«Reset»:
Il tema della governance delle imprese
è di grande importanza in relazione a due aspetti
fondamentali: il primo è quello delle regole
e delle garanzie per i risparmiatori dopo le disavventure
di Parmalat e Cirio accadute nei mesi scorsi in Italia,
per non parlare del calcio; il secondo è l’aspetto
che riguarda il dinamismo, la capacità dell’impresa
e del sistema italiano di competere sul mercato. Abbiamo
messo in dialogo, qui, due persone di elevata competenza:
Giuliano Amato che, tra le altre cose, è stato
dal ’94 al ’97 presidente dell’autorità
garante della concorrenza, e Paolo Scaroni, un manager
che ha esperienza diretta di public companies
(chief executive alla Pilkington per
sei anni), è tuttora membro di consigli di amministrazione
all’estero, e che, anche come amministratore delegato
di Enel Spa, torna spesso sui temi della responsabilità
sociale dell’impresa.
Scaroni: Credo possa essere utile
fare riferimento alle mie esperienze nei paesi anglosassoni,
essendo stato per circa sei anni chief executive
di una public company inglese, la Pilkington,
e facendo tuttora parte di consigli di amministrazione
all’estero. È interessante mettere a confronto
l’approccio anglosassone ai temi di corporate
governance e il nostro modo di affrontare la questione
in Italia.
I primi al mondo a parlare di corporate governance
sono stati gli inglesi. La Compagnia delle Indie, il
31 dicembre del 1600, chiarisce, per la prima volta
nella storia, i ruoli rispettivamente del consiglio
di amministrazione e dell’assemblea dei soci.
Ruoli che vennero stabiliti con modalità curiosamente
molto simili a quelle di oggi. Successivamente, sono
arrivati i vari «codici» di comportamento.
Il primo è stato il Cadbury Code del
’92, poi il Greenbury Code del 1995,
l’Hampel Combine Code del 1998 e, infine,
l’ultimo, l’Higgs Code del 2003. Tutti questi
codici seguono uno schema nel quale vengono date regole
di best practice, cioè regole che individuano
la governance «eccellente» della
società: i compiti del presidente, i compiti
del consigliere delegato, il numero e il ruolo dei vari
comitati interni – audit, compensation, nomination.
Si definisce così la best practice, ma ogni società
è libera di attenervisi o meno.
Se una società si discosta dalle regole di best practice, deve spiegare al mercato perché non
lo fa. Dicendo «deve» non intendo un obbligo
dal punto di vista giuridico: non c’è nessuna
sanzione. La sanzione la dà il mercato. Gli azionisti
giudicheranno se la società in cui investono
ha una corporate governance efficiente e trasparente
e di conseguenza decideranno di investire o di disinvestire
facendo salire o scendere il valore dell’azione.
In sostanza, la sanzione non è legale ma la dà
il mercato creando o distruggendo il valore di capitalizzazione
di Borsa della società quotata. Questo meccanismo
funziona bene in Inghilterra e negli Stati Uniti, perché
in questi Paesi ci sono fattori che rendono i mercati
finanziari diversi dal nostro.
Il primo è la grande presenza di investitori
istituzionali, in particolare dei fondi pensione. Pensate,
il 70% delle azioni della borsa di Londra è in
mano ad investitori istituzionali. Questi sono azionisti
attivi, con una organizzazione e con la voglia e la
capacità di influenzare comportamenti. Sono soprattutto
attenti a segnalare i loro dissensi imponendo le best practices della corporate governance. Il secondo importante
fattore è la stampa, soprattutto quella economica,
che è il vero «cane da guardia» del
sistema. I giornalisti inglesi ed americani sono attenti
alla trasparenza, al comportamento del management e
alla creazione di valore per gli azionisti.
