262 - 02.10.04


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L’impresa vince se ispira fiducia
Dialogo tra Giuliano Amato e Paolo Scaroni


«Reset»: Il tema della governance delle imprese è di grande importanza in relazione a due aspetti fondamentali: il primo è quello delle regole e delle garanzie per i risparmiatori dopo le disavventure di Parmalat e Cirio accadute nei mesi scorsi in Italia, per non parlare del calcio; il secondo è l’aspetto che riguarda il dinamismo, la capacità dell’impresa e del sistema italiano di competere sul mercato. Abbiamo messo in dialogo, qui, due persone di elevata competenza: Giuliano Amato che, tra le altre cose, è stato dal ’94 al ’97 presidente dell’autorità garante della concorrenza, e Paolo Scaroni, un manager che ha esperienza diretta di public companies (chief executive alla Pilkington per sei anni), è tuttora membro di consigli di amministrazione all’estero, e che, anche come amministratore delegato di Enel Spa, torna spesso sui temi della responsabilità sociale dell’impresa.

Scaroni: Credo possa essere utile fare riferimento alle mie esperienze nei paesi anglosassoni, essendo stato per circa sei anni chief executive di una public company inglese, la Pilkington, e facendo tuttora parte di consigli di amministrazione all’estero. È interessante mettere a confronto l’approccio anglosassone ai temi di corporate governance e il nostro modo di affrontare la questione in Italia.

I primi al mondo a parlare di corporate governance sono stati gli inglesi. La Compagnia delle Indie, il 31 dicembre del 1600, chiarisce, per la prima volta nella storia, i ruoli rispettivamente del consiglio di amministrazione e dell’assemblea dei soci. Ruoli che vennero stabiliti con modalità curiosamente molto simili a quelle di oggi. Successivamente, sono arrivati i vari «codici» di comportamento. Il primo è stato il Cadbury Code del ’92, poi il Greenbury Code del 1995, l’Hampel Combine Code del 1998 e, infine, l’ultimo, l’Higgs Code del 2003. Tutti questi codici seguono uno schema nel quale vengono date regole di best practice, cioè regole che individuano la governance «eccellente» della società: i compiti del presidente, i compiti del consigliere delegato, il numero e il ruolo dei vari comitati interni – audit, compensation, nomination. Si definisce così la best practice, ma ogni società è libera di attenervisi o meno.

Se una società si discosta dalle regole di best practice, deve spiegare al mercato perché non lo fa. Dicendo «deve» non intendo un obbligo dal punto di vista giuridico: non c’è nessuna sanzione. La sanzione la dà il mercato. Gli azionisti giudicheranno se la società in cui investono ha una corporate governance efficiente e trasparente e di conseguenza decideranno di investire o di disinvestire facendo salire o scendere il valore dell’azione. In sostanza, la sanzione non è legale ma la dà il mercato creando o distruggendo il valore di capitalizzazione di Borsa della società quotata. Questo meccanismo funziona bene in Inghilterra e negli Stati Uniti, perché in questi Paesi ci sono fattori che rendono i mercati finanziari diversi dal nostro.

Il primo è la grande presenza di investitori istituzionali, in particolare dei fondi pensione. Pensate, il 70% delle azioni della borsa di Londra è in mano ad investitori istituzionali. Questi sono azionisti attivi, con una organizzazione e con la voglia e la capacità di influenzare comportamenti. Sono soprattutto attenti a segnalare i loro dissensi imponendo le best practices della corporate governance. Il secondo importante fattore è la stampa, soprattutto quella economica, che è il vero «cane da guardia» del sistema. I giornalisti inglesi ed americani sono attenti alla trasparenza, al comportamento del management e alla creazione di valore per gli azionisti.

Da un lato gli investitori istituzionali ed i fondi pensione, dall’altro il «cane da guardia» della stampa: con i codici di best practice il mondo anglosassone funziona. E smettiamola di dirci che casi Parmalat e Cirio ci sono stati anche in Gran Bretagna e Stati Uniti perché, se facciamo le proporzioni tra la nostra economia e l’economia anglosassone, tra le grandi aziende in Italia e le grandi aziende in Gran Bretagna e Usa, dobbiamo concludere che nel nostro paese c’è un tasso di incidentalità maggiore che altrove.

«Reset»: In che senso Gran Bretagna e Stati Uniti sono sistemi più funzionanti?

