Viaggiando
lungo la vecchia strada che collega Gerusalemme a Gerico,
ci si ferma improvvisamente nel mezzo di Abu Dis, un
villaggio semi-periferico al limite della Gerusalemme
palestinese. Un muro massiccio si innalza per otto metri
nel mezzo della strada, tagliandola senza nessun avvertimento:
la strada è finita. Quello che un tempo era il
centro di Abu Dis, adesso è una frontiera: i
negozi, una volta convenientissimi per chi era di passaggio,
oggi faticano a restare sul mercato; la pompa di benzina
è abbandonata. Poco più avanti, si alza
il muro. I graffiti in ebraico e in inglese ne fanno
un manifesto per le prese di posizione degli israeliani,
siano essi progressisti o conservatori, rendendolo oggetto
di quel turismo interno legato al conflitto. Un collega
mi dice che aveva portato qui un (raro) gruppo misto
di studenti universitari palestinesi e israeliani: gli
israeliani si erano guardati attorno cautamente mentre
i palestinesi si erano messi subito in posa per le fotografie,
con un’aria di sfida e le dita a formare la “V”
di vittoria. Il muro è già diventato un
monumento perverso. Sopra, a caratteri cubitali, il
suo passato storico, agghiacciante: “Dal ghetto
di Varsavia al ghetto di Abu Dis”.
Questa fila di mattoni di cemento armato fa parte della
“barriera di sicurezza” israelo-palestinese,
del “recinto di separazione”, o del “muro
di apartheid”: la definizione che si sceglie dipende
dalla prospettiva che si adotta. E’ una sezione
del lungo muro che Israele ritiene servirà a
prevenire gli attacchi suicidi contro la propria gente.
Quanto risulterà efficace è questione
assai discutibile, nell’immediato, è servito
a consolidare gli insediamenti israeliani e a spaccare
e dividere la terra dei Palestinesi, confinando le loro
comunità, separando i loro agricoltori dai campi
e dalle piantagioni, impedendo loro di raggiungere i
propri posti di lavoro, le famiglie e gli amici. Il
muro non è un confine internazionale, ma una
divisione fra due popoli imposta da uno, quello israeliano,
sulla terra dell’altro, quello palestinese. Esso
va a unirsi ad altre costruzioni simili – vengono
alla mente Berlino, Cipro, Belfast – che in epoca
moderna hanno funzionato da separazione fisica radicale
nel tentativo di risolvere problemi apparentemente irrisolvibili
con altri mezzi.
Non tutte queste costruzioni sono ancora in piedi e
i contesti sono diversi: dalla generale condanna della
politica del contenimento della Germania dell’est,
a una sonora approvazione sia da parte protestante che
cattolica dei “muri della pace” di Belfast.
La sezione principale della barriera israeliana si estenderà
per una lunghezza compresa tra i 300 e i 600 chilometri
e alla fine circonderà la West Bank,
mentre i “muri della pace” irlandesi chiudono
singole strade: il più esteso – sulla Springfield
Road - è lungo 2 miglia. Sarebbe comunque corretto
dire che tutte queste costruzioni rappresentano delle
anomalie nella storia dell’umanità essendo
state costruite espressamente per separare e dividere.
Nei casi più estremi, esse hanno a volte confinato
intere aree abitate per essere poi abbattute. In generale
rappresentano solo uno dei molti orrori della guerra
e dell’occupazione, eppure nella loro peculiare
tangibilità, possono facilmente richiamare l’attenzione
su tutto ciò che non ha funzionato.
C’è da dire pure che non tutti i muri
impongono condizioni draconiane, e non tutti sono intrinsecamente
negativi. In qualche misura, la nostra attuale comprensione
è condizionata dallo studio moderno sulla natura
dei confini. Alla fine del diciannovesimo secolo la
nuova disciplina della geografia politica ha iniziato
a distinguere tra una regione o un’area di confine
relativamente ampia dalla linea di confine vera e propria,
essenzialmente una linea astratta disegnata su una mappa.
Un’osservazione del genere ha suscitato un notevole
interesse e ha dato un notevole impulso alla ricerca
sulle culture di confine; ancora più significativo,
può risultare riflettere sull’idea che
alcune linee di divisione non dovrebbero mai essere
tracciate completamente. In certo qual modo, essa si
richiama a pratiche in vigore molti secoli fa: i romani,
ad esempio, tracciavano un solco, in genere circolare,
noto come poemerium, che segnalava di rito
l’estensione di una nuova città. In circostanze
normali, il poemerium veniva solo blandamente
ripreso dalla cinta muraria che deviava a seconda della
necessità e veniva modificata nel tempo in base
alle esigenze della vita quotidiana; il risultato era
un ricordo importante ma lontano del poemerium
originario.