Da un lato gli investitori istituzionali ed i fondi
pensione, dall’altro il «cane da guardia»
della stampa: con i codici di best practice il mondo
anglosassone funziona. E smettiamola di dirci che casi
Parmalat e Cirio ci sono stati anche in Gran Bretagna
e Stati Uniti perché, se facciamo le proporzioni
tra la nostra economia e l’economia anglosassone,
tra le grandi aziende in Italia e le grandi aziende
in Gran Bretagna e Usa, dobbiamo concludere che nel
nostro paese c’è un tasso di incidentalità
maggiore che altrove.
«Reset»: In che senso
Gran Bretagna e Stati Uniti sono sistemi più
funzionanti?
Scaroni: In generale, il sistema anglosassone
– che pure ha dei difetti, inclusa l’ossessione
della presentazione dei risultati trimestrali –
è un sistema che funziona, tanto è vero
che da cento anni cresce e si sviluppa. E’ il
naturale punto di riferimento per tutto il mondo e lo
dimostra ogni giorno con la capacità di attrarre
capitali, idee e talenti. Da questo punto di vista,
l’Italia è per ragioni storiche in una
fase precedente di evoluzione del sistema. Pensate ad
esempio al dibattito sulla successione nelle aziende
familiari oggi di voga in Italia. Questo dibattito era
di attualità in Inghilterra all’inizio
del ‘900, poiché le aziende, nate nella
prima metà dell’800 si preparavano allora
ad affrontare la questione della successione familiare.
Non bisogna essere né esterofili né esterofobi:
l’Italia si trova in una fase di sviluppo economico
diversa da quella di Gran Bretagna, Germania e Stati
Uniti e credo possa essere utile fare riferimento a
quanto è stato fatto altrove, nel bene e nel
male.
Amato: La leadership dei paesi anglosassoni
è fuori discussione: è un fatto. Loro
hanno saputo far crescere l’economia nel tempo
cambiandone le qualità. Non c’era alcuna
differenza tra i Rockfeller, che provocarono la legge
antitrust a fine Ottocento, e gli Agnelli: l’orgoglio
della famiglia stava nell’essere padroni dell’impresa.
Ma oggi l’analogia non c’è più
e l’analogo italiano dei Rockfeller è ormai
la fondazione bancaria. Da noi la famiglia continua
a gestire l’impresa, là la famiglia ha
trasferito se stessa in un bilanciato portafoglio finanziario.
Noi abbiamo una fetta dei nostri risparmi in un fund,
loro hanno il proprio fund. La famiglia è diventata
un trust fund, non ha più niente a che fare con
l’impresa. Se pensiamo al punto in cui ci troviamo
in tema di economia aziendale ed economia domestica,
allora è vero, siamo ancora cento anni indietro.
È difficile anche fare confronti tra la situazione
italiana e quei paesi che hanno sviluppato questa istituzionalizzazione
della ricchezza familiare in una forma così distaccata
dalla conduzione d’impresa, non avendo noi meccanismi
relativamente stabili, e quindi affidabili, di gestione
dell’impresa, se non quello della famiglia. Diverso
è il caso delle public utilities che
tuttavia si avvantaggiano di un mercato di utenti che
in gergo chiamiamo coatto, cioè privo o quasi
di alternative. In Italia, perciò, al di là
delle public utilities, ci troviamo in una
situazione per cui la famiglia, per l’impresa,
diventa un fattore positivo, proprio per il suo attaccamento
alla stessa impresa e al suo futuro.
«Reset»: Ci sono motivi
particolari per cui in Italia si sono verificati i gravi
episodi che hanno portato conseguenze disastrose per
i risparmiatori?
Amato: Perché ci siamo imbarcati
in questa vicenda? Perché stavamo sperimentando
un campo nuovo: noi siamo figli dei bot, di una storia
nella quale l’impresa prendeva i soldi a credito
dalla banca, mentre noi preferivamo dare i nostri allo
Stato, che ci garantiva capitale e interesse.
Fino a dieci anni fa il mondo dei risparmiatori italiani
era questo: pochissimi rischiavano i propri soldi comprando
azioni di società. Ora è finito il tempo
dei bot, il risparmio ha cercato altre canalizzazioni
e si è orientato in direzione delle imprese.
