261 - 18.09.04


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La stupidità dei generosi
Guido Martinotti

Devo confessare di essere rimasto sorpreso, come Feltri, da molte voci della sinistra che esprimevano stupore per la mancanza di discriminazione da parte dei gruppi terroristici che hanno rapito le due Simone. Ci siamo forse dimenticati come le BR, e altri gruppi simili, per “portare l’attacco al cuore dello stato” colpissero non personaggi disgustosi, ma gli Alessandrini, i Castellano, i Ruffilli, e i molti altri che avevano la precipua caratteristica di essere delle persone illuminate e semmai, non dico inclini a sostenere i terroristi, ma certo non disposte a propugnare una repressione indiscriminata. Come del resto provano gli interrogatori della Banelli, che descrive la scelta di uccidere d’Antona come strategia “disarticolante” contro un “riformista”. Chi ha convissuto così intimamente e per tanti anni con il terrorismo dovrebbe avere imparato che la logica di questi gruppi, è essenzialmente di Zweckrationalität e che molte delle loro azioni hanno esattamente lo scopo di eliminare, nei confronti di sé stessi e degli altri gruppi, ogni residuo di Wertrationalität, cioè di umanità. Non lasciamoci ingannare dal ricorso ad Allah, è un grido di guerra meccanico. Dire a costoro che il Corano condanna tali atti sarebbe come cercare di spiegare alle BR che Marx non era un sanguinario.


E’ la logica del professionismo che conta in questi casi, e l’atto feroce è una prova rituale che serve a stabilire la capacità del soggetto di non aver la mano che trema nel momento della verità. Ha la medesima funzione degli scherzi macabri degli studenti di medicina o del nonnismo assassino di certi corpi militari, che ogni tanto emerge dall’omertà. Con la differenza che per medici e militari l’organizzazione fornisce un insieme di valori che tende a controllare l’acquisito sprezzo per la vita o la sofferenza. Conosciamo bene questa paideia per il massacro perché gli americani l’hanno esplorata a fondo in film come Apocalypse Now (Kurz/Cuore di tenebra: “l’orrore, l’orrore”) o in Full Metal Jacket in cui il soldato pacifista, che ha finalmente imparato a sparare per uccidere (Waste her, waste her! ordina il suo superiore di fronte alla cecchina ferita), torna a casa felice cantando una canzone per bambini. E del resto le scarne cronache dall’interno della scuola di Beslan offrono conforto alla supposizione che anche all’interno del commando fossero in atto azioni di questo genere.

Con ciò non voglio dire che con questi gruppi non si possa trattare: si può, se si trova la giusta chiave, che non è però quella di spiegare che fanno una cosa di sinistra o di destra, pro o contro Berlusconi o Fassino. Senza contare che, come è poi successo con le BR, chi si mette in queste condizioni estreme spesso è o diventa in certa misura uno squilibrato, quando non è un sanguinario assassino, che ci prova piacere di suo, o un sicario al soldo della CIA, come pure abbiamo visto. Anche questa discesa verso My Lai e la frenesia del massacro è stata ben illustrata in molti testi ed è provata dalle note ricerche sui meccanismi psicologici che si mettono in moto quando qualcuno ha potere totale su altre persone.

E’ chiaro però che “trattare” con i terroristi non ha nulla a che vedere con “dialogare” con il mondo islamico. Sono in malafede (ma è diventata quasi una seconda natura) e alquanto superficiali, i giornali di destra che sfidano la sinistra a dialogare con il terrorista ceceno (“Provate a dialogare con questo qui”). Nessuno ha mai detto una stupidaggine simile e, del resto, paradossalmente, a trattare sono costretti proprio i guerrafondai. In questo momento chi tratta è (speriamo) il governo italiano e, in passato, pare che lo stesso premier ci abbia messo, come si suol dire, del suo.

