Come in ogni battaglia che si combatte, anche quella
delle idee ha i propri fortilizi e casematte e le proprie
trincee. Dove si guerreggia aspramente e senza esclusioni
di colpi per prevalere sul mercato culturale e dell’opinione
pubblica di quella che è la sola superpotenza
planetaria (o “iperpotenza”, come dicono
gli assai poco amati, quando non direttamente odiati,
francesi).
A prima vista, ci si potrebbe domandare, con un po’
di stupefazione, che senso abbia “sprecare”
energie e risorse per vincere sul terreno ideologico,
quando a contare, soprattutto in una nazione come gli
Stati Uniti, sono ben altri fattori e ambiti. In realtà,
giustappunto, è opinione dominante e vulgata
corrente da tempo, presso gli studiosi e gli osservatori
di “cose a stelle e strisce”, che gli ormai
famosi think-tanks (i cosiddetti “pensatoi”)
esercitino un’influenza tutt’altro che trascurabile
(per alcuni addirittura decisiva) sulla politica Usa
e sui cambiamenti del clima di umore che la muove. Ciò
che accade Oltreoceano, nel paese del pragmatismo e
del “time is money” – vicenda
quasi inusitata a occhi italiani – è una
autentica competizione per conseguire una sorta di “neogramsciana”
egemonia culturale (che passa dalla “lotta di
classe” alla “battaglia delle idee”).
Del resto, dove comanda il mercato anche i pensieri
diventano sostanzialmente assimilabili ai prodotti,
e vince chi compete e corre di più e meglio (metodologia,
che al di là della prima reazione di riprovazione,
ha anche i suoi indiscutibili vantaggi e meriti). (Un
argomento, questo dei think-tanks, che trova eco e suscita
interesse ormai anche da noi, grazie ai libri e agli
articoli di giornalisti come Maurizio Molinari, Roberto
Festa, Christian Rocca).
I “Machiavelli” della Casa Bianca.
L’America alla vigilia del voto presidenziale
si configura, quindi, come un grande campo di battaglia
dove le “armate intellettuali” dei due partiti
– anche se, data l’ampiezza del “mercato
delle idee” di quello sterminato paese vi è
posto pure per istituti e “laboratori” indipendenti
e di altro orientamento politico (dagli ambientalisti
ai radical) – si fronteggiano più agguerrite
che mai. Con una prevalenza netta, ennesima testimonianza
di “chi dà le carte” e dei rapporti
di forza vigenti nella nazione, a favore dei centri
studi e dei pensatoi repubblicani, neocon e della new
right, diffusi in maniera capillare e in grado
di sfornare progetti e soluzioni a favore degli uomini
dell’Amministrazione di Bush junior con una prontezza
tuttora sconosciuta ai rivali democratici.
Basti pensare che, come sottolineano nel loro libro
The Right Nation, John Micklethwait (direttore
dell’edizione Usa dell’Economist)
e Adrian Wolldridge (suo corrispondente da Washington),
i conservatori (soprattutto nella loro ultima versione
“rinnovata”) hanno sbancato in termini di
egemonia culturale, riversando e facendo arrivare ai
think-tanks qualcosa come un miliardo di dollari nell’ultimo
decennio, sintomo evidente della posta in gioco. E segnale
di lungimiranza, perché la battaglia è
stata vinta, e se l’opinione pubblica maggioritaria
negli Stati Uniti si è spostata tanto a destra
lo si deve anche all’opera – infaticabile,
ma tutt’altro che oscura – di istituzioni
private quali l’Heritage Foundation, l’American
Enterprise Institute (di Michael Novak, tra gli altri)
o l’American Institute for tax reform e di periodici
e riviste come The Weekly Standard, The National
Interest e Commentary. E al lavoro di
individui come Karl Rove, lo stratega per eccellenza
della politica presidenziale, il “Machiavelli”
di Bush, il regista della comunicazione complessiva
della Casa Bianca, ma anche uno dei consiglieri politici
più ascoltati e smart (oltre che cinici)
dell’uomo che guida la nazione più potente
del pianeta. Proprio entrando e uscendo dalle riunioni
e dai meeting di tali pensatoi – e ispirandosi,
talora, al pensiero del “nume tutelare”
Leo Strauss – personaggi quali Paul Wolfowitz,
Irving e William Kristol, Richard Perle, Norman Podhoretz,
Robert Kagan e Andrew Sullivan si sono posti l’ambiziosa
missione di riplasmare la visione dominante degli americani,
e ci sono riusciti – con risultati che sono sotto
gli occhi di tutti…
E così, mentre anche alcuni “falchi liberal”
(Kenneth Pollack, Paul Berman, Thomas Friedman), in
un forum su Slate di non molto tempo fa, cominciano
a porsi qualche dubbio sulla bontà della loro
posizione interventista in Irak, anche la sinistra,
non premunitasi per tempo, provvede finalmente ad attrezzarsi
per risultare competitiva nello scontro delle idee con
i pensatoi che sostengono il potere. Dovendo dire, ancora
una volta, grazie a Bill Clinton, dalle cui schiere
di collaboratori provengono molte delle “teste
d’uovo” messe a disposizione del Partito
dell’asinello nel suo inseguimento dell’apparentemente
invincibile “Dubya” Bush. Nei momenti difficili,
l’ex presidente che venne dall’Arkansas
rimane sempre il miglior trasfusore di sangue e “soccorso
rosso” (anzi, molto rosa…) per il Partito
democratico.
