265 - 13.11.04


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Contro il potere dei pochi

Intervista di Alessandro Agostinelli a Nadia Urbinati


Intervisat gentilmente concessa da www.alleo.it

Sarà il potere dei media o il fiato sospeso sulla guerra in Iraq?
Cioè: viene prima l'uovo o la gallina?
Al di là delle cause e delle analisi ci troviamo di fronte alle elezioni presidenziali americane più temute e seguite di sempre, con due candidati che, più di sempre, sembrano al di sotto del momento storico, senza neanche la plausibilità del famoso adagio di Flaiano a consolarci...

A New York, alla Columbia University insegna una ricercatrice italiana di grande prestigio e autorevolezza. Si chiama Nadia Urbinati; si occupa di scienze politiche; ha studiato l'individualismo americano in relazione anche al liberalsocialismo gobettiano e poco tempo fa ha curato un bel libro di Michael Walzer su cosa significhi essere americani. Non ci siamo azzardati a chiederle se anche lei sia un "cervello in fuga" dall'Italia. L'abbiamo invece invitata a parlarci della sfida tra George W. Bush jr. e John F. Kerry.

I sondaggi, da più di un mese a questa parte, segnalano un sostanziale testa a testa tra i due candidati alla Casa Bianca. Nel popolo americano è percepibile questa netta divisione?

Sì, questo testa a testa è percepibile, almeno se ci si fida di quello che scrivono i giornali più autorevoli. Tuttavia, non bisogna dimenticare che quello che noi specialisti o semplicemente lettori acculturati leggiamo e valutiamo, non è lo stesso di quello che i cittadini ordinari leggono e valutano. Il pubblico politico americano è, molto più di quello europeo, diviso tra una larga fascia populista e una ristretta fascia critica (uso il termine "populista" nel senso in cui viene usato qui, cioè come opposto a intellettuale). Fox news - il più populista dei media americani - dà un'altra immagine: quella di un presidente uscente che è più forte e vincente. Quanto questa idea sia una registrazione della realtà o invece una creazione della realtà è ovviamente difficile dire.

In Italia gli avversari di Berlusconi hanno spesso puntato su certi suoi "illegittimi" conflitti d'interesse che però non hanno scalfito la sua popolarità. In America la critica a Bush parla delle bugie in merito alle armi di distruzione di massa imputate a Saddam e su molti conflitti d'interesse del suo entourage alla Casa Bianca, ma ciò non è servito a scalfire troppo la popolarità del presidente. Allora, che cosa influisce sull'elettorato?

Sì, non mi sembra che sull'elettorato italiano abbia influito sapere come Berlusconi abbia costruito il suo impero mediatico e che abbia in mano praticamente tutta l'informazione. Ma ciò non ci solleva dal problema.

Non è corretto dire che in America le bugie di Bush sono un tema della campagna elettorale. Al contrario, non lo sono proprio. Neppure Kerry ha usato la parola "bugia" e invece ha preferito parlare di "errori". Certo che Powell e Cheney e Bush e il suo governo hanno mentito al pubblico americano nel dipingere la situazione in Iraq come prossima alla proliferazione atomica. Ma, come la commissione d'inchiesta ha dimostrato, è molto problematico usare la parola "bugia" (per le evidenti implicazioni giudiziarie). Circa il conflitto di interessi di esponenti del governo Bush, l'unico a cui si può pensare è Cheney per il caso Enron e le relazioni con alcune compagnie che ricostruiscono l'Iraq. Ma anche in questo caso, a meno che una commissione d'inchiesta non venga istituita e non porti a risultati conseguenti, non si può parlare di conflitto d'interessi. Contrariamente all'Italia, negli Stati Uniti l'uso del linguaggio è molto auto-controllato, perché ogni accusa scatena immediatamente un caso giudiziario. Le parole hanno un peso effettivo. L'illazione non basta, ed è in realtà controproducente. E poi, come gli italiani sperimentano abitualmente, le accuse non producono nulla se non sono coerentemente perseguite nei giusti canali, giudiziari e politici.

Sull'elettrorato influisce la retorica della guerra: gli Stati Uniti sono coinvolti con centinaia di migliaia di soldati, non con tremila carabinieri. È saggio cambiare presidente mentre si è in guerra? Non è imprudente mostrare un dissenso o una crisi proprio nel bel mezzo di una guerra? Questa è l'arma retorica usata dal Partito Repubblicano. E questa è la sfida che sta di fronte a Kerry, il quale deve poter confortare gli elettori del fatto che non solo non ci sarà un immediato mutamento di fronte in Iraq, ma che inoltre si cercherà di imbarcare molti più alleati così da diminuire il peso che la guerra sta avendo per l'America.

Alcuni opinionisti dicono che tra Bush e Kerry non ci sono poi tante differenze. È vero?

Non sono d'accordo. Questo giudizio è semplicistico e non ingenuo: è fatto per provare che, dunque, tanto vale votare per Bush o non votare per Kerry. È o ipocrita o suicida. Ci sono differenze notevoli, invece, molto più ora che nel caso della precedente campagna elettorale. In politica estera il multilateralismo e l'abbandono della guerra preventiva, sono differenze notevoli. In politica interna, la politica sanitaria e fiscale sono differenze notevoli.

Che cosa ti ha colpita in questa campagna elettorale a livello mediatico?

