Il
processo d’immaginazione e costruzione delle nazioni
e delle loro identità si è storicamente
sviluppato attraverso meccanismi di tipo negativo e
oppositivo. Attraverso l’individuazione di un
altro antinomico in contrapposizione al quale la nuova
nazione si rappresentava. Nel caso degli Stati Uniti
questo ruolo è stato in larga misura svolto dall’Europa.
Un’Europa ficta in opposizione alla quale
i nuovi Stati Uniti si immaginavano e definivano. In
un processo peraltro doppiamente paradossale, sia perché
di quell’Europa il Nuovo Mondo era parte integrante
sia perché – costituendone alternativa
oppositiva – esso finiva per continuare a rimanerne
indissolubilmente legato. Gli Usa nascevano infatti
da una frattura di un impero atlantico europeo e continuavano
a relazionarsi dialetticamente con un’Europa alter
ego, dalla quale di conseguenza non potevano mai
completamente affrancarsi.
La progressiva ascesa degli Stati Uniti a grande potenza
globale, e in particolare il passaggio epocale rappresentato
dal secondo conflitto mondiale, modificò radicalmente
questo stato di cose. L’Europa cessò progressivamente
di costituire l’alternativa negativa, per essere
trasformata in stadio antecedente di un processo storico
che gli Stati Uniti portavano a compimento.
L’Europa diventava il passato. Un passato che,
almeno per quella parte di Europa che durante la guerra
fredda si sarebbe legata agli Stati Uniti, poteva però
essere superato grazie al vincolo emancipatore offerto
dall’inclusione in una communitas, quella
atlantica in formazione, a guida statunitense. Dentro
il mondo atlantico della guerra fredda si riteneva possibile
attivare processi trasformativi degli alleati degli
Usa, permessi dalla supposta universale riproducibilità
del modello culturale statunitense e dei precetti produttivistici
di una società di consumi di massa quale quella
affermatasi negli Stati Uniti.
L’egemonia consensuale
Una parte significativa delle élites politiche,
economiche, intellettuali e militari di Stati Uniti
ed Europa occidentale concorreva a elaborare e costruire
un codice e una mitologia euro-americani comuni e condivisi.
L’atlantismo costituiva la lingua franca
e il collante della rete d’interdipendenze strategiche,
culturali, finanziarie e commerciali che legavano sempre
più le due parti dell’Atlantico. In questa
situazione il ruolo egemone degli Stati Uniti era indiscusso
e non contestato, al di là delle ricorrenti fantasie
terza-forziste e neutraliste diffuse in Europa occidentale.
Ma tale ruolo era al contempo perennemente negoziato
e contrattato, sì da indurre gli storici a presentare
il primato americano nel mondo atlantico della guerra
fredda come una forma di «egemonia consensuale»
(Charles Maier) o come un «impero su invito»
(Geil Lundestad). Un prodotto cioè dei compromessi
tra gli Stati Uniti e i loro alleati europei, poggiante
sulla legittimazione ad esso conferita dalle scelte,
internazionaliste e filoatlantiche, degli elettorati
nazionali, negli Usa come in Europa.
Ciò avrebbe garantito all’impero statunitense
in Europa una forma di flessibilità e di adattabilità
di cui era priva la controparte sovietica. Ma avrebbe
reso altresì palesi, e in taluni casi eclatanti,
i dissidi e le tensioni frequenti tra gli Usa e gli
altri membri della comunità atlantica. La storia
della guerra fredda si sarebbe infatti configurata non
solo come storia dell’antagonismo tra le due superpotenze,
ma anche come storia degli scontri e dei disaccordi
tra gli Stati Uniti e gli altri membri del blocco occidentale
euro-atlantico. Scontri nei quali gli Usa spesso accusavano
i partner europei di opportunismo e insufficiente impegno
(militare e finanziario) alla comune causa antisovietica
e anticomunista, mentre da parte europea s’imputava
a Washington la rigidità dell’approccio
e il manicheismo della politica estera.