La schiera di Capitan Clinton.
A produrre idee per lo sfidante John Kerry si impegna
ultimamente una galassia di uomini e donne che include
i neoliberal (un gruppo di politologi e analisti –
dall’ascoltatissimo Roland D. Asmus ai già
citati Pollack e Berman, quest’ultimo rinomato
saggista e giornalista di Dissent), teorizzatori
del multilateralismo ma tutt’altro che docili
“colombe” e convinti della necessità
di “esportare la democrazia” al di fuori
dell’Occidente (favorevoli all’”imperialismo”
light e democratico in poche parole), oltre,
naturalmente, al gruppo ristretto di consiglieri del
candidato (destinati, in caso di vittoria, a seguirlo
alla Casa Bianca): Gregory Craig (esperto di diplomazia,
nonché avvocato di casa Kennedy e difensore di
Clinton nell’occasione dell’impeachment),
Rand Beers (già responsabile antiterrorismo del
presidente in carica, avverso all’intervento in
Irak e, conseguentemente, dimessosi – un esempio
di alto funzionario bipartisan), Richard Holbrooke
(che fu ambasciatore alle Nazioni Unite) e Anthony Blinken
(Minority staff director della commissione
Relazioni internazionali del Senato).
E i think-tanks, il già superclintoniano e New
Democrat Progressive Policy Institute diretto da
Will Marshall e il nuovo Center for American Progress
che ha iniziato a operare grazie ai dieci milioni di
dollari donati da George Soros, il celeberrimo speculatore
e filantropo “popperiano” di origini ungheresi,
accanito avversario di Bush. A dirigerlo è John
Podesta (già capo di gabinetto di Clinton), con
una straordinaria vocazione organizzativa e capacità
comunicativa, al punto di volerne fare un “centro
studi con gli steroidi”, in grado di rivaleggiare
in aggressività e presenza mediatica con i pensatoi
repubblicani. Segnali di questa volontà di competere
per l’egemonia politico-culturale degli Usa dei
prossimi anni: un parterre de roi di collaboratori (da
Morton Halperin, una vita al servizio dei presidenti
democratici, all’esperto di media Eric Alterman,
da Larry Korb a Gayle Smith e Nicole Mlade), una squadra
di analisti in servizio permanente effettivo e pronta
ad andare in televisione a qualsiasi ora del giorno
e della notte e una certa, formidabile, dose di spregiudicatezza
pubblicitaria, come testimoniato dall’enorme display
elettronico che aggiorna i passanti, secondo dopo secondo,
su quanto costa al contribuente americano la scellerata
campagna irakena di Bush e che campeggia (oltre che
sul sito dell’organizzazione) su di un grattacielo
di Times Square, vicino al Nasdaq, collocato, nel più
spirito mercantile Usa (e soprattutto newyorkese) tra
uno schermo della Sony e un gigantesco poster che reclamizza
la nuova linea di biancheria intima di Jennifer Lopez.
Proprio Center for American Progress ha organizzato
nel giugno scorso un incontro a Roma sulla politica
internazionale, insieme al britannico Policy Network
(presieduto dal neocommissario europeo Peter Mandelson,
uno degli spin doctor per antonomasia di Tony Blair)
e alla Fondazione Italianieuropei; insomma, sentiremo
sempre più spesso parlare di loro…
Ecco alcuni links relativi ai think-tanks di cui si
parla nell’articolo:
Heritage
Foundation American
Enterprise InstituteProgressive
Policy Institute
Center
for American Progress
Policy
Network
Fondazione
Italianieuropei
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