Jean-Paul Fitoussi,
La democrazia e il mercato,
Feltrinelli,
pp. 80, euro 8
Joseph E. Stiglitz,
I ruggenti anni Novanta.
Lo scandalo della finanza e il futuro dell’economia,
Einaudi, pp. 334, euro 16
La critica del cosiddetto “pensiero unico”
neoliberista non è più, da qualche tempo,
appannaggio esclusivo della sinistra (o dei residui
della destra anticapitalistica), ma viene svolta, nel
modo maggiormente brillante ed efficace, da intellettuali
ed economisti di matrice liberale (liberali “veri”
– i quali sposano alla fine posizioni progressiste
– e non sedicenti tali), conoscitori esemplari,
di “prima mano” (per averla frequentata
e, spesso, diretta e orientata) dell’economia
di mercato e dei suoi meccanismi di funzionamento. Stiamo
parlando di una critica dura e di un’opposizione
forte, che si avvale di argomentazioni tecniche stringenti,
oltre che dell’evidenza dei fatti.
Ad andare all’assalto della dogmatica neoliberista
sono, per portare l’esempio più recente,
gli ultimi libri di due illustri studiosi di economia
decisamente convergenti nell’analisi, pur essendo
espressione di quelle – benefiche – differenze
culturali tra i “progressismi” del Vecchio
e del Nuovo continente (riflesso di due visioni del
mondo e ways of life) che, in questo caso,
fanno la ricchezza dell’Occidente. Ovvero, La
democrazia e il mercato di Jean-Paul Fitoussi (del
quale era andato in libreria, qualche tempo fa, anche
Il dittatore benevolo. Saggio sul governo
dell’Europa, il Mulino, pp. 118,
euro 9) e I ruggenti anni Novanta. Lo scandalo
della finanza e il futuro dell’economia di
Joseph E. Stiglitz.
Jean-Paul Fitoussi rappresenta, da sempre, uno dei “campioni”
di un certo modo di intendere l’economia “all’europea”;
un economista francese, continentale che ben poco (anzi,
nulla…) ha a che spartire con i settorialismi,
i superspecialismi e la pretesa volontà di neutralità
ed obiettività ostentati a ogni pie’ sospinto
dai suoi colleghi anglosassoni. Al contrario, Fitoussi,
il quale è professore presso il “mitico”
Iep (Institut d’études politiques) parigino,
presidente dell’Ofce (l’Osservatorio francese
della congiuntura economica) e segretario generale dell’Association
Internationale des Sciences economiques – nonché
editorialista di Le Monde (in Italia, di la
Repubblica) e docente all’Istituto universitario
europeo – prende posizione sulle questioni ed
evita di raccontarci la “bella favoletta”
dell’economia come disciplina rigorosamente tecnica,
indipendente da qualunque considerazione e opzione politica.
Mostrando anche quella che potremmo chiamare una sorta
di “attitudine umanistica”, una propensione
a ragionare globalmente che non si riscontra, chiaramente,
tra i custodi dell’ortodossia monetarista e le
vestali del Washington consensus.
E allora l’economista parigino, come già
si era rivelato attento a denunciare il deficit democratico
dell’architettura istituzionale dell’Unione
europea (governata da una sorta di “dittatore
benevolo”, come scriveva nel volume pubblicato
dal Mulino), così, nel suo nuovo libro appena
uscito da Feltrinelli, si applica a indagare le relazioni
tra Stato, democrazia e mercato per rintuzzare alcune
delle tesi antistataliste da bar sport (Fitoussi
dixit!) sparse a piene mani dai discendenti dei
Chicago boys.
Se i rapporti tra politica e capitalismo appaiono segnati
da una specie di irriducibile antagonismo (essendo il
secondo fondato, in definitiva, su un’ideologia
dell’esclusione che necessita, a giudizio dei
corifei del neoliberismo, di un oceano di individui
atomizzati, “ciascuno per sé e Dio –
non certamente lo Stato… – per tutti”),
Fitoussi si dedica a dimostrare come, in realtà,
il “regime politico ottimale” per un’economia
di mercato coincida, contrariamente a quanto sostengono
quei signori, proprio con la democrazia. Ossia, il solo
sistema politico capace – in virtù delle
reti di sicurezza collettiva presenti al suo interno
– di garantire un’autentica efficienza economica,
come evidenziano, dati alla mano per l’appunto
(e non “chiacchiere da bar sport” o da hall
di hotel superluxe), statistiche e indagini, dalle quali
si evince come siano precisamente le società
più solidali a risultare anche quelle maggiormente
“performanti” dal punto di vista produttivo.
Tra la visione della “democrazia come lusso”
(inutile e voluttuario!) di Robert Barro e la descrizione
dei vantaggi – anche, per l’appunto, economici
– dei sistemi democratici rispetto a quelli autoritari
effettuata da Dani Rodrik, l’autore sposa nettamente
la seconda, e invita a rigettare l’ideologia assolutista
del mercato, invertendo il segno “americano”
(improntato alla crescita invereconda delle disuguaglianze,
secondo il modello del “ritorno a Maria Antonietta”
coniato da Edward Wolff) del processo di globalizzazione,
per incamminarsi nella direzione di una mondializzazione
che, invece, sappia trarre dall’apertura dei mercati
e dall’intensificarsi degli scambi la possibilità
di un futuro migliore per tutti, popoli e individui.
Proprio da un cittadino americano arriva l’atto
d’accusa forse più duro (poiché
dettagliatamente documentato e difficilmente connotabile
quale “ideologico”) degli ultimi tempi,
indirizzato contro la nefasta egemonia neoliberista
degli Stati Uniti sull’economia globale. Ne I
ruggenti anni Novanta, il notissimo Stiglitz (premio
Nobel nel 2001, già senior vice president
della Banca mondiale e capo del Consiglio dei consulenti
economici del primo governo Clinton, oggi docente alla
Columbia university), raccontando l’economia americana
dell’ultimo decennio, le sue vicissitudini e i
suoi scandali societari – dall’esplosione
della bolla speculativa collegata alla new economy
sino agli innumerevoli casi Enron e WorldCom, sfortunatamente
solo la punta dell’iceberg – ci
fa assistere alla proiezione di una sorta di lungo film
dell’orrore, dove i vampiri sono impersonati da
personaggi alla Kenneth Lay (grande sponsor e amico
personale di Bush junior) e dai suoi rapaci colleghi,
riedizione versione Duemila dei feroci “baroni
ladroni” di fine Ottocento da cui era scaturito,
nel ferro e nel fuoco, il capitalismo Usa.
Stiglitz non risparmia neppure un’Europa troppo
a lungo affascinata dal liberismo sfrenato e deregolamentato
(e attraversata, non a caso, dalle vicende Vivendi,
Ahold, Parmalat) in antitesi alla sua giusta tradizione,
e nemmeno Bill Clinton, il quale non seppe (o non poté)
realizzare l’equilibrio tra Stato e mercato che
costituiva uno degli obiettivi qualificanti della Terza
via. Quella finalità deve essere ripresa dall’”idealismo
democratico” di cui, dice Stiglitz, abbiamo oggi
un’urgenza assoluta. Accanto alla pars destruens
e ad un’analisi storica di grande precisione e
capacità narrativa, il libro ne presenta, infatti,
anche una construens che consegna ai progressisti
il compito – e l’obbligo morale –
di lavorare all’edificazione di un mondo almeno
un po’ migliore, conciliando crescita economica
e giustizia sociale e attribuendo connotati diversi
alla globalizzazione imperante che rischia, se non corretta
in extremis, di portarci tutti quanti dritti in fondo
al baratro.
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