Scaroni: In generale, il sistema anglosassone – che pure ha dei difetti, inclusa l’ossessione della presentazione dei risultati trimestrali – è un sistema che funziona, tanto è vero che da cento anni cresce e si sviluppa. E’ il naturale punto di riferimento per tutto il mondo e lo dimostra ogni giorno con la capacità di attrarre capitali, idee e talenti. Da questo punto di vista, l’Italia è per ragioni storiche in una fase precedente di evoluzione del sistema. Pensate ad esempio al dibattito sulla successione nelle aziende familiari oggi di voga in Italia. Questo dibattito era di attualità in Inghilterra all’inizio del ‘900, poiché le aziende, nate nella prima metà dell’800 si preparavano allora ad affrontare la questione della successione familiare.
Non bisogna essere né esterofili né esterofobi: l’Italia si trova in una fase di sviluppo economico diversa da quella di Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti e credo possa essere utile fare riferimento a quanto è stato fatto altrove, nel bene e nel male.

Amato: La leadership dei paesi anglosassoni è fuori discussione: è un fatto. Loro hanno saputo far crescere l’economia nel tempo cambiandone le qualità. Non c’era alcuna differenza tra i Rockfeller, che provocarono la legge antitrust a fine Ottocento, e gli Agnelli: l’orgoglio della famiglia stava nell’essere padroni dell’impresa. Ma oggi l’analogia non c’è più e l’analogo italiano dei Rockfeller è ormai la fondazione bancaria. Da noi la famiglia continua a gestire l’impresa, là la famiglia ha trasferito se stessa in un bilanciato portafoglio finanziario. Noi abbiamo una fetta dei nostri risparmi in un fund, loro hanno il proprio fund. La famiglia è diventata un trust fund, non ha più niente a che fare con l’impresa. Se pensiamo al punto in cui ci troviamo in tema di economia aziendale ed economia domestica, allora è vero, siamo ancora cento anni indietro.

È difficile anche fare confronti tra la situazione italiana e quei paesi che hanno sviluppato questa istituzionalizzazione della ricchezza familiare in una forma così distaccata dalla conduzione d’impresa, non avendo noi meccanismi relativamente stabili, e quindi affidabili, di gestione dell’impresa, se non quello della famiglia. Diverso è il caso delle public utilities che tuttavia si avvantaggiano di un mercato di utenti che in gergo chiamiamo coatto, cioè privo o quasi di alternative. In Italia, perciò, al di là delle public utilities, ci troviamo in una situazione per cui la famiglia, per l’impresa, diventa un fattore positivo, proprio per il suo attaccamento alla stessa impresa e al suo futuro.

«Reset»: Ci sono motivi particolari per cui in Italia si sono verificati i gravi episodi che hanno portato conseguenze disastrose per i risparmiatori?

Amato: Perché ci siamo imbarcati in questa vicenda? Perché stavamo sperimentando un campo nuovo: noi siamo figli dei bot, di una storia nella quale l’impresa prendeva i soldi a credito dalla banca, mentre noi preferivamo dare i nostri allo Stato, che ci garantiva capitale e interesse.
Fino a dieci anni fa il mondo dei risparmiatori italiani era questo: pochissimi rischiavano i propri soldi comprando azioni di società. Ora è finito il tempo dei bot, il risparmio ha cercato altre canalizzazioni e si è orientato in direzione delle imprese. Ma la nostra propensione alla garanzia ci ha portato a scegliere titoli ancora meno garantiti delle azioni: obbligazioni emesse da società che spesso ci allettavano con la prospettiva di un alto rendimento, pur non avendo, loro, alcuna seria prospettiva di reddito futuro capace di pagare quel rendimento e di restituire il capitale.

I risparmiatori italiani non hanno capito, inizialmente, la profonda differenza tra l’obbligazione del Tesoro e l’obbligazione della Cirio: erano entrambi titoli obbligazionari che comportavano la restituzione del capitale entro una certa data, con – anno dopo anno – un certo tasso di interesse. Ma la Cirio non è lo Stato. Non voglio entrare nel merito della polemica che si è fatta su chi abbia permesso e favorito l’immissione nel mercato di questi titoli senza una adeguata «rieducazione sentimentale» del risparmiatore, rieducazione che nel nostro paese avrebbe avuto senso per aiutare i risparmiatori a capire a cosa stessero andando incontro. Di sicuro però sarebbe stato utile che qualcuno si fosse preoccupato di ridurre l’asimmetria informativa tra risparmiatore ed emittente dei titoli. Bisogna anche dire che se l’informatore è interessato solamente alla commissione che può ricavare dall’emissione di quei titoli, se ne guarderà bene dall’informare il risparmiatore, cercando di piazzarne il più possibile.

