263 - 16.10.04


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Il mercato perfetto non è di questo mondo
Michele Salvati


L’articolo che segue è la presentazione dell’ultimo numero di “Politeia – Rivista di etica e scelte pubbliche” (n.74 – 2004- pagg.320) dal titolo Business Ethics and Corporate Social responsability in a Global Economy. Il volume, interamente dedicato ai temi della responsabilità sociale dell’impresa e dell’etica degli affari, contiene contributi di alcuni tra i maggiori esperti dell’argomento tra cui R. Edward Freeman, S. Prakash Sethi, Alberto Martinelli, Emilio D'Orazio, Marco Vitale.
Il fascicolo è disponibile solo nelle librerie Freltrinelli oppure
presso il centro studi di Milano: www.politeia-centrostudi.org, e mail: politeia@fildir.unimi.it.

Ho iniziato la mia carriera di economista come studioso di teoria dell’impresa, a Cambridge UK, sotto la guida di Robin Marris. Era la metà degli anni ’60 e Marris aveva appena pubblicato un libro di grande successo, The Economic Theory of Managerial Capitalism, nel quale sosteneva che i managers della grande impresa potevano entro certi limiti sacrificare lo shareholder value al fine di massimizzare il tasso di crescita dell’organizzazione che dirigevano. Potevano fare così perché la tensione concorrenziale sui mercati dei prodotti e dei capitali non era tanto estrema da costringerli alla massimizzazione del profitto (del valore per gli azionisti, oggi diremmo); e di fatto così facevano perché le loro ambizioni come managers sarebbero state tanto più soddisfatte, quanto maggiore fosse stata la dimensione dell’impresa in termini di dipendenti e di valore aggiunto. Insomma, il tasso di profitto sul capitale proprio, il valore per gli azionisti, era un vincolo, non l’obiettivo da massimizzare. Era la prima volta che un economista teorico affrontava in pieno il grande problema che Berle e Means avevano sollevato una generazione prima e mi colpì subito il fatto che, per affermare la rilevanza di finalità diverse dalla massimizzazione del profitto nelle strategie d’impresa, egli sentisse il bisogno di allentare le condizioni di concorrenza nelle quali le grandi imprese operavano.

Oltre il profitto, i fini dell’impresa (entro certi limiti)

Il motivo per cui quelle condizioni devono essere allentate è semplice. Per un economista che scambi il modello di equilibrio generale competitivo con una rappresentazione affidabile della realtà dei mercati e delle imprese, l’idea stessa che l’impresa possa perseguire finalità diverse dalla massimizzazione del profitto è radicalmente sbagliata, sia sotto il punto di vista “positivo” che sotto quello “normativo”. E’ sbagliata sotto il primo perché l’impresa non può, in condizioni di concorrenza perfetta sui mercati dei prodotti e dei fattori, fare altro che massimizzare i profitti, se vuole sopravvivere. Ed è sbagliata sotto il secondo perché “ogni equilibrio competitivo corrisponde ad un ottimo paretiano”, come recita il primo teorema dell’economia del benessere.

Insomma, l’impresa pensi solo a massimizzare i profitti, senza grilli per il capo, senza finalità aggiuntive o alternative, e così facendo darà anche il massimo contributo possibile al benessere della comunità in cui opera.
Naturalmente – e in specie a Cambridge, il centro della ricerca teorica sulle imperfezioni di mercato - si sapeva benissimo che la concorrenza perfetta non est de hoc mundo. E non lo è per ragioni più profonde di quelle che una semplice ricognizione empirica bastava a rivelare. Erano infatti iniziati, sotto l’influenza dei lavori di Herbert Simon, degli studi accurati sui requisiti cognitivi che un modello di equilibrio economico generale (e la stessa ipotesi di massimizzazione) richiedono e da poco era stato pubblicato il libro di Cyert e March, A Behavioural Theory of the Firm, che ne faceva una prima estensione alla teoria dell’impresa e dei mercati. Quei requisiti sono così rigorosi ed estremi che non possono essere soddisfatti da nessun decisore umano, il quale normalmente procede seguendo obiettivi di “satisficing”, non di “optimising”: massimizzare il profitto o qualsiasi altra variabile, in condizioni di incertezza e in presenza di limiti cognitivi insuperabili, non ha alcun significato rigoroso. Insomma, sia per le imperfezioni dei mercati in cui operano le grandi imprese, sia per i margini di discrezionalità che introduce una corretta descrizione degli effettivi processi decisionali dell’impresa, l’impresa può scegliere, entro certi limiti, tra finalità diverse; e può scegliere tra modi diversi di raggiungere una stessa finalità.

Entro quali limiti? Quali sono i suoi margini di discrezionalità? Cacciato dalla porta nella sua forma più estrema e rigorosa, il ragionamento degli economisti neoclassici circa i vincoli che la concorrenza pone alla discrezionalità del management rientra dalla finestra in forme più attenuate, ma anche meno facilmente contestabili. Più o meno suona così: in condizioni di mercato imperfette, con un grado di monopolio elevato, oppure quando i mercati sono in espansione e il profitto “potenziale” molto alto, l’impresa può tranquillamente sacrificarne una parte per perseguire altre finalità: per crescere a rotta di collo, come vogliono i managers di Robin Marris, anche oltre i livelli che garantirebbero il massimo valore per gli azionisti; per oliare oltre il dovuto le relazioni industriali al fine di evitare defatiganti tensioni con maestranze e sindacati; per beneficiare i più diversi stakeholders e per acquisire meriti nelle comunità in cui è insediata. Insomma, nelle condizioni appena descritte si formano dei margini oltre ai costi “necessari”: margini che possono assorbiti o da pura e semplice inefficienza (slack organizzativo o X-inefficiency, come è stato anche chiamato questo fenomeno), oppure possono riversarsi nelle più diverse finalità. E tra queste finalità ci stanno naturalmente quelle che sono sottolineate dagli studiosi della Corporate Social Responsibility.