Noi, che critichiamo complessivamente la linea del governo italiano, non vogliamo trattare o dialogare con i terroristi, non ne abbiamo neppure i mezzi, ma vogliamo un dialogo su un piano diverso e non accettiamo la filosofia di questi molto intelligenti realisti che sanno tutto sulla natura umana e si beffano dei poveri idealisti di sinistra, arrivando al punto da dileggiare un morto (azione considerata tra le più esecrabili anche dalle più feroci tribù guerriere). Sono così presi dalla blindatura della loro ideologia, che non si sono neppure accorti che mentre avvenivano queste scene di (ormai) ordinaria ferocia si stava realizzando un piccolo passo di quel dialogo, con le dichiarazioni congiunte dei religiosi riuniti a Milano e le dichiarazioni a favore delle rapite che si sono moltiplicate in tutto il mondo musulmano. Che temo non avranno molta presa sui gruppi terroristici, ma hanno un enorme influenza nell’aprire un varco tra costoro e la stragrande maggioranza degli uomini di buona volontà dei paesi musulmani che non vogliono risolvere i loro problemi o la loro disperazione con i metodi della jihad. Come è avvenuto con le BR, che avendo intrapreso la strada dell’orrore, guarda caso, soprattutto dopo che al comando sono arrivati i prezzolati dei servizi, invece di “mobilitare le masse”, come si diceva nel linguaggio dei comunicati, le hanno allontanate. La risposta a Panebianco, che si chiedeva con chi trattare, è già stata data a Milano, a Parigi e in quasi tutto il mondo islamico, ed è una risposta di popolo, non di governi: la battaglia si vince sul piano dell’opinione pubblica, lo sanno molto bene i jiahdisti, e dobbiamo capirlo anche noi.

Ma all’opinione pubblica, paradossalmente, non bastano le parole perché i media di parole ne macinano tantissime. Vale quella “propaganda of the deeds” (propaganda dei fatti) in contrapposizione alla “propaganda of the words” (propaganda delle parole) che Robert Merton teorizzò nel fondamentale Mass persuasion del 1943, un testo insuperabile per comprendere i meccanismi della propaganda. Dove i deeds (i fatti) non sono le pallottole, come pensano gli stupidi, ma altre parole, parole giuste e convincenti e sostenute da un comportamento coerente, una “testimonianza” come quella data dalla maratona di 16 ore di Kate Smith nel corso del famoso Warbond Drive del Settembre 1943. La battaglia non si vince con i cannoni, ma con le parole sincere, parole sostenute da fatti. Se davvero siamo una civiltà superiore, come sostengono tutti coloro che predicano contro il relativismo culturale, elencando le nostre superiori istituzioni dalla democrazia alla tolleranza religiosa, non basta dirlo con le parole, perché chi sta dall’altra parte, spesso sotto le bombe, non è proprio incline a crederci. Occorre dimostrarlo con i fatti, per esempio facendo vedere che i cannoni non sono la nostra unica risposta, che ci sono altri modi e che ci sono molte persone tra noi che sono disposte a rischiare la vita non per sparare ma per aiutare.


Fortunatamente (ma è una fortuna che non capita due volte) è proprio l’estremismo dei jiahdisti ad avere aperto un varco tra i terroristi e l’opinione pubblica musulmana, come spiega con lucidità e competenza Gilles Kepel su La Repubblica del 7 Settembre (finalmente un’analisi! Non un’anatema o una elaborazione del luogo comune come l’elzeviro di PG Battista sull’odio dei musulmani per la donna su La Stampa,dell’8 settembre), che apre quel varco. Ma quel varco è stato aperto anche dalle centinaia di Simone che, a rischio della vita, hanno saltato il muro dell’odio per fare cose modeste ma essenziali, come sistemare i libri di una scuola, o pericolose come soccorrere i feriti a Najaf sotto il tiro dei cecchini, o importantissime come essere li, entusiaste e convincenti. “Propaganda dei fatti” contro l’odio. In questo varco deve entrare la sinistra intelligente e comunque chiunque si opponga alla via della folle corsa verso l’orrore generalizzato, imboccata dall’”amico Putin”, sulle orme dell’”amico George”. Gli speznats della scuola di Beslan, come ci hanno raccontato le cronache di questi giorni, sono lo stesso corpo che il 27 dicembre 1979 diede l’assalto al palazzo di Kabul, iniziando quella tremenda avventura afgana che sta all’origine della tragedia di oggi. E il puzzo di bruciato attorno a tutta la faccenda di Beslan si sta diffondendo con molta più rapidità di quello delle bombe.