Qual è stato l’effetto di tutto questo? I nostri risparmiatori, scottati dalle cattive esperienze, sono tornati a mettere i soldi sotto il materasso: il risparmio non è diminuito, ma si è congelato. È qui che si sente la necessità di una legge: al risparmiatore, in queste condizioni, non si può non dare garanzia legislativa. Il rischio che si corre, però, è di dare talmente tante garanzie da ingolfare il meccanismo del mercato anziché aiutarlo. La vicenda si muove tra questi due poli e, come le facce di una medaglia, entrambi i poli giocano una parte.

«Reset»: È possibile e come trasferire sistemi di controllo simili a quelli dei paesi menzionati in Italia?

Scaroni
: Il problema è come trasferire questi concetti nella nostra realtà, dove i fondi pensione non ci sono o sono molto più piccoli e l’opinione pubblica non è ancora così attenta a questi temi. Una realtà italiana in cui le aziende non sono quasi mai public companies e spesso, anzi, o il Presidente o l’Amministratore Delegato, o tutti e due, sono spesso gli azionisti di riferimento e conseguentemente gestiscono tutti gli strumenti di controllo che dovrebbero vigilare sul loro operato.
Credo che l’ipotesi di un codice di comportamento senza sanzioni in Italia non possa funzionare, che sia necessario, quindi, procedere per forza di legge. In Italia, dunque, mancano quei fattori di naturale bilanciamento che permettono l’applicazione di un modello non coercitivo come avviene in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

Tutti i sistemi di governance anglosassoni sono stati concepiti per le public companies. Trasferire pari pari questi sistemi in Italia sarebbe come far indossare un abito su misura a una persona del tutto diversa rispetto a quella per la quale era stato tagliato. Nei paesi anglosassoni, inoltre, anche nel caso in cui la proprietà di un’azienda quotata è stabile e identificata in una famiglia, al vertice non c’è quasi mai identità tra il management e la proprietà: il familismo aziendale è una caratteristica molto italiana. Noi diamo quasi per scontato che gli eredi dei fondatori non si limitino ad essere ricchi ma che debbano anche avere le qualità per guidare l’azienda di famiglia. Bisogna invece affermare la separazione tra proprietà e management: guai se chi decide e chi controlla è la stessa persona.
Naturalmente non si può impedire alla proprietà di esprimersi ed è per questo che si può tutelare il risparmio solamente a forza di autorità e di legge, a rischio di perdere l’ingrediente fondamentale nel funzionamento del buon capitalismo, ovvero la fiducia. Se la fiducia viene meno si perde la benzina del capitalismo: l’economia tende a sgonfiarsi, il denaro non va a finanziare le aziende sotto forma di capitali o prestiti, e si orienta verso quei paesi o quelle aziende in cui il tasso di fiducia è ancora alto.

Amato: Al fine di illustrare le questioni si usa sempre presentarle in modo dilemmatico: o serve la fiducia o servono le regole. Poi ci si accorge che non tutte le questioni hanno una soluzione dilemmatica e che ci sono casi in cui sono necessarie entrambe le soluzioni: anche quando si usa quella banalissima espressione «le due facce di una medaglia», una medaglia non esisterebbe se non ci fossero le due facce. Siamo in un contesto in cui sono necessari entrambi i profili: e solo per evidenziare i pregi ed i limiti di ciascuno, è retoricamente utile presentarli in modo dilemmatico.
La mia opinione è perciò che i mercati necessitino di una dose irrinunciabile di etica – che poi è la fonte della fiducia – e di regole. Soltanto a seconda dell’andamento degli eventi è possibile un maggiore affidamento sull’una o sulle altre: in genere, l’over-regulation è sempre figlia di una crisi della fiducia, dovuta a un venir meno di quel quoziente di etica necessario al suo mantenimento.

