261 - 18.09.04


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Il pluralismo? Non si può imporre con la forza
Tariq Ramadan con Nina zu Fürstenberg


Per Tariq Ramadan l’Islam deve passare attraverso un lungo sviluppo pensato e vissuto all’interno della comunità musulmana. Un radicale capovolgimento e l’applicazione di parametri occidentali porterebbero solo a un effetto di rifiuto e non di comprensione. Ramadan può essere considerato il più conservatore tra i riformisti. Sostiene che l’antica distinzione tra la sfera del credo, come si è con Dio, e la sfera degli affari sociali, vale a dire come si è con gli esseri umani, non è tanto diversa dalla separazione fra Chiesa e politica e fa parte della cultura musulmana da sempre. Da quel punto di vista c’è una possibilità democratica.

Che problemi ci sono tra islamismo e liberalismo?

Il termine “liberale”, nel mondo musulmano, viene usato talvolta per indicare l’interpretazione dei testi - anche da persone distanti da una vera pratica religiosa. Si tratta, in quel caso, di musulmani per cultura o per affiliazione intellettuale, non necessariamente per un rapporto di spiritualità. Io pongo tuttavia molta attenzione alla parola «liberale», perché ho visto molto spesso persone che si dichiaravano liberali dal punto di vista religioso, ma che appoggiavano dittature dal punto di vista politico. Il carattere liberale dell’interpretazione religiosa non dice assolutamente nulla sul carattere liberale in termini politici. Vi sono persone che affermano di essere razionalisti liberali e che hanno sostenuto Saddam Hussein in Irak, o che sostengono oggi Ben Ali in Algeria. Bisogna fare molta attenzione. Questa espressione nasconde una trappola. Ci sono degli ebrei liberali che sostengono incondizionatamente Sharon. Suggerisco di diffidare.

Ma dal momento che vi è un rapporto tra la religione islamica e la politica, visto che ci sono persone che utilizzano la religione come strumento di controllo politico, quello che ci interessa della cultura musulmana non è solo l’aspetto teologico.

Il nesso tra religione e politica nel mondo islamico e in quello occidentale si presenta in maniera diversa; diversa è la linea di confine. Noi non abbiamo un’istituzione religiosa, bensì spazi di relazione con la religiosità; e la nostra religiosità, va detto con chiarezza, ha alcuni principi non negoziabili. Sono quattro: lo Stato di diritto, la cittadinanza paritaria, il suffragio universale e l’alternanza.

Vediamoli uno per uno.

Esiste una Costituzione che viene elaborata dalla razionalità umana, anche se a volte può trarre ispirazione da riferimenti religiosi o culturali, come avviene dovunque. Questa Costituzione deve offrire a tutte le persone, di qualunque religione esse siano, una cittadinanza paritaria, dove non esista alcuna differenziazione in base all’appartenenza religiosa; ne consegue la necessità del suffragio universale, nel senso che debbono svolgersi vere elezioni democratiche e trasparenti, e soprattutto la necessità dell’alternanza, nel senso che quando un’autorità politica viene considerata incompetente o esce dalla legalità, deve esserci il diritto di cambiarla attraverso libere elezioni: al contrario di quanto accade nel mondo musulmano di oggi, in cui persone elette rimangono in carica a vita e trasmettono la carica ai figli, come accade in Siria e come accadrà in Egitto, dato che ci è stato annunciato che sarà il figlio di Mubarak a prendere il suo posto.

Lei ritiene possibile una divisione tra la dimensione politica e la dimensione religiosa, tra la Chiesa e lo Stato, tra la Moschea e lo Stato, analogamente a quanto è accaduto nel mondo occidentale?

Nella tradizione musulmana, contrariamente a quanto molti sostengono, vi è fin dall’origine una distinzione tra la sfera del credo, quella che viene chiamata ”aribadad”, vale a dire come si è con Dio, e la sfera degli “muhamalat”, cioè degli affari sociali, vale a dire come si è con gli esseri umani. È questa la vera distinzione da fare. Qualche specialista afferma addirittura che la distinzione esiste fin dalle origini della nostra religione, tanto che, nel momento in cui il cristianesimo ha incontrato l’Islam in Italia, in Sicilia e in Andalusia, è stata la tradizione musulmana a sostenere il ruolo della razionalità presso i filosofi cristiani e ad innescare il processo di secolarizzazione. Insisto dunque: nella sfera legale musulmana vi è una distinzione. Non si trattano i rapporti con Dio come si trattano i rapporti con gli uomini.

