Devo confessare di essere rimasto sorpreso, come
Feltri, da molte voci della sinistra che esprimevano
stupore per la mancanza di discriminazione da parte
dei gruppi terroristici che hanno rapito le due Simone.
Ci siamo forse dimenticati come le BR, e altri gruppi
simili, per “portare l’attacco al cuore
dello stato” colpissero non personaggi disgustosi,
ma gli Alessandrini, i Castellano, i Ruffilli, e i
molti altri che avevano la precipua caratteristica
di essere delle persone illuminate e semmai, non dico
inclini a sostenere i terroristi, ma certo non disposte
a propugnare una repressione indiscriminata. Come
del resto provano gli interrogatori della Banelli,
che descrive la scelta di uccidere d’Antona
come strategia “disarticolante” contro
un “riformista”. Chi ha convissuto così
intimamente e per tanti anni con il terrorismo dovrebbe
avere imparato che la logica di questi gruppi, è
essenzialmente di Zweckrationalität e che molte
delle loro azioni hanno esattamente lo scopo di eliminare,
nei confronti di sé stessi e degli altri gruppi,
ogni residuo di Wertrationalität, cioè
di umanità. Non lasciamoci ingannare dal ricorso
ad Allah, è un grido di guerra meccanico. Dire
a costoro che il Corano condanna tali atti sarebbe
come cercare di spiegare alle BR che Marx non era
un sanguinario.
E’ la logica del professionismo che conta in
questi casi, e l’atto feroce è una prova
rituale che serve a stabilire la capacità del
soggetto di non aver la mano che trema nel momento
della verità. Ha la medesima funzione degli
scherzi macabri degli studenti di medicina o del nonnismo
assassino di certi corpi militari, che ogni tanto
emerge dall’omertà. Con la differenza
che per medici e militari l’organizzazione fornisce
un insieme di valori che tende a controllare l’acquisito
sprezzo per la vita o la sofferenza. Conosciamo bene
questa paideia per il massacro perché gli americani
l’hanno esplorata a fondo in film come Apocalypse
Now (Kurz/Cuore di tenebra: “l’orrore,
l’orrore”) o in Full Metal Jacket
in cui il soldato pacifista, che ha finalmente imparato
a sparare per uccidere (Waste her, waste her! ordina
il suo superiore di fronte alla cecchina ferita),
torna a casa felice cantando una canzone per bambini.
E del resto le scarne cronache dall’interno
della scuola di Beslan offrono conforto alla supposizione
che anche all’interno del commando fossero in
atto azioni di questo genere.
Con ciò non voglio dire che con questi gruppi
non si possa trattare: si può, se si trova
la giusta chiave, che non è però quella
di spiegare che fanno una cosa di sinistra o di destra,
pro o contro Berlusconi o Fassino. Senza contare che,
come è poi successo con le BR, chi si mette
in queste condizioni estreme spesso è o diventa
in certa misura uno squilibrato, quando non è
un sanguinario assassino, che ci prova piacere di
suo, o un sicario al soldo della CIA, come pure abbiamo
visto. Anche questa discesa verso My Lai e la frenesia
del massacro è stata ben illustrata in molti
testi ed è provata dalle note ricerche sui
meccanismi psicologici che si mettono in moto quando
qualcuno ha potere totale su altre persone.
E’ chiaro però che “trattare”
con i terroristi non ha nulla a che vedere con “dialogare”
con il mondo islamico. Sono in malafede (ma è
diventata quasi una seconda natura) e alquanto superficiali,
i giornali di destra che sfidano la sinistra a dialogare
con il terrorista ceceno (“Provate a dialogare
con questo qui”). Nessuno ha mai detto una stupidaggine
simile e, del resto, paradossalmente, a trattare sono
costretti proprio i guerrafondai. In questo momento
chi tratta è (speriamo) il governo italiano
e, in passato, pare che lo stesso premier ci abbia
messo, come si suol dire, del suo.