Chi crede che il terrorismo si possa vincere, e non desidera invece tenerlo in vita per anni come comodo alibi per la repressione del controllo critico sulle élites, non deve accettare i ricatti di chi ci ha portato lì: “o con gli americani o con i terroristi” oppure “si forse abbiamo sbagliato ma ora…” sono frasi ipocrite, da Azzeccagarbugli. Se Calisto Tanzi con il fido Tonna si presentassero oggi alla vostra porta cercando di vendervi bond della Parmalat li comprereste? Li accompagnereste più o meno bruscamente alla porta, spiegandogli che prima di comperare azioni Parmalat occorre almeno cambiare la guida dell’impresa. Bush/Tanzi e Putin/Tonna ci hanno venduto obbligazioni ben più fallimentari, in termini economici e politici, eppure ci si sta ancora cercando di vendere “four more years”. Io credo che, prima ancora di discutere se rimanere in Iraq (ma in che termini, a fare cosa e con chi, come sta cercando di spiegare Paul Krugman da mesi) o tornarsene a casa, sia ragionevole chiedere che intanto a casa ci vadano i responsabili del disastro, perché quelli, di lì non tireranno mai fuori nessuno, a cominciare dai mille e mille morti che hanno lasciato sul terreno.

Analogamente dobbiamo, mi rivolgo sempre a chi cerca disperatamente di evitare la catastrofe della linea autoritaria Bush/Putin, evitare tutta la confusione retorica ingenerata dai due apparati disinformativi. Che senso ha litigarsi sul termine “resistente” in Iraq, oppure sulla definizione di terrorista (Le Carrè dice sinteticamente che terrorista è chi ha la bomba e non l’aereo), oppure se siamo o no in guerra, oppure se i kamikaze siano vili o eroi o se i terroristi che operano in Caucaso siano indipendentisti ceceni o altro. Nessuno di questi termini si applica in modo utile alla situazione, perché la situazione è definita proprio dalla estrema sovrapposizione e confusione di tutte queste cose, per cui qualsiasi sforzo anche sincero di classificazione finisce per assomigliare (più del solito) ai 10 filosofi ciechi che devono definire un elefante e a seconda di dove toccano dicono che è un serpente, una colonna o un tubo. E così cadono preda del relativismo ideologico o della affermazione di principi che, come si sa, sono le faccende più elastiche che si conoscano: così per chi sta dalla parte di Sharon i palestinesi sono terroristi e per chi sta dall’altra parte, terroristi sono gli israeliani. Occorre fare un passo indietro e vedere le cose con un fuoco più gestaltico, e da questo punto di vista sembra difficile contestare il fatto che tutte le previsioni fatte da chi ha sostenuto la guerra in Iraq (in Afgahnistan le cose non sono andate meglio, ma era difficile per gli USA non intervenire dopo 911) si sono rivelate basate su premesse false o sono state falsificate dagli eventi, che hanno invece confermato in larga misura le previsioni, fatte in grande abbondanza e con grande pubblicità, da chi la guerra contrastava. Certo è sempre possibile dire, come fanno freneticamente i guerrafondai, che occorre tempo, ma “in the long run…”, come si dice.