Allora dovrebbe essere possibile una separazione delle due sfere anche nel mondo musulmano di oggi?

Sì, deve essere possibile. Non è ovviamente necessario giungere ad una forma di divorzio, nel senso che una sfera, quella religiosa, è fonte di ispirazione dell’altra, quella sociale, dal punto di vista etico. Esiste un’etica, esistono dei valori che scaturiscono dal sostrato dei testi rivelati, ma a questa etica non va attribuito il compito di organizzare in modo dogmatico gli affari sociali, che debbono viceversa rispondere a criteri di razionalità, devono fondarsi su principi autonomi dalla religione, sul consenso collettivo, sulla discussione tra maggioranze e minoranze, su quello che oggi in Occidente viene chiamato “dibattito democratico”.

Ma come potranno sorgere solide democrazie nel mondo islamico?


Nel mondo musulmano vanno incoraggiati i processi di democratizzazione. Una possibilità è quella di tuffarsi nelle fonti islamiche che sono radicate nella cultura di ciascuna società e di fare un vero lavoro di rielaborazione critica, un lavoro di auto-rappresentazione di sé, cercando di farne uscire qualcosa che porti a una visione pluralistica che possa essere considerata legittima da parte di ciascuna popolazione. Faccio un esempio: dopo sessanta o settant’anni di imposizione di un modello di secolarizzazione in Turchia, la gente sembra voler tornare indietro. Perchè? Perché quel modello è stato imposto con la dittatura. E non è possibile imporre il pluralismo con la dittatura, neanche con una dittatura intellettuale. Si tratta quindi di processi molto lunghi. Importante è che si capisca che le nostre fonti, le nostre fondamenta consentono una distinzione tra la sfera del credo e la sfera dello spazio sociale. È necessario arricchirsi di tutti gli apporti della società, anche di quelli che vengono dalle società occidentali.

Ci aiuti a capire la sua posizione rispetto ad altri autori mussulmani che «Reset» ha già pubblicato, come Bassam Tibi, che ha come punto centrale del suo pensiero l’Euro-islam, e come il mufti di Marsiglia, Soheib Benscheikh, che crede possibile un profondo rinnovamento dell’Islam.

Non condivido affatto le idee di Bassam Tibi, perché apparentemente parla dell’Islam dall’interno, ma in realtà ne sta all’esterno. Benscheikh invece è da collocare non solo pienamente all’interno, ma anche nel riformismo razionalistico musulmano. Tibi prospetta un discorso che può essere ricevuto solo dai suoi partner occidentali, ma che non è affatto ricevibile per i musulmani, nel senso che non ha nessun tipo di ancoraggio all’interno di questa comunità. Parla all’Occidente, dicendo tutto quello che l’Occidente ha voglia di sentirsi dire. Bassam Tibi afferma che i musulmani avranno fatto un vero percorso evolutivo solo quando avranno eliminato dal loro vocabolario la parola “sharia”. Questo è secondo me sbagliato perché, se attribuiamo alla parola sharia il significato di percorso, di fedeltà, con il significato che aveva originariamente, e non quello di legge, troveremo allora un certo numero di correnti musulmane che riescono ad aprirsi a dimensioni politiche di tipo pluralista.

Allora la riforma può solo venire dall’interno dei riferimenti islamici, tramite la riscoperta di valori universali, evitando l’imposizione di modelli esterni?

