradizionali dentro il partito Repubblicano lo sono. Temono un governo di ultradestra e niente affatto moderato per i prossimi 4 anni. Ci sono elettori di destra che non si riconoscono in una politica aggressiva, che non capiscono perché devono sostenere i costi esorbitanti di un'influenza sul mondo arabo che prescinde dalla sicurezza, e tengono fede ad una impostazione storicamente isolazionistica degli Stati Uniti, tendente semmai a privilegiare la buona amministrazione domestica. Al contrario, si sta facendo strada una tendenza minacciosa e in parte estranea alla nostra stessa destra: si parla ormai di 'multilateralismo se si deve, unilateralismo se si può'".

Accanto a questo, si sviluppa un linguaggio volutamente triviale, semplicistico e sempre aggressivo. Si parla di "war on terror", di "war on poverty". Si indica un avversario e si parla sempre, esplicitamente di guerra, si indica in ogni occasione possibile che bisogna fare guerra a qualcosa, a qualcuno. Non si tratta di un banale accorgimento sociolinguistico ma di un indicatore evidente di come la logica del cowboy si vada affermando nel linguaggio comune, anche grazie al grande potere che i media vicini a Bush hanno ormai conquistato. Mentre l'informazione riguarda sempre meno la politica internazionale, l'americano medio si accontenta di capire che deve sostenere anche finanziariamente una guerra al terrorismo combattuta nell'interesse della sicurezza di ciascuno, fin nel più piccolo villaggio dell'entroterra. Si diffonde l'incubo e si impone una fobia diffusa, generalizzata.

Va bene, Bush ha vinto con più di 3 milioni di voti e si è guadagnato un mandato legittimo ma voglio ricordare ai miei amici europei una cosa: l'America è profondamente divisa in due, tra repubblicani e democratici ci sono differenze anche culturali enormi. Non a caso un artista popolare come Moby ha potuto dichiarare pubblicamente di sostenere una scissione tra stati democratici e repubblicani, perché i primi e i secondi non condividono alcun patrimonio culturale, e i primi avversano i secondi su tutte le scelte, interne ed internazionali. Forse "The Right Nation" ha vinto nell'immediato, ma ha segnato in prospettiva le premesse per la sua stessa fine.

 

 

 

 

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