Noi, che critichiamo complessivamente la linea del
governo italiano, non vogliamo trattare o dialogare
con i terroristi, non ne abbiamo neppure i mezzi,
ma vogliamo un dialogo su un piano diverso e non accettiamo
la filosofia di questi molto intelligenti realisti
che sanno tutto sulla natura umana e si beffano dei
poveri idealisti di sinistra, arrivando al punto da
dileggiare un morto (azione considerata tra le più
esecrabili anche dalle più feroci tribù
guerriere). Sono così presi dalla blindatura
della loro ideologia, che non si sono neppure accorti
che mentre avvenivano queste scene di (ormai) ordinaria
ferocia si stava realizzando un piccolo passo di quel
dialogo, con le dichiarazioni congiunte dei religiosi
riuniti a Milano e le dichiarazioni a favore delle
rapite che si sono moltiplicate in tutto il mondo
musulmano. Che temo non avranno molta presa sui gruppi
terroristici, ma hanno un enorme influenza nell’aprire
un varco tra costoro e la stragrande maggioranza degli
uomini di buona volontà dei paesi musulmani
che non vogliono risolvere i loro problemi o la loro
disperazione con i metodi della jihad. Come è
avvenuto con le BR, che avendo intrapreso la strada
dell’orrore, guarda caso, soprattutto dopo che
al comando sono arrivati i prezzolati dei servizi,
invece di “mobilitare le masse”, come
si diceva nel linguaggio dei comunicati, le hanno
allontanate. La risposta a Panebianco, che si chiedeva
con chi trattare, è già stata data a
Milano, a Parigi e in quasi tutto il mondo islamico,
ed è una risposta di popolo, non di governi:
la battaglia si vince sul piano dell’opinione
pubblica, lo sanno molto bene i jiahdisti, e dobbiamo
capirlo anche noi.
Ma all’opinione pubblica, paradossalmente,
non bastano le parole perché i media di parole
ne macinano tantissime. Vale quella “propaganda
of the deeds” (propaganda dei fatti) in contrapposizione
alla “propaganda of the words” (propaganda
delle parole) che Robert Merton teorizzò nel
fondamentale Mass persuasion del 1943, un testo insuperabile
per comprendere i meccanismi della propaganda. Dove
i deeds (i fatti) non sono le pallottole, come pensano
gli stupidi, ma altre parole, parole giuste e convincenti
e sostenute da un comportamento coerente, una “testimonianza”
come quella data dalla maratona di 16 ore di Kate
Smith nel corso del famoso Warbond Drive del Settembre
1943. La battaglia non si vince con i cannoni, ma
con le parole sincere, parole sostenute da fatti.
Se davvero siamo una civiltà superiore, come
sostengono tutti coloro che predicano contro il relativismo
culturale, elencando le nostre superiori istituzioni
dalla democrazia alla tolleranza religiosa, non basta
dirlo con le parole, perché chi sta dall’altra
parte, spesso sotto le bombe, non è proprio
incline a crederci. Occorre dimostrarlo con i fatti,
per esempio facendo vedere che i cannoni non sono
la nostra unica risposta, che ci sono altri modi e
che ci sono molte persone tra noi che sono disposte
a rischiare la vita non per sparare ma per aiutare.
Fortunatamente (ma è una fortuna che non capita
due volte) è proprio l’estremismo dei
jiahdisti ad avere aperto un varco tra i terroristi
e l’opinione pubblica musulmana, come spiega
con lucidità e competenza Gilles Kepel su La
Repubblica del 7 Settembre (finalmente un’analisi!
Non un’anatema o una elaborazione del luogo
comune come l’elzeviro di PG Battista sull’odio
dei musulmani per la donna su La Stampa,dell’8
settembre), che apre quel varco. Ma quel varco è
stato aperto anche dalle centinaia di Simone che,
a rischio della vita, hanno saltato il muro dell’odio
per fare cose modeste ma essenziali, come sistemare
i libri di una scuola, o pericolose come soccorrere
i feriti a Najaf sotto il tiro dei cecchini, o importantissime
come essere li, entusiaste e convincenti. “Propaganda
dei fatti” contro l’odio. In questo varco
deve entrare la sinistra intelligente e comunque chiunque
si opponga alla via della folle corsa verso l’orrore
generalizzato, imboccata dall’”amico Putin”,
sulle orme dell’”amico George”.