Mi ha colpito il fatto che l'Italia, come spesso è accaduto nella sua lunga storia, è anticipatrice. Non soltanto per la teledemocrazia, ma soprattutto per l'allineamento tra interessi economici e media. La trasformazione oligo-mediatica mi ha colpito. Colpisce che le maggiori televisioni popolari americane siano schierate per Bush, nonostante il fatto che Kerry non sia un rivale contro-sistema.

E allora perché con Bush invece che con Kerry?

La questione è di grande interesse e può voler significare che ci sono in realtà non più interessi divergenti all'interno della stessa classe (la classe media), ma invece è in corso un confronto epocale tra due classi: cioè la classe oligarchica (il famoso 10% che praticamente è esentato dal pagare le tasse) e la classe media (tutti coloro che vivono del loro lavoro, manuale o professionale). Con un'analogia che andrebbe meglio articolata, questa lotta ricorda quella che nell'Atene antica contrapponeva il demos (i molti) agli oligarchi (i pochi). Questa è forse la ragione dell'uso che "i pochi" fanno dei media; del fatto che Fox (ma anche la falsa neutrale Cnn) faccia la campagna per Bush.

La democrazia americana ha un sistema informativo che permette una reale e libera formazione delle opinioni?

Nessuna costituzione del mondo democratico occidentale ha al suo interno articoli che tutelino la pluralità delle fonti di informazione, limitino e definiscano i confini del pubblico e del privato nel campo dell'informazione. Questa è la sfida della democrazia oggi.

La meravigliosa America di Jefferson è morta e sepolta. La spinta collettiva dell'era Roosevelt è stata bruciata. La speranza di una sorte progressiva dell'era Kennedy è finita. Quante Americhe positive sono passate? La politica americana sta subendo davvero un forte degrado?

Fino al 3 novembre non mi sento di condividere questa filosofia apocalittica. E forse neppure dopo, qualora molti di noi si trovino nella condizione di disperante accettazione di una nuova vittoria di Bush. Non è vero che la democrazia - il demos - è amorfa e incapace di reagire. Le vie dell'opposizione e dell'autonomia della opinioni della gente sono molto più aperte e imprevedibili di quanto gli opinion makers vogliono farci credere. La filosofia del lamento non aiuta.

Molti americani consapevoli hanno paura di uno scollamento sociale causato dalle attuali sperequazioni economiche. È davvero in gioco anche la Costituzione americana? La Costituzione americana è in gioco perché il presidente si è preso prerogative (enunciate genericamente ma non regolate dalla Costituzione). Ed è in gioco perché questo coservatorismo è estremista e fondamentalista. È un problema che abbiamo anche in Italia: essere moderati significa oggi essere di sinistra, perché la destra è radicale, direi quasi "bolscevica". È paradossale, ma fino ad un certo punto. Perché come ho sopra anticipato, è in corso una lotta nelle democrazie moderne che può portare a mutamenti di regime, a forme di oligarchia. Questo è il pericolo vero, che il terrorismo sfrutta e le radici religiose della politica americana facilitano. Il radicalismo di destra è rivoluzionario (nel senso che punta al mutamento di regime).

Che fine ha fatto l'individualismo democratico?

Questa domanda richiederebbe un trattato. La società americana è contraddittoria, come pure la destra. Per esempio accanto ai fondamentalisti evangelici (comunitari ma, rispetto alla presenza dello stato, individualisti) c'è il liberismo della frontiera, quello che ha molto contribuito a portare l'America in guerra e che ha sognato di fare dell'Iraq una free-state-zone dove gli interessi economici potevano creare anarchicamente la società. Utopia individualista nel senso più estremo. L'individualismo democratico dei new-englander è aristocratico non populsta, e quindi vicino al partito di Kerry più che a quello di Bush.

Che cosa direbbe e farebbe oggi il filosofo John Dewey?

Votare per Kerry e difendere la democrazia contro i suoi più pericolosi nemici: i pochi, gli oligarchi, e tutti coloro che ci vogliono far credere che gli interessi dei pochi siano identici e in armonia a quelli dei molti.

Come si fa oggi, in America, a non "tradire se stessi", a tentare di mettere in atto il proprio fine politico democratico, la ricerca della felicità?

Non so, non so che cosa sia la felicità quando si è sempre in procinto di perdere quel poco che si ha. Ma potendo, significa far bene il proprio lavoro, che è quanto i fondatori di questo paese volevano e la vera ragione per la quale se ne sono andati dal Vecchio Contintente: per essere se stessi. Ma se la democrazia perde, questo ideale perderà e l'America diventerà il nuovo Vecchio Contintente.

Un individuo troppo centrato sulla propria vocazione attiva e poco incline al dubbio, al ragionamento, ad una vocazione epistemologica, non rischia di perdere di vista i proprio diritti morali?

I diritti sono politici e civili, non solo morali però. Averli non è un fatto di dovere morale ma di potere. E oggi i dubbi sul potere di avere e preservare questi diritti ci sono. Non c'è la sicurezza dell'età kennedyana (che fu aggressiva). Questo è un problema vero.

Chi canta oggi l'America?

Tutti coloro che nel mondo vivono i soprusi e le ingiustizie. Coloro che scappano dalla miseria e cercano di raggiungere le coste europee. Io penso che l'America sia la nostra utopia, per questo bisogna difenderla.

 

 

 

 

 

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