264 - 30.10.04


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Due liberali “veri” all’assalto del pensiero unico
Massimiliano Panarari


 

Jean-Paul Fitoussi,
La democrazia e il mercato, Feltrinelli,
pp. 80, euro 8

Joseph E. Stiglitz,
I ruggenti anni Novanta.
Lo scandalo della finanza e il futuro dell’economia
,
Einaudi, pp. 334, euro 16

La critica del cosiddetto “pensiero unico” neoliberista non è più, da qualche tempo, appannaggio esclusivo della sinistra (o dei residui della destra anticapitalistica), ma viene svolta, nel modo maggiormente brillante ed efficace, da intellettuali ed economisti di matrice liberale (liberali “veri” – i quali sposano alla fine posizioni progressiste – e non sedicenti tali), conoscitori esemplari, di “prima mano” (per averla frequentata e, spesso, diretta e orientata) dell’economia di mercato e dei suoi meccanismi di funzionamento. Stiamo parlando di una critica dura e di un’opposizione forte, che si avvale di argomentazioni tecniche stringenti, oltre che dell’evidenza dei fatti.
Ad andare all’assalto della dogmatica neoliberista sono, per portare l’esempio più recente, gli ultimi libri di due illustri studiosi di economia decisamente convergenti nell’analisi, pur essendo espressione di quelle – benefiche – differenze culturali tra i “progressismi” del Vecchio e del Nuovo continente (riflesso di due visioni del mondo e ways of life) che, in questo caso, fanno la ricchezza dell’Occidente. Ovvero, La democrazia e il mercato di Jean-Paul Fitoussi (del quale era andato in libreria, qualche tempo fa, anche Il dittatore benevolo. Saggio sul governo dell’Europa, il Mulino, pp. 118, euro 9) e I ruggenti anni Novanta. Lo scandalo della finanza e il futuro dell’economia di Joseph E. Stiglitz.
Jean-Paul Fitoussi rappresenta, da sempre, uno dei “campioni” di un certo modo di intendere l’economia “all’europea”; un economista francese, continentale che ben poco (anzi, nulla…) ha a che spartire con i settorialismi, i superspecialismi e la pretesa volontà di neutralità ed obiettività ostentati a ogni pie’ sospinto dai suoi colleghi anglosassoni. Al contrario, Fitoussi, il quale è professore presso il “mitico” Iep (Institut d’études politiques) parigino, presidente dell’Ofce (l’Osservatorio francese della congiuntura economica) e segretario generale dell’Association Internationale des Sciences economiques – nonché editorialista di Le Monde (in Italia, di la Repubblica) e docente all’Istituto universitario europeo – prende posizione sulle questioni ed evita di raccontarci la “bella favoletta” dell’economia come disciplina rigorosamente tecnica, indipendente da qualunque considerazione e opzione politica. Mostrando anche quella che potremmo chiamare una sorta di “attitudine umanistica”, una propensione a ragionare globalmente che non si riscontra, chiaramente, tra i custodi dell’ortodossia monetarista e le vestali del Washington consensus.
E allora l’economista parigino, come già si era rivelato attento a denunciare il deficit democratico dell’architettura istituzionale dell’Unione europea (governata da una sorta di “dittatore benevolo”, come scriveva nel volume pubblicato dal Mulino), così, nel suo nuovo libro appena uscito da Feltrinelli, si applica a indagare le relazioni tra Stato, democrazia e mercato per rintuzzare alcune delle tesi antistataliste da bar sport (Fitoussi dixit!) sparse a piene mani dai discendenti dei Chicago boys.
Se i rapporti tra politica e capitalismo appaiono segnati da una specie di irriducibile antagonismo (essendo il secondo fondato, in definitiva, su un’ideologia dell’esclusione che necessita, a giudizio dei corifei del neoliberismo, di un oceano di individui atomizzati, “ciascuno per sé e Dio – non certamente lo Stato… – per tutti”), Fitoussi si dedica a dimostrare come, in realtà, il “regime politico ottimale” per un’economia di mercato coincida, contrariamente a quanto sostengono quei signori, proprio con la democrazia. Ossia, il solo sistema politico capace – in virtù delle reti di sicurezza collettiva presenti al suo interno – di garantire un’autentica efficienza economica, come evidenziano, dati alla mano per l’appunto (e non “chiacchiere da bar sport” o da hall di hotel superluxe), statistiche e indagini, dalle quali si evince come siano precisamente le società più solidali a risultare anche quelle maggiormente “performanti” dal punto di vista produttivo.
Tra la visione della “democrazia come lusso” (inutile e voluttuario!) di Robert Barro e la descrizione dei vantaggi – anche, per l’appunto, economici – dei sistemi democratici rispetto a quelli autoritari effettuata da Dani Rodrik, l’autore sposa nettamente la seconda, e invita a rigettare l’ideologia assolutista del mercato, invertendo il segno “americano” (improntato alla crescita invereconda delle disuguaglianze, secondo il modello del “ritorno a Maria Antonietta” coniato da Edward Wolff) del processo di globalizzazione, per incamminarsi nella direzione di una mondializzazione che, invece, sappia trarre dall’apertura dei mercati e dall’intensificarsi degli scambi la possibilità di un futuro migliore per tutti, popoli e individui.
Proprio da un cittadino americano arriva l’atto d’accusa forse più duro (poiché dettagliatamente documentato e difficilmente connotabile quale “ideologico”) degli ultimi tempi, indirizzato contro la nefasta egemonia neoliberista degli Stati Uniti sull’economia globale. Ne I ruggenti anni Novanta, il notissimo Stiglitz (premio Nobel nel 2001, già senior vice president della Banca mondiale e capo del Consiglio dei consulenti economici del primo governo Clinton, oggi docente alla Columbia university), raccontando l’economia americana dell’ultimo decennio, le sue vicissitudini e i suoi scandali societari – dall’esplosione della bolla speculativa collegata alla new economy sino agli innumerevoli casi Enron e WorldCom, sfortunatamente solo la punta dell’iceberg – ci fa assistere alla proiezione di una sorta di lungo film dell’orrore, dove i vampiri sono impersonati da personaggi alla Kenneth Lay (grande sponsor e amico personale di Bush junior) e dai suoi rapaci colleghi, riedizione versione Duemila dei feroci “baroni ladroni” di fine Ottocento da cui era scaturito, nel ferro e nel fuoco, il capitalismo Usa.
Stiglitz non risparmia neppure un’Europa troppo a lungo affascinata dal liberismo sfrenato e deregolamentato (e attraversata, non a caso, dalle vicende Vivendi, Ahold, Parmalat) in antitesi alla sua giusta tradizione, e nemmeno Bill Clinton, il quale non seppe (o non poté) realizzare l’equilibrio tra Stato e mercato che costituiva uno degli obiettivi qualificanti della Terza via. Quella finalità deve essere ripresa dall’”idealismo democratico” di cui, dice Stiglitz, abbiamo oggi un’urgenza assoluta. Accanto alla pars destruens e ad un’analisi storica di grande precisione e capacità narrativa, il libro ne presenta, infatti, anche una construens che consegna ai progressisti il compito – e l’obbligo morale – di lavorare all’edificazione di un mondo almeno un po’ migliore, conciliando crescita economica e giustizia sociale e attribuendo connotati diversi alla globalizzazione imperante che rischia, se non corretta in extremis, di portarci tutti quanti dritti in fondo al baratro.

 

 

 

 

 

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