Gli speznats della scuola di Beslan, come ci hanno
raccontato le cronache di questi giorni, sono lo stesso
corpo che il 27 dicembre 1979 diede l’assalto
al palazzo di Kabul, iniziando quella tremenda avventura
afgana che sta all’origine della tragedia di
oggi. E il puzzo di bruciato attorno a tutta la faccenda
di Beslan si sta diffondendo con molta più
rapidità di quello delle bombe.
Chi crede che il terrorismo si possa vincere, e non
desidera invece tenerlo in vita per anni come comodo
alibi per la repressione del controllo critico sulle
élites, non deve accettare i ricatti di chi
ci ha portato lì: “o con gli americani
o con i terroristi” oppure “si forse abbiamo
sbagliato ma ora…” sono frasi ipocrite,
da Azzeccagarbugli. Se Calisto Tanzi con il fido Tonna
si presentassero oggi alla vostra porta cercando di
vendervi bond della Parmalat li comprereste? Li accompagnereste
più o meno bruscamente alla porta, spiegandogli
che prima di comperare azioni Parmalat occorre almeno
cambiare la guida dell’impresa. Bush/Tanzi e
Putin/Tonna ci hanno venduto obbligazioni ben più
fallimentari, in termini economici e politici, eppure
ci si sta ancora cercando di vendere “four more
years”. Io credo che, prima ancora di discutere
se rimanere in Iraq (ma in che termini, a fare cosa
e con chi, come sta cercando di spiegare Paul Krugman
da mesi) o tornarsene a casa, sia ragionevole chiedere
che intanto a casa ci vadano i responsabili del disastro,
perché quelli, di lì non tireranno mai
fuori nessuno, a cominciare dai mille e mille morti
che hanno lasciato sul terreno.
Analogamente dobbiamo, mi rivolgo sempre a chi cerca
disperatamente di evitare la catastrofe della linea
autoritaria Bush/Putin, evitare tutta la confusione
retorica ingenerata dai due apparati disinformativi.
Che senso ha litigarsi sul termine “resistente”
in Iraq, oppure sulla definizione di terrorista (Le
Carrè dice sinteticamente che terrorista è
chi ha la bomba e non l’aereo), oppure se siamo
o no in guerra, oppure se i kamikaze siano vili o
eroi o se i terroristi che operano in Caucaso siano
indipendentisti ceceni o altro. Nessuno di questi
termini si applica in modo utile alla situazione,
perché la situazione è definita proprio
dalla estrema sovrapposizione e confusione di tutte
queste cose, per cui qualsiasi sforzo anche sincero
di classificazione finisce per assomigliare (più
del solito) ai 10 filosofi ciechi che devono definire
un elefante e a seconda di dove toccano dicono che
è un serpente, una colonna o un tubo. E così
cadono preda del relativismo ideologico o della affermazione
di principi che, come si sa, sono le faccende più
elastiche che si conoscano: così per chi sta
dalla parte di Sharon i palestinesi sono terroristi
e per chi sta dall’altra parte, terroristi sono
gli israeliani. Occorre fare un passo indietro e vedere
le cose con un fuoco più gestaltico, e da questo
punto di vista sembra difficile contestare il fatto
che tutte le previsioni fatte da chi ha sostenuto
la guerra in Iraq (in Afgahnistan le cose non sono
andate meglio, ma era difficile per gli USA non intervenire
dopo 911) si sono rivelate basate su premesse false
o sono state falsificate dagli eventi, che hanno invece
confermato in larga misura le previsioni, fatte in
grande abbondanza e con grande pubblicità,
da chi la guerra contrastava. Certo è sempre
possibile dire, come fanno freneticamente i guerrafondai,
che occorre tempo, ma “in the long run…”,
come si dice.
Il punto fondamentale è che si è presentata
una novità di carattere militare che capovolge
i termini del conto delle forze. L’apparato
americano è fatto di cold warriors, cioè
abili manipolatori di uno scacchiere con un opponente
“opportunistico”, cioè un attore
che in ultima analisi fa un conto perdite e profitti.