Una questione di costi necessari

Proprio da queste semplici considerazione parte S. Prakash Sethi - uno degli autori presenti nel fascicolo di Politeia e tra i più noti studiosi di Corporate Social Responsibility - in un suo lavoro di alcuni anni fa (Imperfect Markets: Business Ethics as an Easy Virtue, “Journal of Business Ethics”, 13, 1994). Ne consiglio la lettura perché Prakash Sethi non si ferma qui, ma indaga quali sono le condizioni nelle quali le imprese operanti in mercati dei beni e dei fattori imperfetti sono indotte ad incorporare nel loro comportamenti standards elevati di comportamento etico. Procedo con parole mie, limitando la portata della versione “debole” dell’argomento concorrenziale che ho appena esposto.

E’ proprio vero che sono necessari dei margini sopra i costi “necessari” – quei margini che solo un certo grado di monopolio può dare- affinché l’impresa possa comportarsi eticamente? In altre parole: affinché possa preferire un comportamento eticamente responsabile (e più costoso, quantomeno nel breve periodo), anziché riversare quei margini, quel surplus, in una smodata remunerazione di dirigenti e maestranze, nella corruzione dell’autorità pubblica, in progetti di sviluppo avventati? Che cosa sono i costi “necessari”? Non certo i costi che conseguirebbero da una situazione di concorrenza perfetta, che, appunto, non est de hoc mundo. I minori costi possibili, date le circostanze? Quid, però, se la gran parte delle imprese concorrenti considera come costi che le condizioni ambientali le impongono anche quelli di un comportamento responsabile verso la comunità e gli stakeholders? In questo caso anche i costi “necessari” saranno più elevati per tutte le imprese e dunque un’impresa che li assume non è minacciata dalla concorrenza di quelle che li evitano. Ci saranno sempre free-riders, naturalmente, ci saranno rogue firms che si avvantaggiano dal non rispettare norme sociali che le altre rispettano. Ma saranno casi marginali, rapidamente isolati dallo stesso ambiente degli affari, oltreché dai consumatori, dagli stakeholders e dall’opinione pubblica.

L’argomento ha una certa forza, anche se non bisogna esagerarne la portata. Si tratta pur sempre di norme sociali, meno cogenti delle norme di onestà, trasparenza e accountability stabilite per legge: se un miraggio di arricchimento facile ha indotto i managers di molte grandi imprese –e non poche dotate di elaborati statuti redatti dai migliori esperti di Business Ethics- a truffe colossali, possiamo immaginare che cosa avviene per i codici di condotta relativi alla responsabilità sociale se la situazione economica diventa difficile o la concorrenza più dura. Ma le norme sociali contano, i codici etici possono essere interiorizzati e gli spiriti di rapina del capitalismo sregolato possono essere domati: nonostante Enron e Parmalat, siamo in tempi assai migliori che nell’epoca dei Robber Barons. Si tratta però di processi lunghi e sempre minacciati da possibili inversioni di tendenza. Di processi che esigono l’aiuto di regolazioni pubbliche, una volta che una norma sociale si sia consolidata. Che esigono la presenza vigile di istituzioni indipendenti e rispettate. Che esigono a volte l’intervento di attori organizzati che diano voce agli stakeholders, come i sindacati l’hanno data ai lavoratori dipendenti.

Essere socialmente responsabile conviene?

Queste sono le considerazioni che mi inducono a dubitare dell’argomento “essere socialmente responsabile conviene”, se è avanzato come ragione principale dell’effettivo comportamento dell’impresa. Conviene essere socialmente responsabile se l’impresa già vive in un contesto che premia questo comportamento e punisce chi da esso devia. Oppure conviene qualche volta ma non sempre, ad alcune imprese e ad altre no: a volte, o per alcuni settori, conviene stabilire buone relazioni di lungo periodo con i principali stakeholders e con le comunità in cui l’impresa vive; a volte, e per altri settori, conviene “fare il fieno finché c’è il sole”, come dice un proverbio inglese, fare profitti e poi scappare.

Per menzionare un altro noto studioso il cui contributo appare nel fascicolo di Politeia: il “capitalismo kantiano” di Edward Freeman mi piace molto, ma che cosa avviene quando i “contratti equi” – è sempre un suo concetto - si scontrano contro l’esigenza di fare il fieno finché c’è giorno, e, più in generale, nei tanti casi in cui essere buoni… non conviene? Non intendo criticare le sofisticate costruzioni – in termini di dover essere - che alcuni filosofi stanno erigendo, l’articolazione normativa sempre più raffinata della responsabilità sociale dell’impresa. Anche queste teorie fanno parte dell’ambiente di cui prima dicevo, quello che poi costringe le imprese ad essere “buone”; anche queste teorie contribuiscono a costruire un paese civile, in cui possono diffondersi comportamenti d’impresa eticamente adeguati. Ma partire dal presupposto che conviene sempre essere socialmente responsabili – nel senso pieno e ricco delle teorie cui mi sono riferito - mi sembra che sfidi l’evidenza di un capitalismo nel quale persino l’essere onesti può non convenire.

 

 

 

 

 

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