264 - 30.10.04


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Un’altra economia è possibile?
Chiara De Felice


Michael Albert
Il libro dell’economia partecipativa.
La vita dopo il capitalismo,

il Saggiatore, pp. 384, euro 20

“Quando qualcuno dice che è utopistico pensare che si possa superare il capitalismo, dovrebbe piangere. Sarebbe come dire che, in qualche epoca passata, non si poteva superare la schiavitù”. Di questo è convinto Michael Albert il quale, dopo lunghe ed approfondite meditazioni e serrati dibattiti ha dato vita ad un’alternativa al sistema esistente chiamata Partecipatory Economics, meglio conosciuta dagli amici – ovvero i movimenti antiglobalizzazione - come ParEcon, una nuova visione economica, un modello da adottare su larga scala.

Tra i più attivi giornalisti radicali statunitensi, dalle pagine della sua rivista on line Z Magazine Albert tiene vivo il dibattito non sull’eventualità di un altro mondo possibile, ma sul profilo da dare ad esso, e in quella che è la sintesi ultima del suo pensiero propone la sua via alle riforme “non riformiste”, ponendo una serie di obbiettivi concreti. “Attualmente il commercio sui mercati arreca maggior beneficio in maniera preponderante a quelli che vi accedono possedendo maggiori risorse”. Spiega Albert che quando lo scambio ha luogo tra una multinazionale statunitense ed un’entità locale del Messico, del Guatemala o della Tailandia, i benefici non vanno in misura maggiore alla parte più debole e con minori ricchezze, né si dividono equamente, ma finiscono in misura sproporzionata nelle mani del più forte, che così rafforza la sua posizione dominante; col risultato che delle 100 maggiori realtà economiche al mondo, 52 non sono paesi, sono multinazionali. Allo stesso modo, nell’ambito del mercato, la competizione per le risorse, per i guadagni e per il potere è spesso un gioco a somma nulla.

“Per avanzare, ogni attore approfitta del fallimento degli altri, così che la globalizzazione capitalista favorisce un atteggiamento egoistico ed un ‘vengo prima io’ che generano ostilità e distruggono la solidarietà tra gli individui, le industrie e gli stati”. Ciò che è pubblico e sociale è sminuito, sostiene Albert, e ciò che è privato osannato. Il benessere umano e lo sviluppo per tutti non sono precetti guida e la solidarietà conduce una battaglia di retrovia contro la globalizzazione capitalista. Gli attivisti anti-globalizzazione, infatti, si oppongono ad essa perché viola l’equità, la diversità, l’auto-gestione e l’equilibrio biologico che essi inseguono. Ma cosa propongono in sostituzione dell’assetto odierno? Albert ha un programma preciso da suggerire loro, preso atto che è diventato oramai necessario agire per sostituzione e non per riforma di istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale che, create con giusti fini, hanno poi cambiato programma in corsa.

Invece di favorire la stabilità dei tassi di cambio ed aiutare i paesi a proteggersi dalle fluttuazioni finanziarie, il Fmi cominciò a rimuovere ogni ostacolo ai movimenti di capitale e alla ricerca sfrenata del profitto, praticamente il contrario di quanto previsto dal suo mandato. Invece di facilitare l’investimento per conto delle economie locali povere, la Banca Mondiale divenne uno strumento del Fmi, fornendo e ritirando i crediti per costringere i paesi ad aprirsi alle multinazionali. Sostituendole con un’agenzia mondiale per le risorse, una globale per l’assistenza agli investimenti e una per il commercio, si lavorerebbe per sostenere l’equità, la solidarietà, la diversità, l’autogestione e l’equilibrio ambientale negli scambi finanziari, commerciali e culturali internazionali.

E la proprietà privata, cardine del sistema capitalistico? Da eliminare senza dubbio secondo Albert, che descrive il passaggio alla proprietà sociale dei mezzi di produzione, caratteristica fondamentale di un’Economia Partecipativa insieme ad altre tra cui la creazione di Consigli Autogestiti dei Lavoratori e i Consigli dei Consumatori (“Ogni luogo di lavoro è governato da un consiglio dei lavoratori, in cui tutti i lavoratori hanno gli stessi diritti e responsabilità decisionali); le combinazioni bilanciate di mansioni (“Le cose da fare più routinarie, servili e pericolose non sarebbero accollate in maniera predominante sempre alle stesse persone”) in nome dell’equità e della vera democrazia. E ancora l’obiettivo del Giusto Compenso: “Essere ricchi grazie alle proprietà ereditate non remunera una persona per qualcosa di meritevole che abbia fatto, né le fornisce un incentivo a fare qualcosa che altrimenti non farebbe”. Dunque la remunerazione dei lavoratori sarà in base all’impegno e al sacrificio (per chi può lavorare) o rapportata ai bisogni (per chi non può lavorare). Ma come fronteggiare oggi una situazione in cui l’1% della popolazione detiene circa il 40% della ricchezza degli Stati Uniti? E Bill Gates da solo, ad esempio, ha un patrimonio superiore al Pil di Zimbabwe, Ghana, Islanda, Panama, Costa Rica, Kenya, El Salvador e Repubblica Domenicana messi assieme? La prima cosa da fare, secondo Albert, porta un nome antico: redistribuzione del reddito, ovvero sottrarre una parte della ricchezza alle classi capitaliste e redistribuirla per il benessere sociale, attraverso tasse sulla rendita, sulla ricchezza e sui beni di lusso, che prelevano quel capitale che alcune persone non dovrebbero accumulare e lo rimettono nel paniere sociale, riducendo con ciò le disparità eccessive.

All’obiezione che il modello di economia partecipativa non stimoli sufficientemente la spinta all’innovazione, Albert replica che gli incentivi sociali sono altrettanto o, addirittura, più potenti di quelli materiali, e il riconoscimento diretto dell’utilità sociale in un’economia partecipativa è un incentivo molto potente. Inoltre, “una ParEcon è più adatta ad allocare efficientemente risorse in attività di ricerca e sviluppo, perché queste sono generalmente un bene pubblico fornito in misura insufficiente nelle economie di mercato”. E soprattutto i benefici delle innovazioni in un’economia partecipativa sarebbero destinati in modo più efficiente proprio a chi ne ha più bisogno, considerando che, in un mercato capitalistico, capitano paradossi come quello degli scarsi incentivi materiali nel settore farmaceutico che, quando vengono incrementati con l’istituzione di brevetti, diventano il maggiore ostacolo a far giungere i farmaci a chi ne ha più urgenza.

 

 

 

 

 

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