In questo gioco si può andare molto lontano
nella brinkmanship purché si rimanga all’interno
di un comune calcolo cost/benefit. Ma oggi è
intervenuto un nuovo elemento, la estrema polverizzazione
degli attori e la disponibilità di armi ed
esplosivi a poco prezzo (a proposito come vanno le
azioni dei venditori di armi? C’è stata
una riconversione dai cannoni ai kalashnikov?) esattamente
come è avvenuto per le automobili – che
continuano uccidere più dei kalashnikov –
le radio, i PC e il telefono. E, con la diffusione
della disperazione e la nascita dei kamikaze, si è
introdotta nell’equazione la variabile costo
zero per la forza lavoro. E si sa che con forza lavoro
a costo zero o quasi è anche possibile costruire
le piramidi con le mani e le braccia. Il problema
è quindi in larga misura militare, e non è
la prima volta nella storia che si presenta Tra il
XVIII e il XIII millennio prima della nostra era,
venne introdotta un importante innovazione militare:
il cocchio. Nulla a che vedere con i pesanti carri
a uno o due assi o con i famosi carri falcati più
minacciosi che efficaci: il cocchio era costruito
con corregge di cuoio e legni duri piegati a fuoco,
pesava 30-40 chili e veniva tirato da due cavalli
portando due passeggeri. Un auriga protetto da una
armatura di cuoio e un arciere che utilizzava archi
molto efficienti, forse prodotti dalla medesima tecnologia
del legno che produceva i carri. Questa veloce macchina
da guerra era estremamente manovrabile, si avvicinava
agli eserciti schierati, faceva un rapido volteggio
durante il quale l’arciere scoccava più
frecce letali e poi si allontanava fuori portata.
Questa tecnica, che si chiama caracol ed è
stata usata dalle tribù americane delle praterie,
era grandemente efficiente e introdusse un vantaggio
simile a quello dei blindati o della aviazione nelle
guerre del tempo.
I leggeri cocchi però erano molto costosi:
i cavalli dovevano essere nutriti e protetti, le armature
leggere, ma resistenti, dell’auriga e degli
stessi carri, possono essere assimilate al costo di
un potente carro armato attuale. Pertanto questa tecnica
militare contribuì alla creazione di forti
entità politiche centralizzate capaci di schierare
flotte numerose di carri -in una battaglia egiziana
si parla di 1800 carri - che dominarono per millenni.
Finché un tempo brevissimo attorno alla fine
del XIII millennio, in tutto il Medioriente, si trovano
segni del disfacimento di grandi civiltà, a
cominciare da quella micenea. Molte ipotesi sono state
avanzate e non esiste consenso sulle cause di questi
eventi. Tuttavia molte spiegazioni fanno riferimento
alla comparsa di un misterioso quanto diffuso “popolo
(o popoli) del mare” capaci di far fronte ai
cocchi. Si pensa a guerrieri poco armati ma molto
mobili e molto aggressivi in grado di attaccare da
vicino i cocchi con corte daghe, forse, ma non sempre,
di ferro. In ogni caso le civiltà che si reggevano
su una tecnica militare capace di far fronte a eserciti
organizzati vennero distrutte da incursori.
Quale che sia la verità storica, che forse
non sapremo mai per mancanza di documenti e altre
fonti, il crollo di molte ricche città da Pilo
nel Peloponneso ad Askalon nel Sinai a Hattusas nell’Anatolia
ittita è un fatto indiscutibile. E l’ipotesi
è suggestiva per spiegare quanto sta avvenendo
oggi. Infatti la metafora di Monaco e Hitler è
fuorviante: quale che sia il giudizio sul povero Chamberlain,
la situazione era assai diversa, lì si confrontavano
stati nazione, mentre oggi è chiarissimo che
il più potente esercito del mondo non ce la
fa a tenere l’area di un stato medio come l’Iraq.
Non parliamo di quella dell’Afghanistan, 350mila
chilometri quadri di montagne sotto controllo tribale
(il Sopramonte sardo in cui Graziano Mesina tenne
per anni sotto scacco ingenti forze italiane, con
meno uomini che dita della mano, è, a essere
larghi, 150kmq). E non parliamo del terrorismo generalizzato
cui solo per comodità narrativa – ma
una comodità che rischia di costarci cara –
diamo il nome di Al-Qaeda e la leadership di tal Osama-bin-Laden.