L’analisi e la descrizione delle crisi dei rapporti
transatlantici finì per costituire – fin
dai primi anni ’50 – un genere letterario
di largo successo e consumo, fosse esso declinato secondo
canoni politologici, storiografici o semplicemente giornalistici.
E un genere tendenzialmente catastrofistico, laddove
tendeva spesso a profetizzare l’imminente (e definitiva)
implosione della comunità atlantica. Non di rado
i problemi e le difficoltà di quest’ultima
venivano infatti letti secondo parametri strutturalisti,
come figli di divergenze oggettive e non ricomponibili
tra le due parti, più che come conseguenze di
scelte politiche e di contingenze ben precise.
Questo genere letterario, dopo un breve exploit post-guerra
fredda all’inizio degli anni ’90, sarebbe
entrato in crisi nell’ultimo, ruggente decennio
del ‘900, per riemergere con nuovo vigore all’inizio
del nuovo secolo. Un ritorno, questo, al quale hanno
concorso vari fattori: la fine dell’euforia speculativa
dei mercati finanziari internazionali, gli attacchi
terroristici dell’11 settembre 2001 e, soprattutto,
la decisione statunitense di rovesciare manu militari
il regime di Saddam Hussein. Gli ultimi due anni sono
stati quindi caratterizzati da un revival della letteratura
sulla crisi transatlantica: un profluvio di libri, articoli,
editoriali e numeri monografici di riviste ha accompagnato
le tensioni recenti tra gli Stati Uniti e alcuni partner
tradizionali europei, su tutti quell’asse carolingio
che è stato storicamente il motore dell’integrazione
europea. Si è trattato di contributi in larga
misura disomogenei per complessità della riflessione
storica, originalità dell’analisi e profondità
concettuale, ma accomunati frequentemente da una premessa
condivisa: che le difficoltà nei rapporti tra
l’amministrazione Bush e alcuni governi europei,
e il montante anti-americanismo e anti-europeismo di
settori rilevanti delle rispettive opinioni pubbliche,
traggano origine primariamente da ineludibili trasformazioni
sistemiche (strutturali per l’appunto) della politica
internazionale. Che le crepe sempre più profonde
apertesi nei ponti costruiti sull’Atlantico più
di mezzo secolo fa non siano cioè riparabili
attraverso semplici decisioni politiche, ma rimandino
a trasformazioni di ben più ampia portata. E
che quindi la separazione, potenzialmente antagonistica
e conflittuale, tra l’Europa e gli Stati Uniti
sia inevitabile se non addirittura auspicabile.
Destinati a separarsi?
Con un inevitabile grado di semplificazione e riduzionismo,
questa «letteratura della crisi» (transatlantica)
può essere suddivisa in tre categorie principali.
In tre schemi interpretativi (e metodologici) che giungono,
da diverse prospettive politiche, intellettuali e analitiche,
alla medesima conclusione: che Europa e Stati Uniti
abbiano intrapreso percorsi diversi e siano destinati
a una separazione che difficilmente sarà indolore.
Per comodità potremmo etichettare queste tre
interpretazioni come realista, moralista e socio-economica.
La matrice realista – variamente declinata –
informa gran parte delle analisi che partono dal presupposto
secondo il quale l’ordine internazionale unipolare
del dopo guerra fredda e l’indiscusso predominio
statunitense rappresentino un’artificiosa anomalia
storica, che contraddice le leggi della politica internazionale
e che in quanto tale sia destinata a risultare transitoria
e contingente. In una condizione ambientale sistemicamente
anarchica e competitiva – si argomenta –
non è dato che la potenza dominante non cerchi
di sfruttare tale situazione per consolidare ed estendere
tale vantaggio; ma non è dato altresì
che gli altri paesi non si adoperino – se necessario
coalizzandosi – per fronteggiare (o, nell’argot
politologico, per «bilanciare”) l’egemone.