Storicamente si può avere la sensazione che etica e regole siano venute in alternativa l’una all’altra: la lettura di storie dello sviluppo, come quelle magistrali di Douglas North ,ci fa capire il perché di una nascita dell’economia come entità non regolata, in quanto affidata in tutto alla fiducia. In un’economia iniziale di tipo stanziale, dove produzione e commerci erano limitati al villaggio, la conoscenza personale fra gli operatori economici faceva da selettore delle loro scelte, che erano perciò fondate sulla sola fiducia. Le regole divengono necessarie quando nascono i mercati dove viene portata e venduta la merce di villaggi diversi e dove gli scambi avvengono fra persone che non si conoscono. Come fare a sapere se ci si può fidare e che cosa accade se la promessa di pagamento non è onorata? È a questo punto che nascono, con le regole, i tribunali civili e commerciali, che rispondono al bisogno di una sede pubblica dove risolvere le dispute di un mercato che si è allargato oltre l’ambito della conoscenza personale. Vi è in questo meccanismo tutta l’essenzialità di una regola giuridica irrinunciabile, giacché il bisogno di espandere il mercato non permette di limitarsi al meccanismo iniziale della fiducia. Insomma, lo sviluppo dei mercati porta con sé una regolamentazione che non è anti-mercato ma che anzi, direbbe un economista, riduce i costi di transazione necessari per svolgere commerci su scale più ampie.

È anche a causa di questa evoluzione che è nato il dilemma: la fiducia e l’etica o la regola giuridica. Ma con il passare dei secoli ci si è accorti che questi due fenomeni si integrano: le regole non possono raggiungere tutti i comportamenti e specie sui grandi mercati di oggi si ricrea l’essenzialità e l’efficacia punitiva di meccanismi di fiducia e sfiducia. È un mix tra questi due elementi a garantire il funzionamento del sistema.

«Reset»: In Italia, in particolare, c’è una situazione ampiamente insoddisfacente e drammatica, tale da obbligarci a porre dei problemi di agenda pubblica. Abbiamo bisogno adesso di modifiche a questa governance in modo da avere dei cambiamenti tanto sotto il profilo delle garanzie quanto sotto il profilo dell’efficacia. Quali sono le leve agibili? Certo, le imprese non possono essere governate dallo stato, ma quali sono i punti da porre di fronte all’attenzione allarmata dell’opinione pubblica?

Scaroni: Il caso Enron, spesso citato, è sicuramente un caso gravissimo. Ma a mio parere, tenuto conto della dimensione dell’economia americana è un segnale di debolezza del sistema molto meno vistoso di quello che abbiamo vissuto noi. Non credo ci sia nessun Paese occidentale cha ha avuto per quindici anni una grande azienda quotata che ha emesso obbligazioni a raffica, presentando conti falsi, senza che nessuno se ne accorgesse. È un caso veramente eccezionale.

Un’altra considerazione: molti degli scandali americani si sono verificati nell’area della cosiddetta new economy, compresa Enron; manager che avevano cavalcato una crescita senza precedenti delle loro azioni che quando hanno iniziato a precipitare annullando il valore delle loro stock-options, hanno agito fuori dalle regole e talvolta anche in modo criminale. Parmalat è un caso diverso. Opera nella «very old economy» e, a quanto sembra, ha sempre vissuto falsificando i conti. Ciò che mi ha colpito in questo caso è che la più grande banca d’affari italiana, Mediobanca, e una delle più grandi al mondo, Goldman-Sachs, non sono mai entrate nel giro d’affari con Parmalat.
Una volta compresa la gravità del fenomeno, cosa si deve fare?

Innanzitutto, mi sembra che la legge di tutela del risparmio sia già in ritardo, il che dimostra una falla importante nella nostra capacità di reazione a questi fenomeni. Con una certa ingenuità, ero convinto, in gennaio, che nello spazio di uno o due mesi la legge sarebbe stata approvata, chiarendo i vari ruoli degli auditors, dei revisori, il ruolo della Consob e della Banca d’Italia. Sono andato a vedere a che punto siamo nel dibattito parlamentare e ancora siamo in alto mare. Ho avuto l’impressione di un cantiere che potrebbe rimanere aperto ancora per mesi.

I primi interventi in materia di corporate governance sono avvenuti nel 1975, negli Stati Uniti, a seguito del fallimento della Penn Central. Il parlamento americano in quel caso ha emesso le prime norme correttive, ad esempio sulla scelta degli auditors, in soli due mesi. Passando invece ai contenuti mi sembra che l’area nella quale intervenire sia quella del numero e del ruolo dei consiglieri indipendenti, della scelta degli auditors (che potrebbe addirittura essere affidata alla Consob), della separazione dei ruoli tra Presidente e Amministratore Delegato. Sono soluzioni che non eviteranno per sempre episodi di dolo, ma li rendono certo più difficili. E poi spero proprio che i risparmiatori abbiano imparato la lezione: quando una obbligazione ha un rendimento molto alto anche il rischio è più alto. Un processo di educazione che sarebbe dovuto avvenire in modo più indolore per tutti ma che è iniziato, sia per i risparmiatori sia per le banche.