Sì, in Turchia è stato imposto un modello a colpi di dittatura militare e che oggi mostra i suoi limiti. Sono stato molto critico nei confronti del modello iraniano dal 1979 in poi, però sono costretto a constatare che il dibattito che gli iraniani hanno avviato all’interno tra i riformisti e i conservatori ha portato in venti anni a percorsi di democratizzazione più importanti di quanto non sia accaduto in tutto il resto del mondo musulmano. Perché? Perché c’è un vero dibattito che nasce dall’interno. Possiamo essere ancora insoddisfatti, possiamo dire che non ci siamo ancora, che ci sono ancora troppe resistenze, che la posizione di Khamenei, al di là delle leggi, non è assolutamente accettabile; ma contemporaneamente dobbiamo renderci conto che tutti quei riformisti che oggi sfidano la società fanno progredire la popolazione e provocano un vero dibattito dall’interno che tra dieci o venti anni avrà dato molto di più alla rivoluzione intellettuale nel mondo musulmano di quanto non lo abbiano fatto tante proclamazioni. D’altro canto, il modello occidentale non è un modello ideale, si tratta di un modello tra altri modelli. Forse per il futuro delle nostre società sarà necessario che altre civiltà, siano esse musulmane o no, forniscano altri contributi.

Lei ritiene che la guerra americana all’Iraq sia stata di aiuto a questo processo?

Assolutamente no. La guerra ha dimostrato al mondo musulmano - e tra l’altro non solo al mondo musulmano, ma anche a molti europei - che contro il diritto internazionale e l’autonomia dei popoli gli americani hanno potuto fare quello che hanno voluto, manipolando l’opinione pubblica internazionale, parlando di armi di distruzione di massa che non c’erano. Si è verificata una svalutazione del discorso politico sulla scena internazionale, con la conseguenza che il mondo musulmano non si fa più tante illusioni, se mai gliene fossero rimaste dopo quello che siamo costretti a vedere in Palestina. La seconda cosa assolutamente negativa è che la guerra, in fin dei conti, non era la cosa principale. Dopo la guerra, come era prevedibile, ci ritroviamo con un Iraq che diventerà una sorta di protettorato con la funzione essenziale di proteggere gli interessi geostrategici ed economici americani e garantire sicurezza a Israele.

E gli aspetti positivi? C’è stata la guerra: ma è stato evitato uno “scontro delle civiltà”?

Per la prima volta il mondo musulmano ha capito veramente che ci sono possibili forme di partnership, che non si tratta di schierare l’Occidente contro l’Islam, ma che, in fin dei conti, ci sono molti esseri umani, uomini e donne, occidentali o non occidentali, americani o non americani, che sono molto più vicini oggi ad una partnership per difendere dei valori. E qui la cosa si fa interessante, nel senso che ci si può ritrovare su valori comuni di pluralismo e di democrazia. Ci siamo resi conto, all’improvviso che l’Occidente non è una cosa sola, che ci sono delle correnti contraddittorie, che non bisogna farne una caricatura.

Se i nostri valori comuni sono il pluralismo e la democrazia, come vede l’integrazione musulmana in Europa?

In Francia, in Inghilterra e sempre di più anche in Germania, ma avverrà anche in Italia, i processi di integrazione sono già all’opera. Bisogna smetterla di parlare per venti anni di integrazione. Vede, ci sono delle parole che quando le si utilizzava venti anni fa erano progressiste, mentre oggi sono scollegate dalle loro rispettive realtà. Ci dobbiamo rendere conto che, anche in Italia, sta emergendo una cittadinanza italiana per donne e uomini di confessione musulmana.

Cosa vuol dire integrazione delle intimità?

Significa sentirsi psicologicamente a casa propria e accettato come italiano e come membro di qualsiasi altra nazionalità europea. Non ci sarà vera presenza musulmana nelle nostre società se non si lavora insieme al cambiamento della rappresentazione che si ha dell’Islam. Non bisogna cadere nel vittimismo. I principali responsabili di questa situazione sono gli stessi musulmani, ed è questo il motivo per cui debbono prendere la parola, debbono esprimersi, essere presenti nel dibattito sociale e politico, per far capire che sono cittadini come gli altri, che vogliono partecipare, che hanno gli stessi valori degli altri, che i loro valori non sono minoritari. È necessario poi sviluppare partnership di base. Non delle associazioni musulmane, che parlano solo dell’Islam o che si occupano solo dei musulmani, ma con le persone, associazioni e organizzazioni che lavorano sulla difesa dei diritti di tutti, musulmani e non.

Questa intervista a Tariq Ramadan è tratta dal libro Lumi dell’Islam. Nove intellettuali musulmani parlano di libertà, di Nina zu Fürstenber, Marsilio – I libri di Reset, pagg. 125, euro 7,50.

 

 

 

 

 

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