263 - 16.10.04


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Quante storie tra Marte e Venere
Mario Del Pero


Il processo d’immaginazione e costruzione delle nazioni e delle loro identità si è storicamente sviluppato attraverso meccanismi di tipo negativo e oppositivo. Attraverso l’individuazione di un altro antinomico in contrapposizione al quale la nuova nazione si rappresentava. Nel caso degli Stati Uniti questo ruolo è stato in larga misura svolto dall’Europa. Un’Europa ficta in opposizione alla quale i nuovi Stati Uniti si immaginavano e definivano. In un processo peraltro doppiamente paradossale, sia perché di quell’Europa il Nuovo Mondo era parte integrante sia perché – costituendone alternativa oppositiva – esso finiva per continuare a rimanerne indissolubilmente legato. Gli Usa nascevano infatti da una frattura di un impero atlantico europeo e continuavano a relazionarsi dialetticamente con un’Europa alter ego, dalla quale di conseguenza non potevano mai completamente affrancarsi.
La progressiva ascesa degli Stati Uniti a grande potenza globale, e in particolare il passaggio epocale rappresentato dal secondo conflitto mondiale, modificò radicalmente questo stato di cose. L’Europa cessò progressivamente di costituire l’alternativa negativa, per essere trasformata in stadio antecedente di un processo storico che gli Stati Uniti portavano a compimento.

L’Europa diventava il passato. Un passato che, almeno per quella parte di Europa che durante la guerra fredda si sarebbe legata agli Stati Uniti, poteva però essere superato grazie al vincolo emancipatore offerto dall’inclusione in una communitas, quella atlantica in formazione, a guida statunitense. Dentro il mondo atlantico della guerra fredda si riteneva possibile attivare processi trasformativi degli alleati degli Usa, permessi dalla supposta universale riproducibilità del modello culturale statunitense e dei precetti produttivistici di una società di consumi di massa quale quella affermatasi negli Stati Uniti.

L’egemonia consensuale

Una parte significativa delle élites politiche, economiche, intellettuali e militari di Stati Uniti ed Europa occidentale concorreva a elaborare e costruire un codice e una mitologia euro-americani comuni e condivisi. L’atlantismo costituiva la lingua franca e il collante della rete d’interdipendenze strategiche, culturali, finanziarie e commerciali che legavano sempre più le due parti dell’Atlantico. In questa situazione il ruolo egemone degli Stati Uniti era indiscusso e non contestato, al di là delle ricorrenti fantasie terza-forziste e neutraliste diffuse in Europa occidentale. Ma tale ruolo era al contempo perennemente negoziato e contrattato, sì da indurre gli storici a presentare il primato americano nel mondo atlantico della guerra fredda come una forma di «egemonia consensuale» (Charles Maier) o come un «impero su invito» (Geil Lundestad). Un prodotto cioè dei compromessi tra gli Stati Uniti e i loro alleati europei, poggiante sulla legittimazione ad esso conferita dalle scelte, internazionaliste e filoatlantiche, degli elettorati nazionali, negli Usa come in Europa.

Ciò avrebbe garantito all’impero statunitense in Europa una forma di flessibilità e di adattabilità di cui era priva la controparte sovietica. Ma avrebbe reso altresì palesi, e in taluni casi eclatanti, i dissidi e le tensioni frequenti tra gli Usa e gli altri membri della comunità atlantica. La storia della guerra fredda si sarebbe infatti configurata non solo come storia dell’antagonismo tra le due superpotenze, ma anche come storia degli scontri e dei disaccordi tra gli Stati Uniti e gli altri membri del blocco occidentale euro-atlantico. Scontri nei quali gli Usa spesso accusavano i partner europei di opportunismo e insufficiente impegno (militare e finanziario) alla comune causa antisovietica e anticomunista, mentre da parte europea s’imputava a Washington la rigidità dell’approccio e il manicheismo della politica estera.

L’analisi e la descrizione delle crisi dei rapporti transatlantici finì per costituire – fin dai primi anni ’50 – un genere letterario di largo successo e consumo, fosse esso declinato secondo canoni politologici, storiografici o semplicemente giornalistici. E un genere tendenzialmente catastrofistico, laddove tendeva spesso a profetizzare l’imminente (e definitiva) implosione della comunità atlantica. Non di rado i problemi e le difficoltà di quest’ultima venivano infatti letti secondo parametri strutturalisti, come figli di divergenze oggettive e non ricomponibili tra le due parti, più che come conseguenze di scelte politiche e di contingenze ben precise.