«Reset»: Le forme di controllo fino a che punto possono arrivare? Si può immaginare, come per la legge americana di cui parla Francesco Maggio ne L’economia inceppata, una legge che proponga forme di monitoraggio delle società di revisione, la creazione di un organo nazionale che definisca gli standard contabili, la separazione dell’attività di consulenza contabile da quella di revisione e una lunga lista di altre cose simili? Quanto può darci il controllo?

Amato: Alcuni di questi elementi erano già presenti nel nostro sistema, e anche di più: quando esplose il caso Enron, sui nostri giornali si scrisse orgogliosamente che da noi non poteva succedere nulla di simile poiché il conflitto di interessi tra auditing e consulting era previsto dalle nostre leggi, sino al punto di imporre la rotazione degli auditors. Il caso Parmalat mise peraltro in evidenza il fatto che sotto la rotazione delle società poteva esserci la non rotazione delle persone: la stessa persona, allo scadere del periodo della propria società, cambiava società e con la nuova casacca continuava il suo lavoro, il che dimostra che le regole giuridiche hanno un limite. Il meccanismo legale, per definizione, può essere aggirato.

Certo si è che molto ancora si può fare per migliorare la nostra corporate governance e il disegno di legge all’esame della Camera è, in effetti, migliorativo, tant’è che per diverse parti gode di un consenso bi-partisan. Non è detto che tutte le innovazioni previste siano efficaci. Per esempio non so quanto riuscirà ad esserlo l’introduzione nei consigli dei consiglieri indipendenti, molto adatti alla public company e forse di meno in contesti di perdurante proprietà e gestione familiari, com’era proprio il caso Parmalat. Può essere inoltre che per certi aspetti si vada anche troppo in là, come sarebbe se le società di revisione dovessero essere addirittura nominate dalla Consob. Ma sono tutte cose su cui una definizione rapida sarebbe possibile, se non fosse che, nel procedere dei lavori, è stato messo in dubbio l’impegno, già preso dal Ministro dell’Economia, di ripristinare sanzioni adeguate per il falso in bilancio. È anche questo che frena (così come frenano i dissensi sulla parte meno urgente della riforma, quella relativa alla riallocazione delle competenze di controllo fra le diverse Autorità). E il rischio è che sul mercato vi sia una delusione non priva di conseguenze, se la promessa di dargli presto regole migliori non sarà adempiuta.

C’è tuttavia qualcosa che sta a monte di tutto questo: non sembri strano, ma è la riforma pensionistica. Scaroni, in un’intervista, osservava come la vera cura al nanismo italiano consista nel dotarsi di un capitalismo finanziario, come avviene non solo nei grandi, ma anche in piccoli paesi – Olanda, ad esempio – nei quali è l’investitore istituzionale a convogliare il risparmio sulle società commerciali: così facendo, si realizza un meccanismo strutturale di controllo sulla vita societaria simile a quello della public company – public non perché l’azionariato è diffuso tra miriadi di risparmiatori, ma perché le miriadi di risparmiatori appaiono attraverso investitori istituzionali. È da oltre venti anni che in Italia cantiamo i benefici effetti per il nostro capitalismo finanziario e per la nostra stessa economia reale dell’introduzione su larga scala dei fondi pensione. Ma oggi siamo ancora qui a parlarne.

Scaroni: Non vorrei addentrarmi, in presenza di un fine giurista, come Giuliano Amato, sul piano giuridico. A me sembra che il falso in bilancio sia un reato che va perseguito solo quando danneggia qualcuno. Se un’azienda non è quotata o non ricorre al mercato per finanziarsi, il falso in bilancio è forse un reato fiscale ma non danneggia terzi. Più in generale quando una società non è quotata le regole di corporate governance devono essere semplicissime, mentre devono esser rafforzate quando si vogliono attirare capitali dai risparmiatori.

«Reset»: Concludendo: il marchio di un’azienda si rafforza nella reputazione se si arricchisce di elementi sociali, ambientalisti, positivi dal punto di vista dei valori delle basi di rappresentanza, dei diritti umani? L’economia italiana può trarre vantaggio da questi fattori o questi sono un lusso che si possono permettere solo le poche grandi imprese che fanno profitti, come le grandi utilities?