Ma la nostra propensione alla garanzia ci ha portato
a scegliere titoli ancora meno garantiti delle azioni:
obbligazioni emesse da società che spesso ci
allettavano con la prospettiva di un alto rendimento,
pur non avendo, loro, alcuna seria prospettiva di reddito
futuro capace di pagare quel rendimento e di restituire
il capitale.
I risparmiatori italiani non hanno capito, inizialmente,
la profonda differenza tra l’obbligazione del
Tesoro e l’obbligazione della Cirio: erano entrambi
titoli obbligazionari che comportavano la restituzione
del capitale entro una certa data, con – anno
dopo anno – un certo tasso di interesse. Ma la
Cirio non è lo Stato. Non voglio entrare nel
merito della polemica che si è fatta su chi abbia
permesso e favorito l’immissione nel mercato di
questi titoli senza una adeguata «rieducazione
sentimentale» del risparmiatore, rieducazione
che nel nostro paese avrebbe avuto senso per aiutare
i risparmiatori a capire a cosa stessero andando incontro.
Di sicuro però sarebbe stato utile che qualcuno
si fosse preoccupato di ridurre l’asimmetria informativa
tra risparmiatore ed emittente dei titoli. Bisogna anche
dire che se l’informatore è interessato
solamente alla commissione che può ricavare dall’emissione
di quei titoli, se ne guarderà bene dall’informare
il risparmiatore, cercando di piazzarne il più
possibile.
Qual è stato l’effetto di tutto questo?
I nostri risparmiatori, scottati dalle cattive esperienze,
sono tornati a mettere i soldi sotto il materasso: il
risparmio non è diminuito, ma si è congelato.
È qui che si sente la necessità di una
legge: al risparmiatore, in queste condizioni, non si
può non dare garanzia legislativa. Il rischio
che si corre, però, è di dare talmente
tante garanzie da ingolfare il meccanismo del mercato
anziché aiutarlo. La vicenda si muove tra questi
due poli e, come le facce di una medaglia, entrambi
i poli giocano una parte.
«Reset»: È possibile
e come trasferire sistemi di controllo simili a quelli
dei paesi menzionati in Italia?
Scaroni: Il problema è come trasferire
questi concetti nella nostra realtà, dove i fondi
pensione non ci sono o sono molto più piccoli
e l’opinione pubblica non è ancora così
attenta a questi temi. Una realtà italiana in
cui le aziende non sono quasi mai public companies e
spesso, anzi, o il Presidente o l’Amministratore
Delegato, o tutti e due, sono spesso gli azionisti di
riferimento e conseguentemente gestiscono tutti gli
strumenti di controllo che dovrebbero vigilare sul loro
operato.
Credo che l’ipotesi di un codice di comportamento
senza sanzioni in Italia non possa funzionare, che sia
necessario, quindi, procedere per forza di legge. In
Italia, dunque, mancano quei fattori di naturale bilanciamento
che permettono l’applicazione di un modello non
coercitivo come avviene in Gran Bretagna e negli Stati
Uniti.
Tutti i sistemi di governance anglosassoni sono stati
concepiti per le public companies. Trasferire pari pari
questi sistemi in Italia sarebbe come far indossare
un abito su misura a una persona del tutto diversa rispetto
a quella per la quale era stato tagliato. Nei paesi
anglosassoni, inoltre, anche nel caso in cui la proprietà
di un’azienda quotata è stabile e identificata
in una famiglia, al vertice non c’è quasi
mai identità tra il management e la proprietà:
il familismo aziendale è una caratteristica molto
italiana. Noi diamo quasi per scontato che gli eredi
dei fondatori non si limitino ad essere ricchi ma che
debbano anche avere le qualità per guidare l’azienda
di famiglia. Bisogna invece affermare la separazione
tra proprietà e management: guai se chi decide
e chi controlla è la stessa persona.