Questo genere letterario, dopo un breve exploit post-guerra fredda all’inizio degli anni ’90, sarebbe entrato in crisi nell’ultimo, ruggente decennio del ‘900, per riemergere con nuovo vigore all’inizio del nuovo secolo. Un ritorno, questo, al quale hanno concorso vari fattori: la fine dell’euforia speculativa dei mercati finanziari internazionali, gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e, soprattutto, la decisione statunitense di rovesciare manu militari il regime di Saddam Hussein. Gli ultimi due anni sono stati quindi caratterizzati da un revival della letteratura sulla crisi transatlantica: un profluvio di libri, articoli, editoriali e numeri monografici di riviste ha accompagnato le tensioni recenti tra gli Stati Uniti e alcuni partner tradizionali europei, su tutti quell’asse carolingio che è stato storicamente il motore dell’integrazione europea. Si è trattato di contributi in larga misura disomogenei per complessità della riflessione storica, originalità dell’analisi e profondità concettuale, ma accomunati frequentemente da una premessa condivisa: che le difficoltà nei rapporti tra l’amministrazione Bush e alcuni governi europei, e il montante anti-americanismo e anti-europeismo di settori rilevanti delle rispettive opinioni pubbliche, traggano origine primariamente da ineludibili trasformazioni sistemiche (strutturali per l’appunto) della politica internazionale. Che le crepe sempre più profonde apertesi nei ponti costruiti sull’Atlantico più di mezzo secolo fa non siano cioè riparabili attraverso semplici decisioni politiche, ma rimandino a trasformazioni di ben più ampia portata. E che quindi la separazione, potenzialmente antagonistica e conflittuale, tra l’Europa e gli Stati Uniti sia inevitabile se non addirittura auspicabile.

Destinati a separarsi?

Con un inevitabile grado di semplificazione e riduzionismo, questa «letteratura della crisi» (transatlantica) può essere suddivisa in tre categorie principali. In tre schemi interpretativi (e metodologici) che giungono, da diverse prospettive politiche, intellettuali e analitiche, alla medesima conclusione: che Europa e Stati Uniti abbiano intrapreso percorsi diversi e siano destinati a una separazione che difficilmente sarà indolore. Per comodità potremmo etichettare queste tre interpretazioni come realista, moralista e socio-economica.

La matrice realista – variamente declinata – informa gran parte delle analisi che partono dal presupposto secondo il quale l’ordine internazionale unipolare del dopo guerra fredda e l’indiscusso predominio statunitense rappresentino un’artificiosa anomalia storica, che contraddice le leggi della politica internazionale e che in quanto tale sia destinata a risultare transitoria e contingente. In una condizione ambientale sistemicamente anarchica e competitiva – si argomenta – non è dato che la potenza dominante non cerchi di sfruttare tale situazione per consolidare ed estendere tale vantaggio; ma non è dato altresì che gli altri paesi non si adoperino – se necessario coalizzandosi – per fronteggiare (o, nell’argot politologico, per «bilanciare”) l’egemone. Nelle fantasie (e nelle fobie) di molti, in particolare negli Usa, il possibile contrappeso (balancer), che riequilibrerà bipolarmente l’ordine internazionale sarà la Cina, una volta che essa avrà completato la sua folgorante corsa verso la modernità capitalista. Altre analisi prevedono, con orrore o con speranza, la costruzione di un asse intra-G-8 tra le potenze europee continentali (la Germania e la Francia) e la Russia, che costituisce l’unico credibile balancer nucleare degli Usa. Altre interpretazioni, ancora, prevedono l’emergere di un’Europa (intesa come Ue) potenza, dotata sia della autonomia sia degli strumenti con cui condurre una politica estera affrancata dal vincolo atlantico e dalla conseguente subordinazione agli interessi degli Stati Uniti.

Il ceppo realista costituisce per certi aspetti la filiera che, ab origine, ha generato lo studio, storico e politologico, dei rapporti tra gli stati. In quanto tale, da esso hanno avuto origine scuole di pensiero molteplici e tra loro assai diverse. Per certi aspetti è difficile non trovare tracce, ancorché minime, di un Dna realista in qualsiasi storico o scienziato politico che si occupi di relazioni internazionali. Di conseguenza, vi sono diverse interpretazioni, di matrice più o meno esplicitamente realista, che descrivono con toni (e con radicalità) diversi le difficoltà recenti nei rapporti euro-americani. L’assunto condiviso – e ben esplicitato in un testo di grande successo, tradotto anche in Italia (Charles Kupchan, La fine dell’era americana) – è però l’impraticabilità e l’innaturalità dell’attuale sistema unipolare. Una artificiosità accentuata dal fatto che i motivi che avevano indotto i paesi europei-occidentali ad accettare l’egemonia statunitense (in particolare l’incommensurabile superiorità relativa degli Usa post-seconda guerra mondiale e, soprattutto, la sfida dell’Urss e del comunismo internazionale) non esistano più. Una trasformazione che ha fatto venir meno il potentissimo collante con il quale si era forzosamente costruito il legame transatlantico.

La matrice moralista di questa nuova «letteratura della crisi» parte da premesse assai diverse, ma giunge a conclusioni non dissimili. Per essa, la separazione tra Europa e Stati Uniti non origina dal naturale contrapporsi di unità mosse da interessi di potenza tanto tangibili quanto a-moralmente declinati, ma proprio dall’agnosticismo morale di una delle due parti in causa: gli Stati Uniti che agiscono unilateralmente, violando arrogantemente il diritto internazionale e ricorrendo con faciloneria e spregiudicatezza allo strumento militare, nella lettura decisamente dominante in Europa; l’Europa, che accetta opportunisticamente la presenza di regimi dittatoriali e autocratici, permette stragi e genocidi alle proprie porte, tollera (e sottovaluta) il terrorismo, salvo nascondersi quando necessario dietro la potenza americana, nella interpretazione largamente diffusa oggi negli Stati Uniti.

