Jeremy
Rifkin, Il sogno europeo,
Mondadori, pag. 443, euro 18,50
Questo
è un libro in cui la dedica dice già tutto:
“For the Erasmus generation”. Se per Donald
Rumsfeld la nostra Europa è vecchia per definizione,
per Jeremy Rifkin di vecchio in giro c’è
solo l’american dream, e proprio nelle
capitali del nostro continente sta invece nascendo l’unica
risposta adeguata e moderna, giovane, a questo complicato
mondo globale. Rifkin è un intellettuale non
nuovo a tesi geniali e precorritrici, e il suo ultimo
Il sogno europeo non fa eccezione. Non che il suo entusiasmo
europeista sia sconosciuto a molti intellettuali nostrani,
non che i dati che cita suonino assolutamente nuovi
(vedi anche “Europe vs America”, del laburista
inglese Will Hutton), ma è come se Rifkin dicesse
queste cose meglio di tutti, visionario appassionato
e pragmatico al tempo stesso.
Qui si parla di sistemi capaci di guidare il mondo,
di sogni adeguati a vincere la sfida della globalizzazione.
Partiamo dagli Usa. Per Rifkin l’american dream
è disperatamente al tramonto, “è
troppo concentrato sul progresso materiale degli individui
per poter essere rilevante in un mondo di rischi crescenti,
diversità e interdipendenza”. E’
schiacciato sul presente, sul consumo immediato. E’
egoistico, irrispettoso della natura. Come esempi di
depravazione del sogno americano della mobilità
verticale, Rifkin nota che i giovani americani cercano
di raggiungere il successo oramai solo tramite i reality
shows, e che gli adulti al lavoro preferiscono le lotterie
e i casinò.
Al
contrario, l’European dream enfatizza
le relazioni comunitarie piuttosto che l’individualismo,
la diversità culturale sull’assimilazione,
la qualità della vita sull’accumulazione
delle ricchezze, lo sviluppo sostenibile sulla crescita
materiale, diritti umani e diritti della natura piuttosto
che il diritto di proprietà, cooperazione internazionale
invece dell’unilateralismo. Non è nazionalista,
è tollerante, è laico, ha un’autentica
coscienza globale, fa sue le battaglie civili del ’68,
mentre l’America tende ultimamente a restringere
le libertà dei suoi cittadini e di quelli degli
altri popoli. La sua struttura decentralizzata e a più
livelli è la perfetta risposta ad un mondo che
si identifica sempre di più con la “rete”,
con il web. I suoi valori equilibrati, il suo “istinto
di vita”, rispondono perfettamente alle sfide
della globalizzazione (gli Usa sono troppo individualistici,
i popoli asiatici troppo comunitaristici). L’Europa
si concentra sulla qualità della vita, e pertanto
“lavora per vivere, e non vive per lavorare”
(il lavoratore medio americano lavora dieci settimane
l’anno in più di quello tedesco, e quattro
settimane e mezzo più di quello britannico. E’
tutto molto insano, visto che, come dice la moglie di
Rifkin, citata nel libro, “nessuno si è
mai pentito sul letto di morte di aver speso troppo
poco tempo in ufficio”). In termini psicanalitici,
quella americana è una società che si
basa sull’“istinto di morte”, dice
Rifkin, perché non fa che consumare: alimenti,
prodotti e soprattutto tanta energia inutile, per l’esattezza
un terzo in più dell’energia consumata
dall’Ue (non è un caso, nota l’autore,
che in Europa, diversamente dagli Usa, le luci dei bagni
pubblici e l’elettricità delle scale mobili
siano attivate solo quando si faccia effettivo uso di
quei servizi).
Il discorso (e qui gli americani dovrebbero preoccuparsi)
non è riferito all’America di Bush, che
è citato solo una decina di volte in 400 pagine,
ma al sistema stesso. E sebbene sia un libro di parole
appassionate, Rifkin sostanzia il tutto con una serie
impressionante di dati statistici e di sondaggi, molto
spesso sorprendenti. Eccoli: la popolazione sotto la
soglia di povertà è il 17% (contro il
7,5% della Germania e il 5,1% della Finlandia), l’aspettativa
di vita è in media di 76,9 anni (78,2 nell’Europa
dei 15), gli obesi sono il doppio dell’Europa,
i bambini poveri sono 11 milioni, il numero di omicidi
è 4 volte superiore (6,26% contro l’1,7%),
i carcerati sono 685 su 100.000 (contro gli 87 europei).
Rifkin ammonisce di non fidarsi dei commentatori che
basano il confronto tra Ue e Europa solo sul Pil, che
è un indicatore inaffidabile, perché include
anche attività “negative”. E comunque
non è vero che la nostra economia è più
improduttiva, visto che “nel 2002 l’Europa
ha virtualmente chiuso il gap di produttività
con gli Usa, con paesi come la Germania che ne hanno
superato il livello di produttività per ore lavorate,
e che se aggiungiamo al numero di disoccupati americani
quel 2% di popolazione incarcerata, ecco che il tasso
di non occupati raggiunge il 9%, un livello da Europa
continentale. Le stesse aziende europee sono vere protagoniste
del mercato globale, ed è curioso che il movimento
“no global” se la prenda solo con gli Usa,
dato che la maggior parte delle multinazionali sono
europee, e sono tutte ai vertici nei loro settori.
L’European dream nasce al crocevia tra la postmodernità
e l’emergente età globale. Maurizio Ferraris,
su “Reset” (n.84), ha parlato della terza
stagione del postmodernismo, una terza fase in cui i
postmoderni, partiti dal relativismo, dalla distruzione,
sarebbero ormai passati alla pars costruens, alla progettazione
positiva, fino al paradosso di ritrovarsi a proporre
una nuova metanarrativa. E questa sarebbe oggi la situazione
di molti dei “credenti” nell’Unione.
L’Europa degli ultimi 50 anni, rispetto agli Usa,
si è sempre caratterizzata per un maggiore scetticismo,
una maggiore cautela, ma oggi ha finalmente la possibilità
di guidare il mondo. Cosa le manca? Solo un po’
di sano ottimismo americano, di quella forza ingenua
e sicura che la salvi dal cinismo e dal pessimismo,
visto che già le altre realtà continentali
si stanno aggregando proprio sotto l’esempio dell’Ue
(Asean in Asia, Oas in Africa, Mercosur in Sud America),
che l’European dream ha le qualità perfette
per rendere migliore questo mondo, e che, come scrive
Rifkin nel finale, “noi americani dicevamo una
volta che per l’american dream vale la pena morire.
Per il nuovo European dream vale la pena vivere”.
I giovani dell’Europa di oggi studiano in un paese
diverso dal proprio grazie al progetto universitario
Erasmus. Il mercoledì vedono la propria squadra
di calcio giocare all’Amsterdam Arena. Ascoltano
musica londinese, e vedono film ambientati a Madrid.
Mangiano kebab turchi e leggono romanzi francesi. Nella
loro Storia il muro di Berlino è importante quanto
la Liberazione. Passano le vacanze a Praga e preferiscono
la birra tedesca. Ora la loro vita ha un nome, European dream. Il paradosso è che questo nome gliel’ha
dato un professore di Chicago. Un vero europeista.
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