Naturalmente non si può impedire alla proprietà
di esprimersi ed è per questo che si può
tutelare il risparmio solamente a forza di autorità
e di legge, a rischio di perdere l’ingrediente
fondamentale nel funzionamento del buon capitalismo,
ovvero la fiducia. Se la fiducia viene meno si perde
la benzina del capitalismo: l’economia tende a
sgonfiarsi, il denaro non va a finanziare le aziende
sotto forma di capitali o prestiti, e si orienta verso
quei paesi o quelle aziende in cui il tasso di fiducia
è ancora alto.
Amato: Al fine di illustrare le questioni
si usa sempre presentarle in modo dilemmatico: o serve
la fiducia o servono le regole. Poi ci si accorge che
non tutte le questioni hanno una soluzione dilemmatica
e che ci sono casi in cui sono necessarie entrambe le
soluzioni: anche quando si usa quella banalissima espressione
«le due facce di una medaglia», una medaglia
non esisterebbe se non ci fossero le due facce. Siamo
in un contesto in cui sono necessari entrambi i profili:
e solo per evidenziare i pregi ed i limiti di ciascuno,
è retoricamente utile presentarli in modo dilemmatico.
La mia opinione è perciò che i mercati
necessitino di una dose irrinunciabile di etica –
che poi è la fonte della fiducia – e di
regole. Soltanto a seconda dell’andamento degli
eventi è possibile un maggiore affidamento sull’una
o sulle altre: in genere, l’over-regulation è
sempre figlia di una crisi della fiducia, dovuta a un
venir meno di quel quoziente di etica necessario al
suo mantenimento.
Storicamente si può avere la sensazione che
etica e regole siano venute in alternativa l’una
all’altra: la lettura di storie dello sviluppo,
come quelle magistrali di Douglas North ,ci fa capire
il perché di una nascita dell’economia
come entità non regolata, in quanto affidata
in tutto alla fiducia. In un’economia iniziale
di tipo stanziale, dove produzione e commerci erano
limitati al villaggio, la conoscenza personale fra gli
operatori economici faceva da selettore delle loro scelte,
che erano perciò fondate sulla sola fiducia.
Le regole divengono necessarie quando nascono i mercati
dove viene portata e venduta la merce di villaggi diversi
e dove gli scambi avvengono fra persone che non si conoscono.
Come fare a sapere se ci si può fidare e che
cosa accade se la promessa di pagamento non è
onorata? È a questo punto che nascono, con le
regole, i tribunali civili e commerciali, che rispondono
al bisogno di una sede pubblica dove risolvere le dispute
di un mercato che si è allargato oltre l’ambito
della conoscenza personale. Vi è in questo meccanismo
tutta l’essenzialità di una regola giuridica
irrinunciabile, giacché il bisogno di espandere
il mercato non permette di limitarsi al meccanismo iniziale
della fiducia. Insomma, lo sviluppo dei mercati porta
con sé una regolamentazione che non è
anti-mercato ma che anzi, direbbe un economista, riduce
i costi di transazione necessari per svolgere commerci
su scale più ampie.
È anche a causa di questa evoluzione che è
nato il dilemma: la fiducia e l’etica o la regola
giuridica. Ma con il passare dei secoli ci si è
accorti che questi due fenomeni si integrano: le regole
non possono raggiungere tutti i comportamenti e specie
sui grandi mercati di oggi si ricrea l’essenzialità
e l’efficacia punitiva di meccanismi di fiducia
e sfiducia. È un mix tra questi due elementi
a garantire il funzionamento del sistema.
«Reset»: In Italia, in
particolare, c’è una situazione ampiamente
insoddisfacente e drammatica, tale da obbligarci a porre
dei problemi di agenda pubblica. Abbiamo bisogno adesso
di modifiche a questa governance in modo da avere dei
cambiamenti tanto sotto il profilo delle garanzie quanto
sotto il profilo dell’efficacia. Quali sono le
leve agibili? Certo, le imprese non possono essere governate
dallo stato, ma quali sono i punti da porre di fronte
all’attenzione allarmata dell’opinione pubblica?