Europa femminea, Usa virili

Un’Europa femminea e postmoderna la cui sopravvivenza dipenderebbe però dalla protezione virile e marziale ad essa offerta dagli Stati Uniti, secondo le famose (e invero piuttosto grevi) categorie di genere connotanti un altro best-seller della nuova letteratura della crisi: il Paradiso e Potere dell’intellettuale neoconservatore Robert Kagan. Un testo, questo, che dietro la patina realista e sprezzante, è pregno di un moralismo che rimanda alle stesse origini del movimento neoconservatore, nei primi anni ’70, quando ad essere presi di mira erano sia la realpolitik di Kissinger e Nixon sia lo spregiudicato opportunismo dei paesi dell’Europa occidentale, accusati di accettare passivamente il riarmo sovietico e di non battere ciglio di fronte alle violazioni dei diritti umani in Urss e nei paesi «in cattività» del blocco comunista.

La terza lettura della crisi – quella che per convenienza ho etichettato come socio-economica – muove da un assunto caro a larga parte della destra statunitense e della sinistra europea: che a dispetto della retorica sulla comunanza di idee e principi tra le due parti dell’Atlantico, Transatlantia sia in realtà attraversata da profonde e crescenti divergenze. Il vulnus catalizzante la frattura non sarebbe in questo caso né l’oggettivo antagonismo di potenza, né l’amoralità (o l’immoralità) dei comportamenti di una delle due parti in causa. A distanziare sempre più Europa e Stati Uniti sarebbe invece il diverso modello di sviluppo sociale ed economico adottato dalle due parti. Secondo questa chiave di lettura, gli anni ’90 avrebbero costituito una parentesi narcotizzante e illusoria, oscurante la separazione in atto dietro slogan mistificatori come quelli di una possibile «Terza Via», compendiante liberalismo statunitense e socialismo democratico europeo. Ecco riemergere quindi l’antico e mai risolto dibattito su chi, tra Europa e Stati Uniti, costituisca una «civiltà» superiore. Se siano cioè preferibili le opportunità offerte dall’individualismo meritocratico e crudele del modello statunitense o le certezze e l’equità sociale garantite dalle conquiste del welfare state europeo. Con una parte della nuova destra statunitense che tuona contro la decadenza europea, simboleggiata dai bassi ritmi di lavoro, dalla forza delle organizzazioni sindacali e dai costi dello stato sociale. E con alcuni commentatori europei che propongono visioni apocalittiche della società e del sistema produttivo degli Stati Uniti, nelle quali intuizioni originali e denunce condivisibili si mescolano con stereotipi antichi e sconcertanti banalizzazioni (come nel caso di un altro campione della «letteratura della crisi» che siamo qui a discutere, eurofilo e anti-statunitense, il popolare Usa vs. Europa del giornalista e sociologo britannico Will Hutton).

Queste tre interpretazioni generali sono caratterizzate da profondi limiti, analitici e metodologici: la tendenza a un approccio unidimensionale, che si sofferma solo su una della variabili connotanti le relazioni tra Europa e Stati Uniti; la sottovalutazione degli elementi contingenti che hanno catalizzato le tensioni recenti, su tutti il radicale unilateralismo di molte delle scelte dell’amministrazione Bush; la tendenza a riproporre visioni stereotipate della controparte, in un gioco a somma zero di pregiudizi anti-americani e anti-europei; la minimizzazione della solidità delle interdipendenze transatlantiche, costruite e istituzionalizzate negli ultimi sessant’anni e difficilmente liquidabili in pochi mesi.

Vecchio atlantismo

Nondimeno, queste analisi costituiscono l’ulteriore riprova di come le nuove frizioni euro-americane s’inseriscano in un contesto per molti aspetti mutato e non possano essere considerate come la semplice ripetizione di processi già vissuti. Le parole d’ordine del vecchio atlantismo, a cui molti si sono affidati per difendere la necessità di preservare l’alleanza tra Stati Uniti ed Europa, sono apparse oggettivamente logore e obsolete. Come del resto deboli e inattuali sono risultati gli appelli di quelle élites atlantiche, figlie per molti aspetti di un’altra epoca, e incapaci di fronteggiare il peso delle opinioni pubbliche degli Stati Uniti e dei paesi europei. Quel che la nuova «letteratura della crisi» transatlantica sembra evidenziare non è pertanto la conclamata inevitabilità della crisi stessa, ma la necessità di superarla con strumenti (e giustificazioni) diversi da quelli utilizzati nelle frequenti crisi del passato.

Mario Del Pero insegna Storia degli Stati Uniti e Storia delle Relazioni Internazionali presso la facoltà di Scienze Politiche di Forlì.

Questo articolo è parte del dossier America grande amore, pubblicato nell’ultimo numero di Reset (settembre-ottobre 2004) in edicola e in libreria.

 

 

 

 

 

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