speciale - elezioni Usa 2004


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Un voto di massa ma l'America non è mai stata così divisa
Siegmund Ginzberg

Questo articolo è apparso su L'Unità giovedì 4 novembre 2004, pag. 3

Un dato di fatto: col 99 per cento dei voti scrutinati, George W. Bush ha avuto 58.301.150 voti, più di qualsiasi altro presidente eletto in tutta la storia americana. Compreso Ronald Reagan, che aveva il record precedente, con 54 milioni e mezzo di voti al momento della rielezione nel 1984. Altro dato di fatto: John Kerry ha avuto 54.992.753 voti. Più di quelli di qualsiasi altro presidente democratico eletto. E anche più di quelli di Reagan nel 1984. In fatto di record storico assoluto per numero di voti, sarebbe al secondo posto. In mezzo a queste due cifre stanno tutti i paradossi di queste presidenziali. Non era mai successo che tanti americani andassero a votare. Non era mai successo che si ritrovassero così numerosi da una parte e dall'altra di un paese spaccato esattamente, e così profondamente a metà. Forse nemmeno nel 2000, quando Bush ebbe 50.456.062 voti e Al Gore 50.996.582 (sì, mezzo milione di più al perdente rispetto al vincitore). John F. Kennedy e Richard Nixon avevano avuto nel 1960 poco più di 34 milioni di voti ciascuno con una differenza di poco più di 100.000. Nixon ne aveva avuti meni di 47 milioni al momento del suo trionfo su McGovern nel 1972. Bill Clinton era stato eletto con meno di 45 milioni nel 1992 e rieletto con poco più di 45 nel 1996.

Certo, sarebbe potuto succedere, anche stavolta, come nel 2000, che un presidente venisse eletto con meno voti del rivale, grazie al sistema del collegio elettorale, per cui contano i "grandi elettori", che in quasi tutti gli Stati vanno tutti a chi ha la maggioranza in quel particolare Stato. È un meccanismo di cui si discute in modo acceso e si continuerà a discutere. Traversalmente rispetto agli schieramenti. Che in pratica, anziché un'unica elezione presidenziale, ci siano 50 distinte elezioni presidenziali, deriva dal fatto che i singoli Stati che aderirono "volontariamente" all'Unione restano gelosi della garanzia di non essere sopraffatti da quelli più forti e popolosi. Spesso ha funzionato anche nel senso di dare un'indicazione più chiara, una sorta di premio di maggioranza, utile ad evitare la frammentazione (è ad esempio la ragione per cui lo storico Arthur Schlesinger è tra coloro che sono per mantenere il meccanismo). Altre volte no. Stavolta c'erano centinaia di combinazioni matematicamente possibili perché un presidente venisse eletto con meno voti diretti ma più "grandi voti" di collegio. La volta prima l'ago della bilancia era stata la Florida. Stavolta poteva esserlo l'Ohio (e a maggior titolo: perché è la media statistica per antonomasia dell'America, oltre che il centro geografico, ha da sempre un ruolo leggendario in qualsiasi sondaggio politico o commerciale che sia, anche se si tratta di lanciare una marca di patatine fritte). I "20 grandi voti" dell'Ohio sarebbero bastati a rovesciare il risultato. Ci saranno ancora riconte, polemiche, battaglie legali all'ultimo sangue dei "10.000 avvocati". Kerry aveva tutte le ragioni per insistere: effettivamente perché lì è finita ad un soffio, e anche perché l'America ama i "fighter", quelli che combattono sino all'ultimo, e questa potrebbe essere una condizione per non uscire del tutto di scena. Ma poi ha chiamato Bush, e gli ha preannunciato che gli avrebbe "concesso" in serata la vittoria, perché è il momento di "riunificare questo paese".

In effetti, l'America che Bush eredita da se stesso è più spaccata di quella di cui era divenuto presidente di minoranza nel 2000, promettendo per prima cosa che avrebbe cercato di riunirla. Mai forse come in queste elezioni ciascuno dei due campi si era dato da fare allo spasimo per mobilitare i propri elettori, prima ancora che cercare di convincere quelli indecisi o far cambiare idea a quelli del campo avverso, inseguire l'elettore "di mezzo", o di centro che si voglia. Si vede dalla partecipazione senza precedenti. Bush aveva fatto appello all'anima più tradizionale dell'elettorato repubblicano, Kerry a quella doc dell'elettorato democratico, pace, difesa dei lavoratori, dei valori laici e liberal, niente più "nuovi democratici" o "terze vie" come Clinton, qualche commentatore ha parlato di "ritorno della sinistra classica". Così li ha convinti ad andare alle urne come non era riuscito a fare nessun altro candidato democratico, compresi quelli che avevano vinto le elezioni. Ma allora, perché ha vinto ugualmente Bush? Per caso, visto che è davvero per un soffio? Per ragioni di meccanismo elettorale e di distribuzione dei collegi? Perché quella repubblicana si è rivelata una macchina più formidabile ed efficace, e Karl Rove si è rivelato diabolicamente capace? Per merito di Osama, perché ha pagato l'essersi presentato come "presidente di guerra", cavallo da non cambiare in mezzo al guado? Perché ha pagato la semplificazione estrema, al limite del semplicismo? (È l'argomento con cui il commentatore del sito liberal Slate spiega ai democratici "perché continuano a perdere contro questo idiota: semplificate, trovate un qualsiasi piazzista, lasciate perdere preparazione, statura, capacità, sfumature..."). Perché, anche se quasi tutti i grandi giornali avevano dichiarato il voto per Kerry, quel che ormai conta è quel che si vede in tv? Perché di fatto c'è una maggioranza conservatrice, l'America di Dio, del fucile, della famiglia, del particulare, mentre non riesce ad esprimersi quella che alcuni insistono a vedere come una maggioranza di lavoratori? A causa del "blocco" conservatore repubblicano nel Sud? A conferma, ancora una volta, del fatto che per i democratici è divenuto difficile vincere la Casa bianca se non c'è anche un "terzo candidato" che porta via voti ai repubblicani (come quando nel 1992 Clinton aveva vinto anche perché il miliardario di destra Ross Perot privò Bush padre del 20 per cento dei voti)? Stavolta non si può nemmeno dire che ci sia stata un "effetto Nader", una significativa dispersione a sinistra: a differenza del 2000 (quando comunque l'Ohio era andato a Gore), stavolta in Ohio il verde radicale Nader non era nemmeno in lista. Sono domande che si porranno. E le risposte, a ben vedere, non riguardano solo gli americani.

 

 

 

 

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