Paolo
Fabbri, Segni del tempo. Un lessico politicamente
scorretto, Meltemi editore, 2004, pagg. 264,
euro 20,50
Quando i tempi cambiano, alcune parole nascono e altre
restano. Sfumate nei significati, insistenti, ripetute
all’infinito, a volte svilite, a volte potenziate.
Ed è il tempo stesso – brutto o bello che
sia - a segnarne il destino.
Così il lessico di Paolo Fabbri, lontano dall’essere
un vocabolario, sembra piuttosto una riflessione sulla
contemporaneità: su quegli eventi e quelle ragioni
che incidono sulle nostre parole quotidiane. Non va
letto se si è in cerca di definizioni sicure
e neutre ma piuttosto se, quando sfogliamo un quotidiano,
ascoltiamo il telegiornale o discutiamo con i nostri
amici, non possiamo fare a meno di sobbalzare davanti
all’ennesima “azienda” – l’“Azienda-Italia”
resta probabilmente l’esempio più fastidioso
–, o a una sotterranea proposta di “devolution”,
o a uno degli ormai numerosissimi atti di “terrorismo”.
Insomma va letto se, quando queste ripetutissime parole
ci capitano davanti, non possiamo fare a meno di elaborare
qualche pensiero politicamente scorretto.
Nato dalla rubrica «Parole, parole, parole»
del quotidiano L’Unità questo
insieme di voci tocca i temi più svariati: semiotica,
arte, musica, letteratura, scienza, moda e politica
senza porsi “il problema della verità e
della incomprensione, ma delle pratiche che usano felicemente
di comportamenti o espressioni, passioni e ragioni.”.
In questo glossario, attraversato da una vis polemica
sottile che lo fa scivolare con leggerezza dalla “bandiera”-“arcobaleno”
alla “guerra”, dall’“apocalisse”
al “futuro”, dall’“immunità”
alla “vergogna”, non mancano mai ironia
e acuti giochi di parole.
Cosa distingue un “Cavaliere” da un “cavallaro”?
Non è forse vero che “agenda” è
parola apparentata con “azienda” e “faccenda”?
E il “Reality” è “dura reality
sed reality”? Altri giochi di parole, altre provocazioni:
quando Paolo Fabbri crea e suggerisce neologismi. Perché
– si diceva - quando i tempi cambiano, alcune
parole restano e altre nascono. Parole come “criminesente”,
“devoluzionario”, “centremista”
o “cattolaico” avranno mai un futuro? “Chi
parlerà saprà”, d’altro canto
la lingua è “un organismo vivente da sperimentare
come un’ecologia. Tra il vivaio della prolifrazione
incontrollata e l’ordine senza vita dell’erbario,
la lingua è giardino” (…) “dove
il senso cresce improvvisato e, come l’erba, dal
mezzo”.
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