262 - 02.10.04


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Da Ataturk all’Europa laica.
José Casanova


Dal Trattato di Roma del 1957 che istituì la CEE e avviò il processo di integrazione europea tuttora in atto, le società dell’Europa occidentale hanno subito un rapido, drastico, e apparentemente irreversibile processo di laicizzazione. Da questo punto di vista, si può parlare della nascita di un’Europa post-cristiana. Allo stesso tempo, il processo di integrazione europea, l’espansione verso est dell’Unione e la stesura della Costituzione hanno sollecitato domande fondamentali riguardanti l’identità europea e, in essa, il ruolo della cristianità. Che cosa fonda l’Europa? Come e dove dovrebbero essere tracciati i confini territoriali e culturali dell’Europa?
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La progressiva, anche se affatto uniforme, laicizzazione dell’Europa è un innegabile fatto sociale. Una maggioranza crescente della popolazione europea ha smesso di partecipare, almeno regolarmente, alle pratiche religiose pur mantenendo ancora un livello relativamente alto di credo religioso individuale e privato. Da questo punto di vista, si dovrebbe forse parlare di una “sconsacrazione” della popolazione europea e di un’individualizzazione religiosa, piuttosto che di laicizzazione vera e propria. Grace Davie ha descritto questa situazione ricorrendo all’espressione “credere senza appartenere”. Allo stesso tempo, tuttavia, molti europei, anche nei paesi più laici, si identificano come cristiani, evidenziando un’implicita, diffusa e sommersa identità culturale cristiana. In questo senso, Danièle Hervieu-Léger ha ragione nel proporre una descrizione della situazione europea inversa rispetto a quello fornita da Davie: “appartenere senza credere”. Identità laiche e cristiane si intrecciano in modi complessi, raramente verbalizzati, in molti europei.

Dal punto di vista sociologico, la questione più interessante non è il progressivo indebolimento della religione, ma il fatto che esso venga interpretato ricorrendo al paradigma della laicizzazione e sia quindi accompagnato da un’auto-comprensione laicista che interpreta l’indebolimento come normale e progressivo, ovvero, come una conseguenza quasi inevitabile dell’essere europei “moderni” e “illuminati”.
E’ questa identità laica, condivisa dalle élites europee e contemporaneamente dalla gente ordinaria, che paradossalmente trasforma la “religione” e l’identità cristiana appena sommersa in questioni spinose e complesse quando si tratta di delineare i confini geografici e di definire l’identità culturale di un’Unione Europea in via di costituzione e all’interno della quale la potenziale integrazione della Turchia rappresenta una delle questioni più controverse e preoccupanti, su cui di rado ci si confronta apertamente.
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Un’attesa infinita

La prospettiva dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea suscita ansie molto grandi tra gli europei, cristiani e post-cristiani, ansie che però non possono essere facilmente verbalizzate, almeno non pubblicamente. La Turchia è stata pazientemente a bussare alla porta del club europeo fin dal 1959, ed è stata educatamente lasciata in attesa mentre altri, arrivati dopo, venivano invitati a entrare.
La formazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio nel 1951 ad opera dei 6 membri fondatori (Benelux, Francia, Italia, e Germania dell’Ovest) e quella successiva della Comunità Economica Europea, o “mercato comune” nel 1957, si erano fondate su due storiche riconciliazioni: la riconciliazione tra Francia e Germania - due nazioni che erano state in guerra o in procinto di guerra dal 1870 al 1945 - e la riconciliazione tra protestanti e cattolici nella Democrazia Cristiana. In effetti i democratici cristiani, al governo o nella maggioranza in tutti e sei i paesi, svolgevano un ruolo guida in quel primo processo di integrazione europea. La guerra fredda, il piano Marshall, la Nato, e l’asse Washington-Roma, appena stabilito, rappresentavano il contesto geo-politico nel quale si inserivano entrambe le riconciliazioni. La Grecia, nel giugno 1959, e la Turchia, nel luglio dello stesso anno, ostili tra loro eppure membri della Nato, sono stati i primi due paesi a fare domanda per essere ammessi nella Comunità Economica Europea. Lo stesso luglio, gli altri paesi dell’Europa occidentale formavano l’associazione economica alternativa dell’EFTA. Solo la Spagna di Franco era stata tenuta fuori da queste iniziali alleanze.