Scaroni: Il caso Enron, spesso citato,
è sicuramente un caso gravissimo. Ma a mio parere,
tenuto conto della dimensione dell’economia americana
è un segnale di debolezza del sistema molto meno
vistoso di quello che abbiamo vissuto noi. Non credo
ci sia nessun Paese occidentale cha ha avuto per quindici
anni una grande azienda quotata che ha emesso obbligazioni
a raffica, presentando conti falsi, senza che nessuno
se ne accorgesse. È un caso veramente eccezionale.
Un’altra considerazione: molti degli scandali
americani si sono verificati nell’area della cosiddetta
new economy, compresa Enron; manager che avevano cavalcato
una crescita senza precedenti delle loro azioni che
quando hanno iniziato a precipitare annullando il valore
delle loro stock-options, hanno agito fuori dalle regole
e talvolta anche in modo criminale. Parmalat è
un caso diverso. Opera nella «very old economy»
e, a quanto sembra, ha sempre vissuto falsificando i
conti. Ciò che mi ha colpito in questo caso è
che la più grande banca d’affari italiana,
Mediobanca, e una delle più grandi al mondo,
Goldman-Sachs, non sono mai entrate nel giro d’affari
con Parmalat.
Una volta compresa la gravità del fenomeno, cosa
si deve fare?
Innanzitutto, mi sembra che la legge di tutela del
risparmio sia già in ritardo, il che dimostra
una falla importante nella nostra capacità di
reazione a questi fenomeni. Con una certa ingenuità,
ero convinto, in gennaio, che nello spazio di uno o
due mesi la legge sarebbe stata approvata, chiarendo
i vari ruoli degli auditors, dei revisori, il ruolo
della Consob e della Banca d’Italia. Sono andato
a vedere a che punto siamo nel dibattito parlamentare
e ancora siamo in alto mare. Ho avuto l’impressione
di un cantiere che potrebbe rimanere aperto ancora per
mesi.
I primi interventi in materia di corporate governance
sono avvenuti nel 1975, negli Stati Uniti, a seguito
del fallimento della Penn Central. Il parlamento americano
in quel caso ha emesso le prime norme correttive, ad
esempio sulla scelta degli auditors, in soli due mesi.
Passando invece ai contenuti mi sembra che l’area
nella quale intervenire sia quella del numero e del
ruolo dei consiglieri indipendenti, della scelta degli
auditors (che potrebbe addirittura essere affidata alla
Consob), della separazione dei ruoli tra Presidente
e Amministratore Delegato. Sono soluzioni che non eviteranno
per sempre episodi di dolo, ma li rendono certo più
difficili. E poi spero proprio che i risparmiatori abbiano
imparato la lezione: quando una obbligazione ha un rendimento
molto alto anche il rischio è più alto.
Un processo di educazione che sarebbe dovuto avvenire
in modo più indolore per tutti ma che è
iniziato, sia per i risparmiatori sia per le banche.
«Reset»: Le forme di controllo
fino a che punto possono arrivare? Si può immaginare,
come per la legge americana di cui parla Francesco Maggio
ne L’economia inceppata, una legge che proponga
forme di monitoraggio delle società di revisione,
la creazione di un organo nazionale che definisca gli
standard contabili, la separazione dell’attività
di consulenza contabile da quella di revisione e una
lunga lista di altre cose simili? Quanto può
darci il controllo?
Amato: Alcuni di questi elementi erano
già presenti nel nostro sistema, e anche di più:
quando esplose il caso Enron, sui nostri giornali si
scrisse orgogliosamente che da noi non poteva succedere
nulla di simile poiché il conflitto di interessi
tra auditing e consulting era previsto dalle nostre
leggi, sino al punto di imporre la rotazione degli auditors.
Il caso Parmalat mise peraltro in evidenza il fatto
che sotto la rotazione delle società poteva esserci
la non rotazione delle persone: la stessa persona, allo
scadere del periodo della propria società, cambiava
società e con la nuova casacca continuava il
suo lavoro, il che dimostra che le regole giuridiche
hanno un limite. Il meccanismo legale, per definizione,
può essere aggirato.
