Dal
Trattato di Roma del 1957 che istituì la CEE
e avviò il processo di integrazione europea tuttora
in atto, le società dell’Europa occidentale
hanno subito un rapido, drastico, e apparentemente irreversibile
processo di laicizzazione. Da questo punto di vista,
si può parlare della nascita di un’Europa
post-cristiana. Allo stesso tempo, il processo di integrazione
europea, l’espansione verso est dell’Unione
e la stesura della Costituzione hanno sollecitato domande
fondamentali riguardanti l’identità europea
e, in essa, il ruolo della cristianità. Che cosa
fonda l’Europa? Come e dove dovrebbero essere
tracciati i confini territoriali e culturali dell’Europa?
(…)
La
progressiva, anche se affatto uniforme, laicizzazione
dell’Europa è un innegabile fatto sociale.
Una maggioranza crescente della popolazione europea
ha smesso di partecipare, almeno regolarmente, alle
pratiche religiose pur mantenendo ancora un livello
relativamente alto di credo religioso individuale e
privato. Da questo punto di vista, si dovrebbe forse
parlare di una “sconsacrazione” della popolazione
europea e di un’individualizzazione religiosa,
piuttosto che di laicizzazione vera e propria. Grace
Davie ha descritto questa situazione ricorrendo all’espressione
“credere senza appartenere”. Allo stesso
tempo, tuttavia, molti europei, anche nei paesi più
laici, si identificano come cristiani, evidenziando
un’implicita, diffusa e sommersa identità
culturale cristiana. In questo senso, Danièle
Hervieu-Léger ha ragione nel proporre una descrizione
della situazione europea inversa rispetto a quello fornita
da Davie: “appartenere senza credere”. Identità
laiche e cristiane si intrecciano in modi complessi,
raramente verbalizzati, in molti europei.
Dal punto di vista sociologico, la questione più
interessante non è il progressivo indebolimento
della religione, ma il fatto che esso venga interpretato
ricorrendo al paradigma della laicizzazione e sia quindi
accompagnato da un’auto-comprensione laicista
che interpreta l’indebolimento come normale e
progressivo, ovvero, come una conseguenza quasi inevitabile
dell’essere europei “moderni” e “illuminati”.
E’ questa identità laica, condivisa dalle
élites europee e contemporaneamente dalla gente
ordinaria, che paradossalmente trasforma la “religione”
e l’identità cristiana appena sommersa
in questioni spinose e complesse quando si tratta di
delineare i confini geografici e di definire l’identità
culturale di un’Unione Europea in via di costituzione
e all’interno della quale la potenziale integrazione
della Turchia rappresenta una delle questioni più
controverse e preoccupanti, su cui di rado ci si confronta
apertamente.
(…)
Un’attesa infinita
La prospettiva dell’ingresso della Turchia nell’Unione
Europea suscita ansie molto grandi tra gli europei,
cristiani e post-cristiani, ansie che però non
possono essere facilmente verbalizzate, almeno non pubblicamente.
La Turchia è stata pazientemente a bussare alla
porta del club europeo fin dal 1959, ed è stata
educatamente lasciata in attesa mentre altri, arrivati
dopo, venivano invitati a entrare.
La formazione della Comunità Europea del Carbone
e dell’Acciaio nel 1951 ad opera dei 6 membri
fondatori (Benelux, Francia, Italia, e Germania dell’Ovest)
e quella successiva della Comunità Economica
Europea, o “mercato comune” nel 1957, si
erano fondate su due storiche riconciliazioni: la riconciliazione
tra Francia e Germania - due nazioni che erano state
in guerra o in procinto di guerra dal 1870 al 1945 -
e la riconciliazione tra protestanti e cattolici nella
Democrazia Cristiana. In effetti i democratici cristiani,
al governo o nella maggioranza in tutti e sei i paesi,
svolgevano un ruolo guida in quel primo processo di
integrazione europea. La guerra fredda, il piano Marshall,
la Nato, e l’asse Washington-Roma, appena stabilito,
rappresentavano il contesto geo-politico nel quale si
inserivano entrambe le riconciliazioni. La Grecia, nel
giugno 1959, e la Turchia, nel luglio dello stesso anno,
ostili tra loro eppure membri della Nato, sono stati
i primi due paesi a fare domanda per essere ammessi
nella Comunità Economica Europea. Lo stesso luglio,
gli altri paesi dell’Europa occidentale formavano
l’associazione economica alternativa dell’EFTA.
Solo la Spagna di Franco era stata tenuta fuori da queste
iniziali alleanze.