Ovviamente la Comunità Europea ha sempre precisato che i candidati all’ammissione dovevano soddisfare rigidi parametri economici e politici. L’Irlanda, il Regno Unito e la Danimarca fecero formale domanda di ammissione nel 1961 ma si associarono solo nel 1973. Le richieste di Spagna e Portogallo sono state seccamente respinte, senza alcuna ambiguità, fino a che i due stati hanno mantenuto regimi autoritari, ma, quando le loro democrazie sono apparse in via di consolidamento, sono state chiarite condizioni e scadenze. Spagna e Portogallo sono entrate a far parte della Comunità nel 1986. Nel 1981 la Grecia aveva ottenuto l’ammissione e, con essa, il potere di veto sull’ingresso della Turchia. Ma anche quando, successivamente, la Grecia ha espresso la propria disponibilità a sostenere l’ammissione della Turchia in cambio di quella dell’intera isola di Cipro, la Turchia non ha ricevuto una risposta chiara, ed è stata lasciata di nuovo in attesa. La caduta del muro di Berlino ha spostato le priorità e la direzione dell’integrazione europea verso est. Nel 2004 dieci nuovi membri - 8 paesi ex-comunisti più Malta e Cipro - sono stati ammessi nell’Unione Europea. In pratica tutti i territori della cristianità medievale, ovvero tutti i territori dell’Europa cattolica e protestante, sono ora riuniti nell’Unione. Solo la Croazia cattolica e la Svizzera “neutrale” sono rimaste fuori, mentre la Grecia “ortodossa”, come anche Cipro, metà greca e metà turca, sono gli unici “diversi” dal punto di vista religioso. La Romania e la Bulgaria “ortodosse” dovrebbero essere le prossime, ma le scadenze non sono chiare. Ancora meno chiaro è se e quando verranno avviate le negoziazioni per l’ammissione della Turchia.

Durante il summit di Copenaghen del 2002, la prima discussione aperta, anche se non ancora formale, sulla candidatura della Turchia ha toccato i nervi scoperti del pubblico europeo.

L’ampio dibattito che ne è nato ha mostrato quanto il vero problema sia l’“Islam” e tutte le distorte rappresentazioni che lo vogliono “altro” dalla civilizzazione occidentale, e non l’eventuale incapacità della Turchia di soddisfare gli stessi rigidi parametri economici e politici raggiunti dai nuovi membri. Riguardo alla voglia e al desiderio della Turchia di partecipare all’Unione, non ci dovrebbero essere dubbi adesso che il nuovo governo, ufficialmente non più islamico, ha ribadito senza ambiguità la posizione di tutte le precedenti amministrazioni turche. Il pubblico turco, laico o musulmano, si è espresso all’unisono. Il nuovo governo è stato certamente il governo democratico più rappresentativo nella storia della Turchia moderna. La popolazione turca ha raggiunto almeno apparentemente un ampio consenso dimostrando così che la Turchia, sulla questione dell’annessione all’Europa e quindi all’ “Occidente”, non è più un “paese diviso”. Due dei tre requisiti indicati da Samuel Huntington affinché un paese diviso ridefinisca con successo la propria identità civile sono stati evidentemente raggiunti: “Primo: l’élite politica ed economica del paese deve generalmente sostenere con entusiasmo questo passo. Secondo: il pubblico deve essere almeno disponibile ad accettare la ridefinizione della propria identità”. Quello che sembra mancare è il terzo requisito: “gli elementi dominanti nella civiltà ospite - nella maggior parte dei casi l’Occidente - devono essere disposti ad abbracciare chi si è «convertito»”.

Il sogno di Kemal

Il sogno di Kemal Ataturk, “padre dei turchi”, di creare uno stato-nazione turco, moderno, occidentale, laico e repubblicano sul modello della laicità repubblicana francese si è dimostrato difficile da realizzare, almeno nei termini secolarizzati di Kemal. Tuttavia oggi la possibilità di uno stato turco democratico, rappresentativo della propria popolazione musulmana e in grado di unirsi all’Unione Europea, è per la prima volta reale. Le “sei frecce” del kemalismo (repubblicanesimo, nazionalismo, laicismo, statalismo, populismo e riformismo) non potevano realizzare una democrazia rappresentativa. Il progetto era destinato a fallire perché era troppo laico per gli islamici, troppo sunnita per gli alevi (corrente religiosa islamica che combina elementi sciiti e subiti, ndt), e troppo turco per i curdi. Uno stato turco in cui le identità e gli interessi collettivi di questi gruppi, che costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione, non riescano a trovare una rappresentazione pubblica non potrà mai essere una democrazia realmente rappresentativa, anche se fondato su principi moderni, repubblicani e laici. La democrazia musulmana è possibile e realizzabile oggi in Turchia tanto quanto una democrazia cristiana lo era mezzo secolo fa nell’Europa occidentale. Il partito musulmano, anche se ufficialmente non più islamico, attualmente al potere, è stato ripetutamente accusato di essere “fondamentalista” e di minare i sacri principi laici della Costituzione di Kemal che vieta la formazione di partiti “religiosi” come anche di quelli “etnici”, essendo religione e appartenenza etnica forme di identità a cui non è concessa rappresentazione pubblica nella Turchia laica.