Nelle fantasie (e nelle fobie) di molti, in particolare
negli Usa, il possibile contrappeso (balancer),
che riequilibrerà bipolarmente l’ordine
internazionale sarà la Cina, una volta che essa
avrà completato la sua folgorante corsa verso
la modernità capitalista. Altre analisi prevedono,
con orrore o con speranza, la costruzione di un asse
intra-G-8 tra le potenze europee continentali (la Germania
e la Francia) e la Russia, che costituisce l’unico
credibile balancer nucleare degli Usa. Altre
interpretazioni, ancora, prevedono l’emergere
di un’Europa (intesa come Ue) potenza, dotata
sia della autonomia sia degli strumenti con cui condurre
una politica estera affrancata dal vincolo atlantico
e dalla conseguente subordinazione agli interessi degli
Stati Uniti.
Il ceppo realista costituisce per certi aspetti la
filiera che, ab origine, ha generato lo studio,
storico e politologico, dei rapporti tra gli stati.
In quanto tale, da esso hanno avuto origine scuole di
pensiero molteplici e tra loro assai diverse. Per certi
aspetti è difficile non trovare tracce, ancorché
minime, di un Dna realista in qualsiasi storico o scienziato
politico che si occupi di relazioni internazionali.
Di conseguenza, vi sono diverse interpretazioni, di
matrice più o meno esplicitamente realista, che
descrivono con toni (e con radicalità) diversi
le difficoltà recenti nei rapporti euro-americani.
L’assunto condiviso – e ben esplicitato
in un testo di grande successo, tradotto anche in Italia
(Charles Kupchan, La fine dell’era americana)
– è però l’impraticabilità
e l’innaturalità dell’attuale sistema
unipolare. Una artificiosità accentuata dal fatto
che i motivi che avevano indotto i paesi europei-occidentali
ad accettare l’egemonia statunitense (in particolare
l’incommensurabile superiorità relativa
degli Usa post-seconda guerra mondiale e, soprattutto,
la sfida dell’Urss e del comunismo internazionale)
non esistano più. Una trasformazione che ha fatto
venir meno il potentissimo collante con il quale si
era forzosamente costruito il legame transatlantico.
La matrice moralista di questa nuova «letteratura
della crisi» parte da premesse assai diverse,
ma giunge a conclusioni non dissimili. Per essa, la
separazione tra Europa e Stati Uniti non origina dal
naturale contrapporsi di unità mosse da interessi
di potenza tanto tangibili quanto a-moralmente declinati,
ma proprio dall’agnosticismo morale di una delle
due parti in causa: gli Stati Uniti che agiscono unilateralmente,
violando arrogantemente il diritto internazionale e
ricorrendo con faciloneria e spregiudicatezza allo strumento
militare, nella lettura decisamente dominante in Europa;
l’Europa, che accetta opportunisticamente la presenza
di regimi dittatoriali e autocratici, permette stragi
e genocidi alle proprie porte, tollera (e sottovaluta)
il terrorismo, salvo nascondersi quando necessario dietro
la potenza americana, nella interpretazione largamente
diffusa oggi negli Stati Uniti.
Europa femminea, Usa virili
Un’Europa femminea e postmoderna la cui sopravvivenza
dipenderebbe però dalla protezione virile e marziale
ad essa offerta dagli Stati Uniti, secondo le famose
(e invero piuttosto grevi) categorie di genere connotanti
un altro best-seller della nuova letteratura della crisi:
il Paradiso e Potere dell’intellettuale
neoconservatore Robert Kagan. Un testo, questo, che
dietro la patina realista e sprezzante, è pregno
di un moralismo che rimanda alle stesse origini del
movimento neoconservatore, nei primi anni ’70,
quando ad essere presi di mira erano sia la realpolitik
di Kissinger e Nixon sia lo spregiudicato opportunismo
dei paesi dell’Europa occidentale, accusati di
accettare passivamente il riarmo sovietico e di non
battere ciglio di fronte alle violazioni dei diritti
umani in Urss e nei paesi «in cattività»
del blocco comunista.