La questione, in realtà, è che costruire
un muro significa agire sia a livello simbolico sia
sul piano della strutturazione della vita civile, e
se le due cose possono confondersi, non necessariamente
coincidono. Se molte mura antiche e medievali erano
necessarie alla difesa e le città assomigliavano
a delle fortezze, la cinta muraria svolgeva anche un
ruolo costituzionale. Il diritto di risiedere all’interno
della cinta offriva la libertà e la responsabilità
di partecipare alla cittadinanza. Allo stesso tempo,
molto spesso, le città si estendevano ben oltre
le proprie mura arrivando a includere campi agricoli,
coste, villaggi dipendenti, reti di scambio e località
sacre.
Inoltre, nessuna città era isolata: il commercio,
le politiche, le amicizie, gli scambi culturali e, sì,
anche la guerra, dipendevano da ciò che si trovava
oltre il muro. Le porte d’accesso erano dei punti
di riferimento imprescindibili, luoghi di passaggio
e di collegamento tra il dentro e il fuori. Si svilupparono
le cosiddette culture della “porta della città”,
e con esse i protocolli di comportamento e interazione,
alcuni impliciti altri espliciti. In un modo o nell’altro,
per quanto le mura demarcassero e separassero, erano
anche strumenti per mediare e collegare.
Con tutto il suo contenuto simbolico, la cultura delle
mura “spesse” che strutturano differenze
e passaggi, incorporando e promuovendo in tal modo una
certa ricchezza di significato, è sostanzialmente
scomparsa; eppure, possiamo liberarci dalle cinte murarie?
Probabilmente no, perché persino in un mondo
globalizzato ed elettronicamente «linkato»,
la rimozione di tutti i confini è difficilmente
possibile e, nei fatti, assai poco desiderabile. Oggi
alcuni berlinesi rimpiangono il totale abbattimento
del muro e vorrebbero restaurare una qualche forma di
demarcazione che ricordi come la loro città sia
il risultato dell’unione tra Est e Ovest. E’
chiaro che il bisogno di ricordare sia una forza sferzante,
ma aldilà di questo, nessuno vuole vivere in
un mondo omogeneo e senza forma.
L’identità in genere richiede alcune forme
di riconoscimento o di appartenenza che dipendono alternativamente
dalla struttura e dalla differenziazione locale. Beirut,
che ha conosciuto terribili divisioni e una greenline
di morte e distruzione che è stata soprannominata
“il muro senza pietre” ha dovuto affrontare
questi problemi durante la propria ricostruzione. In
riconoscimento dei vari gruppi locali che reclamano
la città, il sociologo libanese Samir Khalaf
suggerisce che vi è bisogno sia di rapporti di
vicinanza che di distanza, di flessibilità piuttosto
che di reclusione ed esclusione. La permeabilità
è cruciale dove i confini e il movimento coesistono.
Le mura statiche e l’abilità di superarle
e trascenderle sono una combinazione chiave frequentemente
ignorata, e, troppo spesso, l’imposizione di strutture
che separano è specificamente intesa per limitare
irragionevolmente il passaggio o impedirlo completamente.
Al muro viene assegnato un ruolo uni-dimensionale e
il controllo del movimento diventa un’arma insidiosa,
la principale, abbondantemente utilizzata nei conflitti
civili. Ciò produce un nuovo tipo di topografia,
disegnata da barriere e check-points che riordinano
il paesaggio esistente e dominano ogni aspetto della
vita quotidiana, fisica, psicologica e simbolica.
Viene spesso sottolineato come il muro israeliano sia
una soluzione sorprendentemente medievale per un problema
moderno; un rifiuto sconsiderato della tesi di Montesquieu
secondo cui “con l’invenzione della polvere
da sparo, non esistono più località inespugnabili”.
Ma aldilà di qualche atavica speranza di protezione,
il paragone medievale cade presto, perché questo
muro non sostiene alcuno scambio mediato che orienti
la società, e non offre strumenti per articolare
la differenza.