Il punto fondamentale è che si è presentata una novità di carattere militare che capovolge i termini del conto delle forze. L’apparato americano è fatto di cold warriors, cioè abili manipolatori di uno scacchiere con un opponente “opportunistico”, cioè un attore che in ultima analisi fa un conto perdite e profitti. In questo gioco si può andare molto lontano nella brinkmanship purché si rimanga all’interno di un comune calcolo cost/benefit. Ma oggi è intervenuto un nuovo elemento, la estrema polverizzazione degli attori e la disponibilità di armi ed esplosivi a poco prezzo (a proposito come vanno le azioni dei venditori di armi? C’è stata una riconversione dai cannoni ai kalashnikov?) esattamente come è avvenuto per le automobili – che continuano uccidere più dei kalashnikov – le radio, i PC e il telefono. E, con la diffusione della disperazione e la nascita dei kamikaze, si è introdotta nell’equazione la variabile costo zero per la forza lavoro. E si sa che con forza lavoro a costo zero o quasi è anche possibile costruire le piramidi con le mani e le braccia. Il problema è quindi in larga misura militare, e non è la prima volta nella storia che si presenta Tra il XVIII e il XIII millennio prima della nostra era, venne introdotta un importante innovazione militare: il cocchio. Nulla a che vedere con i pesanti carri a uno o due assi o con i famosi carri falcati più minacciosi che efficaci: il cocchio era costruito con corregge di cuoio e legni duri piegati a fuoco, pesava 30-40 chili e veniva tirato da due cavalli portando due passeggeri. Un auriga protetto da una armatura di cuoio e un arciere che utilizzava archi molto efficienti, forse prodotti dalla medesima tecnologia del legno che produceva i carri. Questa veloce macchina da guerra era estremamente manovrabile, si avvicinava agli eserciti schierati, faceva un rapido volteggio durante il quale l’arciere scoccava più frecce letali e poi si allontanava fuori portata. Questa tecnica, che si chiama caracol ed è stata usata dalle tribù americane delle praterie, era grandemente efficiente e introdusse un vantaggio simile a quello dei blindati o della aviazione nelle guerre del tempo.

I leggeri cocchi però erano molto costosi: i cavalli dovevano essere nutriti e protetti, le armature leggere, ma resistenti, dell’auriga e degli stessi carri, possono essere assimilate al costo di un potente carro armato attuale. Pertanto questa tecnica militare contribuì alla creazione di forti entità politiche centralizzate capaci di schierare flotte numerose di carri -in una battaglia egiziana si parla di 1800 carri - che dominarono per millenni. Finché un tempo brevissimo attorno alla fine del XIII millennio, in tutto il Medioriente, si trovano segni del disfacimento di grandi civiltà, a cominciare da quella micenea. Molte ipotesi sono state avanzate e non esiste consenso sulle cause di questi eventi. Tuttavia molte spiegazioni fanno riferimento alla comparsa di un misterioso quanto diffuso “popolo (o popoli) del mare” capaci di far fronte ai cocchi. Si pensa a guerrieri poco armati ma molto mobili e molto aggressivi in grado di attaccare da vicino i cocchi con corte daghe, forse, ma non sempre, di ferro. In ogni caso le civiltà che si reggevano su una tecnica militare capace di far fronte a eserciti organizzati vennero distrutte da incursori.

Quale che sia la verità storica, che forse non sapremo mai per mancanza di documenti e altre fonti, il crollo di molte ricche città da Pilo nel Peloponneso ad Askalon nel Sinai a Hattusas nell’Anatolia ittita è un fatto indiscutibile. E l’ipotesi è suggestiva per spiegare quanto sta avvenendo oggi. Infatti la metafora di Monaco e Hitler è fuorviante: quale che sia il giudizio sul povero Chamberlain, la situazione era assai diversa, lì si confrontavano stati nazione, mentre oggi è chiarissimo che il più potente esercito del mondo non ce la fa a tenere l’area di un stato medio come l’Iraq. Non parliamo di quella dell’Afghanistan, 350mila chilometri quadri di montagne sotto controllo tribale (il Sopramonte sardo in cui Graziano Mesina tenne per anni sotto scacco ingenti forze italiane, con meno uomini che dita della mano, è, a essere larghi, 150kmq). E non parliamo del terrorismo generalizzato cui solo per comodità narrativa – ma una comodità che rischia di costarci cara – diamo il nome di Al-Qaeda e la leadership di tal Osama-bin-Laden. Al fondo questo terrorismo non fa altro che applicare i modelli di flessibilità, decentramento, frammentazione sperimentati dall’impresa contemporanea: una totale post-fordizzazione della guerra. Questo terrorismo si vince solo rimuovendo le principali cause della sua base ideologica, una delle quali è l’invasione armata di un territorio, cercando il più possibile di dividere le unità operative dal grosso delle popolazioni e, ovviamente difendendosi, sia passivamente che attivamente; ma non si vince con le occupazioni armate che, al contrario, alimentano quel fuoco, non fosse altro che per la grande disponibilità di armi e materiale bellico che si accompagna sempre a una operazione militare.