La terza lettura della crisi – quella che per
convenienza ho etichettato come socio-economica –
muove da un assunto caro a larga parte della destra
statunitense e della sinistra europea: che a dispetto
della retorica sulla comunanza di idee e principi tra
le due parti dell’Atlantico, Transatlantia
sia in realtà attraversata da profonde e crescenti
divergenze. Il vulnus catalizzante la frattura
non sarebbe in questo caso né l’oggettivo
antagonismo di potenza, né l’amoralità
(o l’immoralità) dei comportamenti di una
delle due parti in causa. A distanziare sempre più
Europa e Stati Uniti sarebbe invece il diverso modello
di sviluppo sociale ed economico adottato dalle due
parti. Secondo questa chiave di lettura, gli anni ’90
avrebbero costituito una parentesi narcotizzante e illusoria,
oscurante la separazione in atto dietro slogan mistificatori
come quelli di una possibile «Terza Via»,
compendiante liberalismo statunitense e socialismo democratico
europeo. Ecco riemergere quindi l’antico e mai
risolto dibattito su chi, tra Europa e Stati Uniti,
costituisca una «civiltà» superiore.
Se siano cioè preferibili le opportunità
offerte dall’individualismo meritocratico e crudele
del modello statunitense o le certezze e l’equità
sociale garantite dalle conquiste del welfare state
europeo. Con una parte della nuova destra statunitense
che tuona contro la decadenza europea, simboleggiata
dai bassi ritmi di lavoro, dalla forza delle organizzazioni
sindacali e dai costi dello stato sociale. E con alcuni
commentatori europei che propongono visioni apocalittiche
della società e del sistema produttivo degli
Stati Uniti, nelle quali intuizioni originali e denunce
condivisibili si mescolano con stereotipi antichi e
sconcertanti banalizzazioni (come nel caso di un altro
campione della «letteratura della crisi»
che siamo qui a discutere, eurofilo e anti-statunitense,
il popolare Usa vs. Europa del giornalista
e sociologo britannico Will Hutton).
Queste tre interpretazioni generali sono caratterizzate
da profondi limiti, analitici e metodologici: la tendenza
a un approccio unidimensionale, che si sofferma solo
su una della variabili connotanti le relazioni tra Europa
e Stati Uniti; la sottovalutazione degli elementi contingenti
che hanno catalizzato le tensioni recenti, su tutti
il radicale unilateralismo di molte delle scelte dell’amministrazione
Bush; la tendenza a riproporre visioni stereotipate
della controparte, in un gioco a somma zero di pregiudizi
anti-americani e anti-europei; la minimizzazione della
solidità delle interdipendenze transatlantiche,
costruite e istituzionalizzate negli ultimi sessant’anni
e difficilmente liquidabili in pochi mesi.
Vecchio atlantismo
Nondimeno, queste analisi costituiscono l’ulteriore
riprova di come le nuove frizioni euro-americane s’inseriscano
in un contesto per molti aspetti mutato e non possano
essere considerate come la semplice ripetizione di processi
già vissuti. Le parole d’ordine del vecchio
atlantismo, a cui molti si sono affidati per difendere
la necessità di preservare l’alleanza tra
Stati Uniti ed Europa, sono apparse oggettivamente logore
e obsolete. Come del resto deboli e inattuali sono risultati
gli appelli di quelle élites atlantiche, figlie
per molti aspetti di un’altra epoca, e incapaci
di fronteggiare il peso delle opinioni pubbliche degli
Stati Uniti e dei paesi europei. Quel che la nuova «letteratura
della crisi» transatlantica sembra evidenziare
non è pertanto la conclamata inevitabilità
della crisi stessa, ma la necessità di superarla
con strumenti (e giustificazioni) diversi da quelli
utilizzati nelle frequenti crisi del passato.
Mario Del Pero insegna Storia degli Stati Uniti
e Storia delle Relazioni Internazionali presso la facoltà
di Scienze Politiche di Forlì.
Questo articolo è parte del dossier America
grande amore, pubblicato nell’ultimo numero di
Reset
(settembre-ottobre 2004) in edicola e in libreria.
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