Certo si è che molto ancora si può fare
per migliorare la nostra corporate governance e il disegno
di legge all’esame della Camera è, in effetti,
migliorativo, tant’è che per diverse parti
gode di un consenso bi-partisan. Non è detto
che tutte le innovazioni previste siano efficaci. Per
esempio non so quanto riuscirà ad esserlo l’introduzione
nei consigli dei consiglieri indipendenti, molto adatti
alla public company e forse di meno in contesti di perdurante
proprietà e gestione familiari, com’era
proprio il caso Parmalat. Può essere inoltre
che per certi aspetti si vada anche troppo in là,
come sarebbe se le società di revisione dovessero
essere addirittura nominate dalla Consob. Ma sono tutte
cose su cui una definizione rapida sarebbe possibile,
se non fosse che, nel procedere dei lavori, è
stato messo in dubbio l’impegno, già preso
dal Ministro dell’Economia, di ripristinare sanzioni
adeguate per il falso in bilancio. È anche questo
che frena (così come frenano i dissensi sulla
parte meno urgente della riforma, quella relativa alla
riallocazione delle competenze di controllo fra le diverse
Autorità). E il rischio è che sul mercato
vi sia una delusione non priva di conseguenze, se la
promessa di dargli presto regole migliori non sarà
adempiuta.
C’è tuttavia qualcosa che sta a monte
di tutto questo: non sembri strano, ma è la riforma
pensionistica. Scaroni, in un’intervista, osservava
come la vera cura al nanismo italiano consista nel dotarsi
di un capitalismo finanziario, come avviene non solo
nei grandi, ma anche in piccoli paesi – Olanda,
ad esempio – nei quali è l’investitore
istituzionale a convogliare il risparmio sulle società
commerciali: così facendo, si realizza un meccanismo
strutturale di controllo sulla vita societaria simile
a quello della public company – public non perché
l’azionariato è diffuso tra miriadi di
risparmiatori, ma perché le miriadi di risparmiatori
appaiono attraverso investitori istituzionali. È
da oltre venti anni che in Italia cantiamo i benefici
effetti per il nostro capitalismo finanziario e per
la nostra stessa economia reale dell’introduzione
su larga scala dei fondi pensione. Ma oggi siamo ancora
qui a parlarne.
Scaroni: Non vorrei addentrarmi, in
presenza di un fine giurista, come Giuliano Amato, sul
piano giuridico. A me sembra che il falso in bilancio
sia un reato che va perseguito solo quando danneggia
qualcuno. Se un’azienda non è quotata o
non ricorre al mercato per finanziarsi, il falso in
bilancio è forse un reato fiscale ma non danneggia
terzi. Più in generale quando una società
non è quotata le regole di corporate governance
devono essere semplicissime, mentre devono esser rafforzate
quando si vogliono attirare capitali dai risparmiatori.
«Reset»: Concludendo:
il marchio di un’azienda si rafforza nella reputazione
se si arricchisce di elementi sociali, ambientalisti,
positivi dal punto di vista dei valori delle basi di
rappresentanza, dei diritti umani? L’economia
italiana può trarre vantaggio da questi fattori
o questi sono un lusso che si possono permettere solo
le poche grandi imprese che fanno profitti, come le
grandi utilities?
Scaroni: Nella mia esperienza, quasi
tutto quello che si fa, per radicare una forte corporate
social responsibility è anche fonte di profitto.
La corporate social responsibility, dunque, non è
un lusso: è solo un buon modo di gestire l’azienda.
Per esempio: il modo migliore per eliminare scarti inquinanti
è aumentare i rendimenti ma l’aumento dei
rendimenti vuole anche dire un miglioramento economico.
Ridurre gli infortuni sul lavoro vuol dire gestire meglio
gli stabilimenti. Non ho mai visto uno stabilimento
ben gestito avere un alto tasso di infortuni sul lavoro
e uno mal gestito avere un tasso di infortuni basso.