Si tratta, in fondo, di una barriera piuttosto sottile:
una lacerazione che rinforza niente più che i
confini. Ha generato solo distruzione, con l’esercito
israeliano che ha distrutto tutta la vegetazione, gli
edifici, e le altre forme di presenza umana lungo il
suo tracciato nel nome della sicurezza. E’ ovvio
che qualsiasi regione di confine ci potesse essere sta
andando distrutta, qualsiasi speranza di permeabilità
che possa permettere e promuovere il riconoscimento
e l’esperienza dell’altro sarà presto
bloccata. Piuttosto che andare a ripescare qualche ricordo
del passato pre-illuminista, premetterei che si tratta
di una risposta specificamente moderna. Essa è
ricca di suggestioni derivate dall’offuscamento
della guerra fredda che considerava la divisione del
mondo, operata dalla cortina di ferro, reale dal momento
che essa era essenzialmente unilaterale e perciò
ciascun settore poteva solo immaginare ma mai conoscere
l’altro.
Questo non vuol dire che i lati del muro siano sempre
uguali. Il caso dei palestinesi risulta particolarmente
odioso perché essi hanno subito le politiche
israeliane di contenimento e ghettizzazione. Per loro,
il lato visibile del muro è visto da un interno
distrutto e sottoposto a restrizioni. Ma per entrambe
i popoli, sia esso voluto o imposto, il muro sta lì
per sopprimere qualsiasi forma di impegno, violento
o pacifico che sia, così che molti allontanano
e rimuovono il conflitto dalla consapevolezza immediata
dirottandolo verso alcune più oscure profondità
da dove è destinato però a riemergere
sempre più atrocemente. Mura del genere favoriscono
un singolare disimpegno dalla realtà, descritto
in uno studio su Belfast secondo il quale esse “permettono
alla gente di vedere dall’altra parte ciò
che vuole: l’immagine del proprio nemico”..
In effetti, il conflitto diventa una rappresentazione
di sé che vorticosamente decade in trasformazioni
irriconoscibili e incontrollabili propriamente e unicamente
uni-laterali.
La curiosità umana può spingere a volte
a guardare oltre il muro, ma troppo spesso, come accade
per la piattaforma di osservazione installata a Ledra
Street nella parte greca di Cipro per spiare nel settore
turco, il risultato è letteralmente un’immagine
costruita e pianificata; l’esperienza autentica
dell’altro lato diventa sempre più distante.
Non è una sorpresa che dopo la piattaforma, sul
fronte opposto, sia stato aperto un museo nazionalista.
Stranamente più provocatorio è il lato
turco, che resta calmo come l’acqua di uno stagno
senza sapere o senza preoccuparsi di essere osservato.
Un piccolo caffè si incunea contro il muro e,
su questo sfondo, è stata dipinta una finestra
nera. E’ un dispetto, un’immagine di un’apertura
che punta all’altro lato ma non va da nessuna
parte e non comunica nulla.
In Israele, dipingere sul muro sta diventando una cosa
comune, forse una nuova e triste forma d’arte.
Lungo le nuove strade costruite per dare un percorso
sicuro agli israeliani che devono raggiungere gli stanziamenti
della West Bank, il muro è stato costruito in
punti di possibile frizione, di solito dove la strada
attraversa un villaggio o una città palestinesi.
Una costruzione di solido cemento su entrambe i lati
della strada Modi’in a Gerusalemme è ricoperta
da un murale di un viadotto; nella scena vengono raffigurati
attraverso gli archi prati verdi e un cielo azzurro.
Fiancheggiati su ambedue i lati da questo paesaggio
rurale immaginario, si accelera lungo la strada stretta
e costretta, chiedendosi chi viene imprigionato in questi
luoghi. Un esempio ancora più penoso si trova
sulle mura a sud di Gerusalemme che separano l’israeliana
Gilo dalla Palestinese Beit Jala. Lì, gli abitanti
di Gilo fissano un panorama dipinto che riproduce un
piccolo villaggio inserito in un paesaggio chiaramente
arabo nella sua topografia e architettura ma che ricorda
anche qualcosa di più antico, in un certo senso
biblico. Il sole splende e il paesaggio dipinto è
tranquillo. Ma in questo villaggio non c’è
traccia di persone, è stato epurato. Il muro
unilaterale è diventato un’immagine ingannevole
che invita coloro che vi si avvicinano a entrare nella
sua falsa stretta. Noi possiamo solo cercare di immaginare
che cosa può esserci lì dietro.
(traduzione dall’inglese di Martina Toti)
Wendy Pullan fa parte della Facoltà
Architettura dell’Università di Cambridge,
in Gran Bretagna, e dirige il progetto di ricerca “Conflict
in Cities” di Gerusalemme.
© Eurozine, www.eurozine.com
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