Scaroni: Nella mia esperienza, quasi tutto quello che si fa, per radicare una forte corporate social responsibility è anche fonte di profitto. La corporate social responsibility, dunque, non è un lusso: è solo un buon modo di gestire l’azienda. Per esempio: il modo migliore per eliminare scarti inquinanti è aumentare i rendimenti ma l’aumento dei rendimenti vuole anche dire un miglioramento economico. Ridurre gli infortuni sul lavoro vuol dire gestire meglio gli stabilimenti. Non ho mai visto uno stabilimento ben gestito avere un alto tasso di infortuni sul lavoro e uno mal gestito avere un tasso di infortuni basso. E per di più una buona corporate social responsibility crea valore presso gli stake-holders: valore magari difficile da quantificare, ma certamente molto rilevante.

Amato: Si fanno spesso delle discussioni sui rapporti tra etica ed impresa che a volte possono suscitare impressioni sbagliate, soprattutto in chi gestisce l’impresa, quasi si chiedesse loro di comportarsi come boy scouts o francescani: non è questo il problema.

Chi gestisce un’impresa, nell’esercizio dei propri compiti, deve sapere che se la linea che sceglie è quella dell’imbroglio, ultimately l’imbrogliato sarà lui e con lui l’azienda: il mercato conosce e punisce, anche in ragione di scelte non vincolate dalla legge. Se le scelte sono ispirate da comportamenti finalizzati, ad esempio, al proprio arricchimento, in barba agli azionisti o anche agli stake holders, il mercato finirà per accorgersene e la sua punizione sarà drammatica: se non si mantiene quel grado di fiducia necessario a far proseguire i rapporti, essi si ridurranno, riducendo anche il volume di affari dell’azienda, ovvero il valore dell’azione. Il comportamento di una società di revisione che, essendo anche consulente della società di cui rivede i conti, desse una visione rosea del bilancio della società revisionata - visione non corrispondente alla realtà – è chiaramente il comportamento di qualcuno che sta incrementando il proprio reddito, cumulando la remunerazione di revisore con la più elevata remunerazione di advisory. Qual è però il risultato? La cancellazione della società di revisione e consulenza, che viene ostracizzata dal mercato. La lezione da trarre è dunque che l’etica richiesta non è l’altruismo del no-profit, ma un’etica volta al mantenimento della fiducia del prossimo.

Ma c’è un ulteriore aspetto da chiarire, che riguarda l’erroneità della visione del fare impresa per la quale lo stake holder non esiste, esiste solo lo share holder al quale si deve portare profitto: è una sciocchezza. Ci sono anche stake holders, ignorare i quali può incidere negativamente sulla reputazione di un’azienda e che l’azienda può anche non incontrare attraverso il mercato. Un esempio valido può essere la questione della tutela ambientale nel caso di imprese impegnate nella produzione di un bene che comporti l’uso di tecnologie nocive per l’ambiente stesso: il danno all’impresa, in caso di mancata tutela (anche quando questa non sia imposta puntualmente dalla legge), è enorme perché il rischio è quello di trovarsi improvvisamente una folla inferocita intorno allo stabilimento, oppure implicati in quelle cause che distruggono l’azienda agli occhi dell’opinione pubblica. E allora chiedo a chi si preoccupa solo degli share holders : che differenza c’è fra spendere su questo fronte e spendere nell’advertising , quando anche nel primo caso i soldi servono, a dir poco, a migliorare l’immagine dell’azienda nei confronti del consumatore?

Un’ultima osservazione: quando scoppiano casi che provocano una forte reazione dell’opinione pubblica, l’effetto è che questa chiede e ottiene un rafforzamento delle regole e questo reca in sé il rischio dell’over-regulation. Affinché la fiducia ci sia, è importante che vi siano alcune regole. Ma è sempre bene che il legislatore non si faccia prendere la mano.

Scaroni: Sono convinto che le grandi imprese, le utilities in particolare, abbiano diritto d’esistere e quindi creare valore per i propri azionisti sulla base di un contratto implicito che hanno con la società nella quale operano. L’azienda può fare il proprio mestiere, ma guai se l’obiettivo di massimizzare il profitto a breve termine va a scapito del benessere della società nel medio e lungo termine.

(a cura di Giorgia Capoccia)


(Il testo dell’incontro che si è tenuto presso l’Università Luiss di Roma giovedì 17 giugno 2004 è stato pubblicato sul numero 84 di «Reset»)

 

 

 

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