Ovviamente la Comunità Europea ha sempre precisato
che i candidati all’ammissione dovevano soddisfare
rigidi parametri economici e politici. L’Irlanda,
il Regno Unito e la Danimarca fecero formale domanda
di ammissione nel 1961 ma si associarono solo nel 1973.
Le richieste di Spagna e Portogallo sono state seccamente
respinte, senza alcuna ambiguità, fino a che
i due stati hanno mantenuto regimi autoritari, ma, quando
le loro democrazie sono apparse in via di consolidamento,
sono state chiarite condizioni e scadenze. Spagna e
Portogallo sono entrate a far parte della Comunità
nel 1986. Nel 1981 la Grecia aveva ottenuto l’ammissione
e, con essa, il potere di veto sull’ingresso della
Turchia. Ma anche quando, successivamente, la Grecia
ha espresso la propria disponibilità a sostenere
l’ammissione della Turchia in cambio di quella
dell’intera isola di Cipro, la Turchia non ha
ricevuto una risposta chiara, ed è stata lasciata
di nuovo in attesa. La caduta del muro di Berlino ha
spostato le priorità e la direzione dell’integrazione
europea verso est. Nel 2004 dieci nuovi membri - 8 paesi
ex-comunisti più Malta e Cipro - sono stati ammessi
nell’Unione Europea. In pratica tutti i territori
della cristianità medievale, ovvero tutti i territori
dell’Europa cattolica e protestante, sono ora
riuniti nell’Unione. Solo la Croazia cattolica
e la Svizzera “neutrale” sono rimaste fuori,
mentre la Grecia “ortodossa”, come anche
Cipro, metà greca e metà turca, sono gli
unici “diversi” dal punto di vista religioso.
La Romania e la Bulgaria “ortodosse” dovrebbero
essere le prossime, ma le scadenze non sono chiare.
Ancora meno chiaro è se e quando verranno avviate
le negoziazioni per l’ammissione della Turchia.
Durante il summit di Copenaghen del 2002, la prima
discussione aperta, anche se non ancora formale, sulla
candidatura della Turchia ha toccato i nervi scoperti
del pubblico europeo.
L’ampio dibattito che ne è nato ha mostrato
quanto il vero problema sia l’“Islam”
e tutte le distorte rappresentazioni che lo vogliono
“altro” dalla civilizzazione occidentale,
e non l’eventuale incapacità della Turchia
di soddisfare gli stessi rigidi parametri economici
e politici raggiunti dai nuovi membri. Riguardo alla
voglia e al desiderio della Turchia di partecipare all’Unione,
non ci dovrebbero essere dubbi adesso che il nuovo governo,
ufficialmente non più islamico, ha ribadito senza
ambiguità la posizione di tutte le precedenti
amministrazioni turche. Il pubblico turco, laico o musulmano,
si è espresso all’unisono. Il nuovo governo
è stato certamente il governo democratico più
rappresentativo nella storia della Turchia moderna.
La popolazione turca ha raggiunto almeno apparentemente
un ampio consenso dimostrando così che la Turchia,
sulla questione dell’annessione all’Europa
e quindi all’ “Occidente”, non è
più un “paese diviso”. Due dei tre
requisiti indicati da Samuel Huntington affinché
un paese diviso ridefinisca con successo la propria
identità civile sono stati evidentemente raggiunti:
“Primo: l’élite politica ed economica
del paese deve generalmente sostenere con entusiasmo
questo passo. Secondo: il pubblico deve essere almeno
disponibile ad accettare la ridefinizione della propria
identità”. Quello che sembra mancare è
il terzo requisito: “gli elementi dominanti nella
civiltà ospite - nella maggior parte dei casi
l’Occidente - devono essere disposti ad abbracciare
chi si è «convertito»”.
Il sogno di Kemal
Il sogno di Kemal Ataturk, “padre dei turchi”,
di creare uno stato-nazione turco, moderno, occidentale,
laico e repubblicano sul modello della laicità
repubblicana francese si è dimostrato difficile
da realizzare, almeno nei termini secolarizzati di Kemal.
Tuttavia oggi la possibilità di uno stato turco
democratico, rappresentativo della propria popolazione
musulmana e in grado di unirsi all’Unione Europea,
è per la prima volta reale. Le “sei frecce”
del kemalismo (repubblicanesimo, nazionalismo, laicismo,
statalismo, populismo e riformismo) non potevano realizzare
una democrazia rappresentativa. Il progetto era destinato
a fallire perché era troppo laico per gli islamici,
troppo sunnita per gli alevi (corrente religiosa islamica
che combina elementi sciiti e subiti, ndt), e troppo
turco per i curdi. Uno stato turco in cui le identità
e gli interessi collettivi di questi gruppi, che costituiscono
la stragrande maggioranza della popolazione, non riescano
a trovare una rappresentazione pubblica non potrà
mai essere una democrazia realmente rappresentativa,
anche se fondato su principi moderni, repubblicani e
laici. La democrazia musulmana è possibile e
realizzabile oggi in Turchia tanto quanto una democrazia
cristiana lo era mezzo secolo fa nell’Europa occidentale.