Avendo cominciato con un elogio a Feltri concludo sul medesimo tono. In una trasmissione radiofonica in cui l’articolo di Feltri veniva criticato aspramente, un ascoltatore propose la chiusura di Libero. A parte la totale assurdità e inaccettabilità della proposta, va ribadito che è assolutamente necessario che i Feltri ci siano e che parlino. Non è vero che Feltri sia un estremista, Feltri è l’espressione del buon senso della classe media lombarda che crede davvero che Baghdad sia abitata da beduini “Benedetta ragazza, che gliene frega ai beduini (imbevuti di stramberie religiose) dei libri? Loro analfabeti per decreto governativo.” E che è profondamente convinta che andare dove c’è pericolo sia da sconsiderati, punibili come bambini, minacciando “quattro ceffoni” alla figlia che avesse manifestato l’intenzione di andare a fare la volontaria. Pensando a questa, del tutto ipotetica immagino, figlia ribelle cui Feltri darebbe “quattro ceffoni” per impedirle di fare una sconsideratezza, mi viene in mente quella bellissima canzone di George Brassens che comincia con “Philistins, épiciers… e finisce con ”Vous pensiez : " Ils seront ( i figli desiderati,ndr)/Menton rasé, ventre rond/ Notaires /Mais pour bien vous punir/Un jour vous voyez venir/Sur terre/Des enfants non voulus/Qui deviennent chevelus/Poètes... » Hai voglia ceffoni.

Nell’articolo di Feltri c’è una descrizione molto precisa e destinata a suscitare ribrezzo, del modo con cui gli islamici ci considerano: come insetti fastidiosi, zanzare, ragni, da schiacciare con una manata. Ma un pari disprezzo Feltri dimostra per Baldoni e le due volontarie,”Le care signore non si sono rese conto di essere zanzare… Le Simone sono noglobal. Le Simone poverine erano ubriache di bischerate rosse… Scusate fanciulle, un posticino in banca o una cattedrina alle elementari di Viterbo non era meglio? Chi vi ha strizzato il cervello?” C’è sempre nella classe media italiana il sospetto che chiunque rifiuti l’aurea mediocritas delle “molte rate e pochi vizi”, deve per forza essere uno spostato o un povero di spirito cui viene “strizzato il cervello”. A Pavia questa posizione, di fuga dai pericoli o semplicemente di non voler prendere posizione, si riassume in un bellissimo detto di sicura origine medievale, “mi vuu in burg”, mi ritiro nel castello. Feltri ci dice, andare in burg, va bene, sono solo i pirla che si agitano. Purtroppo il realismo e il disincanto sono sempre a senso unico, se i vari Feltri avessero anche solo pensato che “quattro ceffoni” forse li meritavano anche Bush & co, che si sono dimostrati molto, ma molto più sconsiderati di chiunque altro, con l’aggravante che loro di persona non rischiano, forse un freno a questa guerra si sarebbe manifestato. Di Feltri mi ha colpito una affermazione fatta tempo fa durante un dibattito televisivo sulla resistenza: in quella occasione, per documentare che i resistenti italiani erano pochi e che la maggioranza se ne stava tranquilla, il direttore di Libero a un certo punto è sbottato dicendo una cosa di assoluto buonsenso come: “e poi non dimentichiamo che a quei tempi c’erano i tedeschi e non obbedire ai proclami era un reato e si poteva morire”. Appunto, egregio direttore, appunto.

 

 

 

 

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