Al fondo questo terrorismo non fa altro che applicare
i modelli di flessibilità, decentramento, frammentazione
sperimentati dall’impresa contemporanea: una
totale post-fordizzazione della guerra. Questo terrorismo
si vince solo rimuovendo le principali cause della
sua base ideologica, una delle quali è l’invasione
armata di un territorio, cercando il più possibile
di dividere le unità operative dal grosso delle
popolazioni e, ovviamente difendendosi, sia passivamente
che attivamente; ma non si vince con le occupazioni
armate che, al contrario, alimentano quel fuoco, non
fosse altro che per la grande disponibilità
di armi e materiale bellico che si accompagna sempre
a una operazione militare.
Avendo cominciato con un elogio a Feltri concludo
sul medesimo tono. In una trasmissione radiofonica
in cui l’articolo di Feltri veniva criticato
aspramente, un ascoltatore propose la chiusura di
Libero. A parte la totale assurdità e inaccettabilità
della proposta, va ribadito che è assolutamente
necessario che i Feltri ci siano e che parlino. Non
è vero che Feltri sia un estremista, Feltri
è l’espressione del buon senso della
classe media lombarda che crede davvero che Baghdad
sia abitata da beduini “Benedetta ragazza, che
gliene frega ai beduini (imbevuti di stramberie religiose)
dei libri? Loro analfabeti per decreto governativo.”
E che è profondamente convinta che andare dove
c’è pericolo sia da sconsiderati, punibili
come bambini, minacciando “quattro ceffoni”
alla figlia che avesse manifestato l’intenzione
di andare a fare la volontaria. Pensando a questa,
del tutto ipotetica immagino, figlia ribelle cui Feltri
darebbe “quattro ceffoni” per impedirle
di fare una sconsideratezza, mi viene in mente quella
bellissima canzone di George Brassens che comincia
con “Philistins, épiciers… e finisce
con ”Vous pensiez : " Ils seront ( i figli
desiderati,ndr)/Menton rasé, ventre rond/ Notaires
/Mais pour bien vous punir/Un jour vous voyez venir/Sur
terre/Des enfants non voulus/Qui deviennent chevelus/Poètes...
» Hai voglia ceffoni.
Nell’articolo di Feltri c’è una
descrizione molto precisa e destinata a suscitare
ribrezzo, del modo con cui gli islamici ci considerano:
come insetti fastidiosi, zanzare, ragni, da schiacciare
con una manata. Ma un pari disprezzo Feltri dimostra
per Baldoni e le due volontarie,”Le care signore
non si sono rese conto di essere zanzare… Le
Simone sono noglobal. Le Simone poverine erano ubriache
di bischerate rosse… Scusate fanciulle, un posticino
in banca o una cattedrina alle elementari di Viterbo
non era meglio? Chi vi ha strizzato il cervello?”
C’è sempre nella classe media italiana
il sospetto che chiunque rifiuti l’aurea mediocritas
delle “molte rate e pochi vizi”, deve
per forza essere uno spostato o un povero di spirito
cui viene “strizzato il cervello”. A Pavia
questa posizione, di fuga dai pericoli o semplicemente
di non voler prendere posizione, si riassume in un
bellissimo detto di sicura origine medievale, “mi
vuu in burg”, mi ritiro nel castello. Feltri
ci dice, andare in burg, va bene, sono solo i pirla
che si agitano. Purtroppo il realismo e il disincanto
sono sempre a senso unico, se i vari Feltri avessero
anche solo pensato che “quattro ceffoni”
forse li meritavano anche Bush & co, che si sono
dimostrati molto, ma molto più sconsiderati
di chiunque altro, con l’aggravante che loro
di persona non rischiano, forse un freno a questa
guerra si sarebbe manifestato. Di Feltri mi ha colpito
una affermazione fatta tempo fa durante un dibattito
televisivo sulla resistenza: in quella occasione,
per documentare che i resistenti italiani erano pochi
e che la maggioranza se ne stava tranquilla, il direttore
di Libero a un certo punto è sbottato dicendo
una cosa di assoluto buonsenso come: “e poi
non dimentichiamo che a quei tempi c’erano i
tedeschi e non obbedire ai proclami era un reato e
si poteva morire”. Appunto, egregio direttore,
appunto.
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