L’articolo
che segue è la presentazione dell’ultimo
numero di “Politeia – Rivista di etica e
scelte pubbliche” (n.74 – 2004- pagg.320)
dal titolo Business Ethics and Corporate Social
responsability in a Global Economy. Il volume,
interamente dedicato ai temi della responsabilità
sociale dell’impresa e dell’etica degli
affari, contiene contributi di alcuni tra i maggiori
esperti dell’argomento tra cui R. Edward Freeman,
S. Prakash Sethi, Alberto Martinelli, Emilio D'Orazio,
Marco Vitale.
Il fascicolo è disponibile solo nelle librerie
Freltrinelli oppure
presso il centro studi di Milano: www.politeia-centrostudi.org,
e mail: politeia@fildir.unimi.it.
Ho iniziato la mia carriera di economista come studioso
di teoria dell’impresa, a Cambridge UK, sotto
la guida di Robin Marris. Era la metà degli anni
’60 e Marris aveva appena pubblicato un libro
di grande successo, The Economic Theory of Managerial
Capitalism, nel quale sosteneva che i managers
della grande impresa potevano entro certi limiti sacrificare
lo shareholder value al fine di massimizzare il tasso
di crescita dell’organizzazione che dirigevano.
Potevano fare così perché la tensione
concorrenziale sui mercati dei prodotti e dei capitali
non era tanto estrema da costringerli alla massimizzazione
del profitto (del valore per gli azionisti, oggi diremmo);
e di fatto così facevano perché le loro
ambizioni come managers sarebbero state tanto più
soddisfatte, quanto maggiore fosse stata la dimensione
dell’impresa in termini di dipendenti e di valore
aggiunto. Insomma, il tasso di profitto sul capitale
proprio, il valore per gli azionisti, era un vincolo,
non l’obiettivo da massimizzare. Era la prima
volta che un economista teorico affrontava in pieno
il grande problema che Berle e Means avevano sollevato
una generazione prima e mi colpì subito il fatto
che, per affermare la rilevanza di finalità diverse
dalla massimizzazione del profitto nelle strategie d’impresa,
egli sentisse il bisogno di allentare le condizioni
di concorrenza nelle quali le grandi imprese operavano.
Oltre il profitto, i fini dell’impresa
(entro certi limiti)
Il motivo per cui quelle condizioni devono essere allentate
è semplice. Per un economista che scambi il modello
di equilibrio generale competitivo con una rappresentazione
affidabile della realtà dei mercati e delle imprese,
l’idea stessa che l’impresa possa perseguire
finalità diverse dalla massimizzazione del profitto
è radicalmente sbagliata, sia sotto il punto
di vista “positivo” che sotto quello “normativo”.
E’ sbagliata sotto il primo perché l’impresa
non può, in condizioni di concorrenza perfetta
sui mercati dei prodotti e dei fattori, fare altro che
massimizzare i profitti, se vuole sopravvivere. Ed è
sbagliata sotto il secondo perché “ogni
equilibrio competitivo corrisponde ad un ottimo paretiano”,
come recita il primo teorema dell’economia del
benessere.
Insomma, l’impresa pensi solo a massimizzare
i profitti, senza grilli per il capo, senza finalità
aggiuntive o alternative, e così facendo darà
anche il massimo contributo possibile al benessere della
comunità in cui opera.
Naturalmente – e in specie a Cambridge, il centro
della ricerca teorica sulle imperfezioni di mercato
- si sapeva benissimo che la concorrenza perfetta non
est de hoc mundo. E non lo è per ragioni
più profonde di quelle che una semplice ricognizione
empirica bastava a rivelare. Erano infatti iniziati,
sotto l’influenza dei lavori di Herbert Simon,
degli studi accurati sui requisiti cognitivi che un
modello di equilibrio economico generale (e la stessa
ipotesi di massimizzazione) richiedono e da poco era
stato pubblicato il libro di Cyert e March, A Behavioural
Theory of the Firm, che ne faceva una prima estensione
alla teoria dell’impresa e dei mercati. Quei requisiti
sono così rigorosi ed estremi che non possono
essere soddisfatti da nessun decisore umano, il quale
normalmente procede seguendo obiettivi di “satisficing”,
non di “optimising”: massimizzare il profitto
o qualsiasi altra variabile, in condizioni di incertezza
e in presenza di limiti cognitivi insuperabili, non
ha alcun significato rigoroso. Insomma, sia per le imperfezioni
dei mercati in cui operano le grandi imprese, sia per
i margini di discrezionalità che introduce una
corretta descrizione degli effettivi processi decisionali
dell’impresa, l’impresa può scegliere,
entro certi limiti, tra finalità diverse; e può
scegliere tra modi diversi di raggiungere una stessa
finalità.
Entro quali limiti? Quali sono i suoi margini di discrezionalità?
Cacciato dalla porta nella sua forma più estrema
e rigorosa, il ragionamento degli economisti neoclassici
circa i vincoli che la concorrenza pone alla discrezionalità
del management rientra dalla finestra in forme più
attenuate, ma anche meno facilmente contestabili. Più
o meno suona così: in condizioni di mercato imperfette,
con un grado di monopolio elevato, oppure quando i mercati
sono in espansione e il profitto “potenziale”
molto alto, l’impresa può tranquillamente
sacrificarne una parte per perseguire altre finalità:
per crescere a rotta di collo, come vogliono i managers
di Robin Marris, anche oltre i livelli che garantirebbero
il massimo valore per gli azionisti; per oliare oltre
il dovuto le relazioni industriali al fine di evitare
defatiganti tensioni con maestranze e sindacati; per
beneficiare i più diversi stakeholders
e per acquisire meriti nelle comunità in cui
è insediata. Insomma, nelle condizioni appena
descritte si formano dei margini oltre ai costi “necessari”:
margini che possono assorbiti o da pura e semplice inefficienza
(slack organizzativo o X-inefficiency,
come è stato anche chiamato questo fenomeno),
oppure possono riversarsi nelle più diverse finalità.
