Michael
Albert
Il libro dell’economia partecipativa.
La vita dopo il capitalismo,
il Saggiatore, pp. 384, euro 20
“Quando qualcuno dice che è utopistico
pensare che si possa superare il capitalismo, dovrebbe
piangere. Sarebbe come dire che, in qualche epoca passata,
non si poteva superare la schiavitù”. Di
questo è convinto Michael Albert il quale, dopo
lunghe ed approfondite meditazioni e serrati dibattiti
ha dato vita ad un’alternativa al sistema esistente
chiamata Partecipatory Economics, meglio conosciuta
dagli amici – ovvero i movimenti antiglobalizzazione
- come ParEcon, una nuova visione economica, un modello
da adottare su larga scala.
Tra i più attivi giornalisti radicali statunitensi,
dalle pagine della sua rivista on line Z
Magazine Albert tiene vivo il dibattito non sull’eventualità
di un altro mondo possibile, ma sul profilo da dare
ad esso, e in quella che è la sintesi ultima
del suo pensiero propone la sua via alle riforme “non
riformiste”, ponendo una serie di obbiettivi concreti.
“Attualmente il commercio sui mercati arreca maggior
beneficio in maniera preponderante a quelli che vi accedono
possedendo maggiori risorse”. Spiega Albert che
quando lo scambio ha luogo tra una multinazionale statunitense
ed un’entità locale del Messico, del Guatemala
o della Tailandia, i benefici non vanno in misura maggiore
alla parte più debole e con minori ricchezze,
né si dividono equamente, ma finiscono in misura
sproporzionata nelle mani del più forte, che
così rafforza la sua posizione dominante; col
risultato che delle 100 maggiori realtà economiche
al mondo, 52 non sono paesi, sono multinazionali. Allo
stesso modo, nell’ambito del mercato, la competizione
per le risorse, per i guadagni e per il potere è
spesso un gioco a somma nulla.
“Per avanzare, ogni attore approfitta del fallimento
degli altri, così che la globalizzazione capitalista
favorisce un atteggiamento egoistico ed un ‘vengo
prima io’ che generano ostilità e distruggono
la solidarietà tra gli individui, le industrie
e gli stati”. Ciò che è pubblico
e sociale è sminuito, sostiene Albert, e ciò
che è privato osannato. Il benessere umano e
lo sviluppo per tutti non sono precetti guida e la solidarietà
conduce una battaglia di retrovia contro la globalizzazione
capitalista. Gli attivisti anti-globalizzazione, infatti,
si oppongono ad essa perché viola l’equità,
la diversità, l’auto-gestione e l’equilibrio
biologico che essi inseguono. Ma cosa propongono in
sostituzione dell’assetto odierno? Albert ha un
programma preciso da suggerire loro, preso atto che
è diventato oramai necessario agire per sostituzione
e non per riforma di istituzioni come il Fondo Monetario
Internazionale e la Banca Mondiale che, create con giusti
fini, hanno poi cambiato programma in corsa.
Invece di favorire la stabilità dei tassi di
cambio ed aiutare i paesi a proteggersi dalle fluttuazioni
finanziarie, il Fmi cominciò a rimuovere ogni
ostacolo ai movimenti di capitale e alla ricerca sfrenata
del profitto, praticamente il contrario di quanto previsto
dal suo mandato. Invece di facilitare l’investimento
per conto delle economie locali povere, la Banca Mondiale
divenne uno strumento del Fmi, fornendo e ritirando
i crediti per costringere i paesi ad aprirsi alle multinazionali.
Sostituendole con un’agenzia mondiale per le risorse,
una globale per l’assistenza agli investimenti
e una per il commercio, si lavorerebbe per sostenere
l’equità, la solidarietà, la diversità,
l’autogestione e l’equilibrio ambientale
negli scambi finanziari, commerciali e culturali internazionali.
E la proprietà privata, cardine del sistema
capitalistico? Da eliminare senza dubbio secondo Albert,
che descrive il passaggio alla proprietà sociale
dei mezzi di produzione, caratteristica fondamentale
di un’Economia Partecipativa insieme ad altre
tra cui la creazione di Consigli Autogestiti dei Lavoratori
e i Consigli dei Consumatori (“Ogni luogo di lavoro
è governato da un consiglio dei lavoratori, in
cui tutti i lavoratori hanno gli stessi diritti e responsabilità
decisionali); le combinazioni bilanciate di mansioni
(“Le cose da fare più routinarie, servili
e pericolose non sarebbero accollate in maniera predominante
sempre alle stesse persone”) in nome dell’equità
e della vera democrazia. E ancora l’obiettivo
del Giusto Compenso: “Essere ricchi grazie alle
proprietà ereditate non remunera una persona
per qualcosa di meritevole che abbia fatto, né
le fornisce un incentivo a fare qualcosa che altrimenti
non farebbe”. Dunque la remunerazione dei lavoratori
sarà in base all’impegno e al sacrificio
(per chi può lavorare) o rapportata ai bisogni
(per chi non può lavorare). Ma come fronteggiare
oggi una situazione in cui l’1% della popolazione
detiene circa il 40% della ricchezza degli Stati Uniti?
E Bill Gates da solo, ad esempio, ha un patrimonio superiore
al Pil di Zimbabwe, Ghana, Islanda, Panama, Costa Rica,
Kenya, El Salvador e Repubblica Domenicana messi assieme?
La prima cosa da fare, secondo Albert, porta un nome
antico: redistribuzione del reddito, ovvero sottrarre
una parte della ricchezza alle classi capitaliste e
redistribuirla per il benessere sociale, attraverso
tasse sulla rendita, sulla ricchezza e sui beni di lusso,
che prelevano quel capitale che alcune persone non dovrebbero
accumulare e lo rimettono nel paniere sociale, riducendo
con ciò le disparità eccessive.
All’obiezione che il modello di economia partecipativa
non stimoli sufficientemente la spinta all’innovazione,
Albert replica che gli incentivi sociali sono altrettanto
o, addirittura, più potenti di quelli materiali,
e il riconoscimento diretto dell’utilità
sociale in un’economia partecipativa è
un incentivo molto potente. Inoltre, “una ParEcon
è più adatta ad allocare efficientemente
risorse in attività di ricerca e sviluppo, perché
queste sono generalmente un bene pubblico fornito in
misura insufficiente nelle economie di mercato”.
E soprattutto i benefici delle innovazioni in un’economia
partecipativa sarebbero destinati in modo più
efficiente proprio a chi ne ha più bisogno, considerando
che, in un mercato capitalistico, capitano paradossi
come quello degli scarsi incentivi materiali nel settore
farmaceutico che, quando vengono incrementati con l’istituzione
di brevetti, diventano il maggiore ostacolo a far giungere
i farmaci a chi ne ha più urgenza.
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