Il partito musulmano, anche se ufficialmente non più
islamico, attualmente al potere, è stato ripetutamente
accusato di essere “fondamentalista” e di
minare i sacri principi laici della Costituzione di
Kemal che vieta la formazione di partiti “religiosi”
come anche di quelli “etnici”, essendo religione
e appartenenza etnica forme di identità a cui
non è concessa rappresentazione pubblica nella
Turchia laica.
Ci si può chiedere se la democrazia non diventi
un “gioco” impossibile quando alle potenziali
maggioranze non è permesso vincere le elezioni,
e quando i politici laici si rivolgono alle forze militari
affinché soccorrano la democrazia bandendo queste
potenziali maggioranze che minacciano la loro identità
laica e il loro potere. In realtà ogni paese
dell’Europa continentale ha avuto partiti religiosi
in un dato momento della propria storia. Molti di essi,
in particolare quelli cattolici, avevano dubbie credenziali
democratiche fino a che quanto appreso dalla negativa
esperienza del fascismo non li ha trasformati in partiti
cristiano-democratici.
Se alla gente non viene permesso di giocare correttamente,
può essere difficile farle apprezzare le regole
e farle acquisire l’habitus democratico. Ci si
può chiedere: chi sono i veri “fondamentalisti”?
I “musulmani” che vogliono ottenere il pubblico
riconoscimento della propria identità e chiedono
il diritto di mobilitarsi per sostenere i propri interessi
ideali e materiali rispettando le regole democratiche
del gioco, o i “laici” che considerano il
velo musulmano indossato da un rappresentante democratico
regolarmente eletto una minaccia per la democrazia turca
e un affronto blasfemo ai sacri principi democratici
dello stato kemalista? Potrebbe l’Unione Europea
accettare la rappresentazione pubblica dell’Islam
all’interno dei propri confini? Potrebbe un’Europa
secolarizzata accettare una Turchia musulmana democratica?
Finora il rifiuto dell’Europa si è ufficialmente
fondato sullo scarso rispetto dei diritti umani da parte
della Turchia. Ma ci sono segni abbastanza evidenti
che l’Europa, esternamente laica, sia ancora troppo
cristiana per immaginare un paese musulmano all’interno
della comunità europea. Ci si può chiedere
se la Turchia rappresenti una minaccia per la civilizzazione
occidentale o piuttosto uno sgradito ricordo di quell’identità
“bianca” europea e cristiana appena sommersa
eppure inesprimibile e carica di ansia.
Un’Europa impaurita e divisa
L’ampio dibattito pubblico nato in Europa sulla
questione dell’annessione della Turchia ha mostrato
che, in realtà, è l’Europa il paese
diviso, profondamente diviso, riguardo la propria identità
culturale: incapace di rispondere alla domanda se l’unità
europea, e quindi i propri confini interni ed esterni,
dovrebbero essere definiti dalla comune eredità
cristiana e dalla civilizzazione occidentale o dai valori
moderni e laici del liberalismo, dei diritti umani universali,
della democrazia politica, e del multiculturalismo tollerante
e inclusivo. Pubblicamente – è ovvio –
le élites europee liberali laiche non possono
condividere la definizione del Papa di una civiltà
europea essenzialmente cristiana. Ma esse non possono
neppure esplicitare quei requisiti culturali non detti
che rendono l’integrazione della Turchia in Europa
una questione così complicata. Lo spettro di
milioni di cittadini turchi già in Europa ma
non europei, molti di essi immigrati di seconda generazione,
a metà tra il vecchio paese che hanno lasciato
alle loro spalle e le società europee che li
ospitano incapaci o riluttanti ad assimilarli completamente,
rende il problema soltanto più visibile. I “lavoratori
ospiti” possono essere incorporati con successo
dal punto di vista economico. Possono persino ottenere
il diritto di votare, almeno a livello locale, e dimostrare
di essere cittadini modello o più semplicemente
cittadini ordinari. Ma possono superare le regole non
scritte dell’appartenenza culturale europea o
sono destinati a restare “stranieri”? Può
l’Unione Europea stabilire nuove condizioni per
quel tipo di multiculturalismo che le sue società
nazionali hanno così tanta difficoltà
ad accettare?
(traduzione dall’inglese di Martina Toti)
© José Casanova
© Transit
– Europäische Revue 27 (2004)
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