E tra queste finalità ci stanno naturalmente
quelle che sono sottolineate dagli studiosi della Corporate
Social Responsibility.
Una questione di costi necessari
Proprio da queste semplici considerazione parte S. Prakash
Sethi - uno degli autori presenti nel fascicolo di Politeia
e tra i più noti studiosi di Corporate Social
Responsibility - in un suo lavoro di alcuni anni
fa (Imperfect Markets: Business Ethics as an Easy
Virtue, “Journal of Business Ethics”,
13, 1994). Ne consiglio la lettura perché Prakash
Sethi non si ferma qui, ma indaga quali sono le condizioni
nelle quali le imprese operanti in mercati dei beni
e dei fattori imperfetti sono indotte ad incorporare
nel loro comportamenti standards elevati di comportamento
etico. Procedo con parole mie, limitando la portata
della versione “debole” dell’argomento
concorrenziale che ho appena esposto.
E’ proprio vero che sono necessari dei margini
sopra i costi “necessari” – quei margini
che solo un certo grado di monopolio può dare-
affinché l’impresa possa comportarsi eticamente?
In altre parole: affinché possa preferire un
comportamento eticamente responsabile (e più
costoso, quantomeno nel breve periodo), anziché
riversare quei margini, quel surplus, in una smodata
remunerazione di dirigenti e maestranze, nella corruzione
dell’autorità pubblica, in progetti di
sviluppo avventati? Che cosa sono i costi “necessari”?
Non certo i costi che conseguirebbero da una situazione
di concorrenza perfetta, che, appunto, non est de
hoc mundo. I minori costi possibili, date le circostanze?
Quid, però, se la gran parte delle imprese
concorrenti considera come costi che le condizioni ambientali
le impongono anche quelli di un comportamento responsabile
verso la comunità e gli stakeholders?
In questo caso anche i costi “necessari”
saranno più elevati per tutte le imprese e dunque
un’impresa che li assume non è minacciata
dalla concorrenza di quelle che li evitano. Ci saranno
sempre free-riders, naturalmente, ci saranno
rogue firms che si avvantaggiano dal non rispettare
norme sociali che le altre rispettano. Ma saranno casi
marginali, rapidamente isolati dallo stesso ambiente
degli affari, oltreché dai consumatori, dagli
stakeholders e dall’opinione pubblica.
L’argomento ha una certa forza, anche se non
bisogna esagerarne la portata. Si tratta pur sempre
di norme sociali, meno cogenti delle norme di onestà,
trasparenza e accountability stabilite per
legge: se un miraggio di arricchimento facile ha indotto
i managers di molte grandi imprese –e non poche
dotate di elaborati statuti redatti dai migliori esperti
di Business Ethics- a truffe colossali,
possiamo immaginare che cosa avviene per i codici di
condotta relativi alla responsabilità sociale
se la situazione economica diventa difficile o la concorrenza
più dura. Ma le norme sociali contano, i codici
etici possono essere interiorizzati e gli spiriti di
rapina del capitalismo sregolato possono essere domati:
nonostante Enron e Parmalat, siamo in tempi assai migliori
che nell’epoca dei Robber Barons. Si
tratta però di processi lunghi e sempre minacciati
da possibili inversioni di tendenza. Di processi che
esigono l’aiuto di regolazioni pubbliche, una
volta che una norma sociale si sia consolidata. Che
esigono la presenza vigile di istituzioni indipendenti
e rispettate. Che esigono a volte l’intervento
di attori organizzati che diano voce agli stakeholders,
come i sindacati l’hanno data ai lavoratori dipendenti.
Essere socialmente responsabile conviene?
Queste sono le considerazioni che mi inducono a dubitare
dell’argomento “essere socialmente responsabile
conviene”, se è avanzato come ragione principale
dell’effettivo comportamento dell’impresa.
Conviene essere socialmente responsabile se l’impresa
già vive in un contesto che premia questo comportamento
e punisce chi da esso devia. Oppure conviene qualche
volta ma non sempre, ad alcune imprese e ad altre no:
a volte, o per alcuni settori, conviene stabilire buone
relazioni di lungo periodo con i principali stakeholders
e con le comunità in cui l’impresa vive;
a volte, e per altri settori, conviene “fare il
fieno finché c’è il sole”,
come dice un proverbio inglese, fare profitti e poi
scappare.
Per menzionare un altro noto studioso il cui contributo
appare nel fascicolo di Politeia: il “capitalismo
kantiano” di Edward Freeman mi piace molto, ma
che cosa avviene quando i “contratti equi”
– è sempre un suo concetto - si scontrano
contro l’esigenza di fare il fieno finché
c’è giorno, e, più in generale,
nei tanti casi in cui essere buoni… non conviene?
Non intendo criticare le sofisticate costruzioni –
in termini di dover essere - che alcuni filosofi stanno
erigendo, l’articolazione normativa sempre più
raffinata della responsabilità sociale dell’impresa.
Anche queste teorie fanno parte dell’ambiente
di cui prima dicevo, quello che poi costringe le imprese
ad essere “buone”; anche queste teorie contribuiscono
a costruire un paese civile, in cui possono diffondersi
comportamenti d’impresa eticamente adeguati. Ma
partire dal presupposto che conviene sempre
essere socialmente responsabili – nel senso pieno
e ricco delle teorie cui mi sono riferito - mi sembra
che sfidi l’evidenza di un capitalismo nel quale
persino l’essere onesti può non convenire.
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