E per di più una buona corporate social responsibility
crea valore presso gli stake-holders: valore magari
difficile da quantificare, ma certamente molto rilevante.
Amato: Si fanno spesso delle discussioni
sui rapporti tra etica ed impresa che a volte possono
suscitare impressioni sbagliate, soprattutto in chi
gestisce l’impresa, quasi si chiedesse loro di
comportarsi come boy scouts o francescani: non è
questo il problema.
Chi gestisce un’impresa, nell’esercizio
dei propri compiti, deve sapere che se la linea che
sceglie è quella dell’imbroglio, ultimately
l’imbrogliato sarà lui e con lui l’azienda:
il mercato conosce e punisce, anche in ragione di scelte
non vincolate dalla legge. Se le scelte sono ispirate
da comportamenti finalizzati, ad esempio, al proprio
arricchimento, in barba agli azionisti o anche agli
stake holders, il mercato finirà per accorgersene
e la sua punizione sarà drammatica: se non si
mantiene quel grado di fiducia necessario a far proseguire
i rapporti, essi si ridurranno, riducendo anche il volume
di affari dell’azienda, ovvero il valore dell’azione.
Il comportamento di una società di revisione
che, essendo anche consulente della società di
cui rivede i conti, desse una visione rosea del bilancio
della società revisionata - visione non corrispondente
alla realtà – è chiaramente il comportamento
di qualcuno che sta incrementando il proprio reddito,
cumulando la remunerazione di revisore con la più
elevata remunerazione di advisory. Qual è però
il risultato? La cancellazione della società
di revisione e consulenza, che viene ostracizzata dal
mercato. La lezione da trarre è dunque che l’etica
richiesta non è l’altruismo del no-profit,
ma un’etica volta al mantenimento della fiducia
del prossimo.
Ma c’è un ulteriore aspetto da chiarire,
che riguarda l’erroneità della visione
del fare impresa per la quale lo stake holder non esiste,
esiste solo lo share holder al quale si deve portare
profitto: è una sciocchezza. Ci sono anche stake
holders, ignorare i quali può incidere negativamente
sulla reputazione di un’azienda e che l’azienda
può anche non incontrare attraverso il mercato.
Un esempio valido può essere la questione della
tutela ambientale nel caso di imprese impegnate nella
produzione di un bene che comporti l’uso di tecnologie
nocive per l’ambiente stesso: il danno all’impresa,
in caso di mancata tutela (anche quando questa non sia
imposta puntualmente dalla legge), è enorme perché
il rischio è quello di trovarsi improvvisamente
una folla inferocita intorno allo stabilimento, oppure
implicati in quelle cause che distruggono l’azienda
agli occhi dell’opinione pubblica. E allora chiedo
a chi si preoccupa solo degli share holders : che differenza
c’è fra spendere su questo fronte e spendere
nell’advertising , quando anche nel primo caso
i soldi servono, a dir poco, a migliorare l’immagine
dell’azienda nei confronti del consumatore?
Un’ultima osservazione: quando scoppiano casi
che provocano una forte reazione dell’opinione
pubblica, l’effetto è che questa chiede
e ottiene un rafforzamento delle regole e questo reca
in sé il rischio dell’over-regulation.
Affinché la fiducia ci sia, è importante
che vi siano alcune regole. Ma è sempre bene
che il legislatore non si faccia prendere la mano.
Scaroni: Sono convinto che le grandi
imprese, le utilities in particolare, abbiano diritto
d’esistere e quindi creare valore per i propri
azionisti sulla base di un contratto implicito che hanno
con la società nella quale operano. L’azienda
può fare il proprio mestiere, ma guai se l’obiettivo
di massimizzare il profitto a breve termine va a scapito
del benessere della società nel medio e lungo
termine.
(a cura di Giorgia Capoccia)
(Il testo dell’incontro che si è tenuto
presso l’Università Luiss di Roma giovedì
17 giugno 2004 è stato pubblicato sul numero
84 di «Reset»)
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