Ci si può chiedere se la democrazia non diventi un “gioco” impossibile quando alle potenziali maggioranze non è permesso vincere le elezioni, e quando i politici laici si rivolgono alle forze militari affinché soccorrano la democrazia bandendo queste potenziali maggioranze che minacciano la loro identità laica e il loro potere. In realtà ogni paese dell’Europa continentale ha avuto partiti religiosi in un dato momento della propria storia. Molti di essi, in particolare quelli cattolici, avevano dubbie credenziali democratiche fino a che quanto appreso dalla negativa esperienza del fascismo non li ha trasformati in partiti cristiano-democratici.

Se alla gente non viene permesso di giocare correttamente, può essere difficile farle apprezzare le regole e farle acquisire l’habitus democratico. Ci si può chiedere: chi sono i veri “fondamentalisti”? I “musulmani” che vogliono ottenere il pubblico riconoscimento della propria identità e chiedono il diritto di mobilitarsi per sostenere i propri interessi ideali e materiali rispettando le regole democratiche del gioco, o i “laici” che considerano il velo musulmano indossato da un rappresentante democratico regolarmente eletto una minaccia per la democrazia turca e un affronto blasfemo ai sacri principi democratici dello stato kemalista? Potrebbe l’Unione Europea accettare la rappresentazione pubblica dell’Islam all’interno dei propri confini? Potrebbe un’Europa secolarizzata accettare una Turchia musulmana democratica? Finora il rifiuto dell’Europa si è ufficialmente fondato sullo scarso rispetto dei diritti umani da parte della Turchia. Ma ci sono segni abbastanza evidenti che l’Europa, esternamente laica, sia ancora troppo cristiana per immaginare un paese musulmano all’interno della comunità europea. Ci si può chiedere se la Turchia rappresenti una minaccia per la civilizzazione occidentale o piuttosto uno sgradito ricordo di quell’identità “bianca” europea e cristiana appena sommersa eppure inesprimibile e carica di ansia.

Un’Europa impaurita e divisa

L’ampio dibattito pubblico nato in Europa sulla questione dell’annessione della Turchia ha mostrato che, in realtà, è l’Europa il paese diviso, profondamente diviso, riguardo la propria identità culturale: incapace di rispondere alla domanda se l’unità europea, e quindi i propri confini interni ed esterni, dovrebbero essere definiti dalla comune eredità cristiana e dalla civilizzazione occidentale o dai valori moderni e laici del liberalismo, dei diritti umani universali, della democrazia politica, e del multiculturalismo tollerante e inclusivo. Pubblicamente – è ovvio – le élites europee liberali laiche non possono condividere la definizione del Papa di una civiltà europea essenzialmente cristiana. Ma esse non possono neppure esplicitare quei requisiti culturali non detti che rendono l’integrazione della Turchia in Europa una questione così complicata. Lo spettro di milioni di cittadini turchi già in Europa ma non europei, molti di essi immigrati di seconda generazione, a metà tra il vecchio paese che hanno lasciato alle loro spalle e le società europee che li ospitano incapaci o riluttanti ad assimilarli completamente, rende il problema soltanto più visibile. I “lavoratori ospiti” possono essere incorporati con successo dal punto di vista economico. Possono persino ottenere il diritto di votare, almeno a livello locale, e dimostrare di essere cittadini modello o più semplicemente cittadini ordinari. Ma possono superare le regole non scritte dell’appartenenza culturale europea o sono destinati a restare “stranieri”? Può l’Unione Europea stabilire nuove condizioni per quel tipo di multiculturalismo che le sue società nazionali hanno così tanta difficoltà ad accettare?
(traduzione dall’inglese di Martina Toti)

© José Casanova
© Transit – Europäische Revue 27 (2004)
© Eurozine

 

 

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