Per Tariq Ramadan l’Islam deve passare attraverso
un lungo sviluppo pensato e vissuto all’interno
della comunità musulmana. Un radicale capovolgimento
e l’applicazione di parametri occidentali porterebbero
solo a un effetto di rifiuto e non di comprensione.
Ramadan può essere considerato il più
conservatore tra i riformisti. Sostiene che l’antica
distinzione tra la sfera del credo, come si è
con Dio, e la sfera degli affari sociali, vale a dire
come si è con gli esseri umani, non è
tanto diversa dalla separazione fra Chiesa e politica
e fa parte della cultura musulmana da sempre. Da quel
punto di vista c’è una possibilità
democratica.
Che problemi ci sono tra islamismo e liberalismo?
Il
termine “liberale”, nel mondo musulmano,
viene usato talvolta per indicare l’interpretazione
dei testi - anche da persone distanti da una vera pratica
religiosa. Si tratta, in quel caso, di musulmani per
cultura o per affiliazione intellettuale, non necessariamente
per un rapporto di spiritualità. Io pongo tuttavia
molta attenzione alla parola «liberale»,
perché ho visto molto spesso persone che si dichiaravano
liberali dal punto di vista religioso, ma che appoggiavano
dittature dal punto di vista politico. Il carattere
liberale dell’interpretazione religiosa non dice
assolutamente nulla sul carattere liberale in termini
politici. Vi sono persone che affermano di essere razionalisti
liberali e che hanno sostenuto Saddam Hussein in Irak,
o che sostengono oggi Ben Ali in Algeria. Bisogna fare
molta attenzione. Questa espressione nasconde una trappola.
Ci sono degli ebrei liberali che sostengono incondizionatamente
Sharon. Suggerisco di diffidare.
Ma dal momento che vi è un rapporto
tra la religione islamica e la politica, visto che ci
sono persone che utilizzano la religione come strumento
di controllo politico, quello che ci interessa della
cultura musulmana non è solo l’aspetto
teologico.
Il nesso tra religione e politica nel mondo islamico
e in quello occidentale si presenta in maniera diversa;
diversa è la linea di confine. Noi non abbiamo
un’istituzione religiosa, bensì spazi di
relazione con la religiosità; e la nostra religiosità,
va detto con chiarezza, ha alcuni principi non negoziabili.
Sono quattro: lo Stato di diritto, la cittadinanza paritaria,
il suffragio universale e l’alternanza.
Vediamoli uno per uno.
Esiste una Costituzione che viene elaborata dalla razionalità
umana, anche se a volte può trarre ispirazione
da riferimenti religiosi o culturali, come avviene dovunque.
Questa Costituzione deve offrire a tutte le persone,
di qualunque religione esse siano, una cittadinanza
paritaria, dove non esista alcuna differenziazione in
base all’appartenenza religiosa; ne consegue la
necessità del suffragio universale, nel senso
che debbono svolgersi vere elezioni democratiche e trasparenti,
e soprattutto la necessità dell’alternanza,
nel senso che quando un’autorità politica
viene considerata incompetente o esce dalla legalità,
deve esserci il diritto di cambiarla attraverso libere
elezioni: al contrario di quanto accade nel mondo musulmano
di oggi, in cui persone elette rimangono in carica a
vita e trasmettono la carica ai figli, come accade in
Siria e come accadrà in Egitto, dato che ci è
stato annunciato che sarà il figlio di Mubarak
a prendere il suo posto.
Lei ritiene possibile una divisione tra la
dimensione politica e la dimensione religiosa, tra la
Chiesa e lo Stato, tra la Moschea e lo Stato, analogamente
a quanto è accaduto nel mondo occidentale?
Nella tradizione musulmana, contrariamente a quanto
molti sostengono, vi è fin dall’origine
una distinzione tra la sfera del credo, quella che viene
chiamata ”aribadad”, vale a dire come si
è con Dio, e la sfera degli “muhamalat”,
cioè degli affari sociali, vale a dire come si
è con gli esseri umani. È questa la vera
distinzione da fare. Qualche specialista afferma addirittura
che la distinzione esiste fin dalle origini della nostra
religione, tanto che, nel momento in cui il cristianesimo
ha incontrato l’Islam in Italia, in Sicilia e
in Andalusia, è stata la tradizione musulmana
a sostenere il ruolo della razionalità presso
i filosofi cristiani e ad innescare il processo di secolarizzazione.
Insisto dunque: nella sfera legale musulmana vi è
una distinzione. Non si trattano i rapporti con Dio
come si trattano i rapporti con gli uomini.
Allora dovrebbe essere possibile una separazione
delle due sfere anche nel mondo musulmano di oggi?
Sì, deve essere possibile. Non è ovviamente
necessario giungere ad una forma di divorzio, nel senso
che una sfera, quella religiosa, è fonte di ispirazione
dell’altra, quella sociale, dal punto di vista
etico. Esiste un’etica, esistono dei valori che
scaturiscono dal sostrato dei testi rivelati, ma a questa
etica non va attribuito il compito di organizzare in
modo dogmatico gli affari sociali, che debbono viceversa
rispondere a criteri di razionalità, devono fondarsi
su principi autonomi dalla religione, sul consenso collettivo,
sulla discussione tra maggioranze e minoranze, su quello
che oggi in Occidente viene chiamato “dibattito
democratico”.
Ma come potranno sorgere solide democrazie nel mondo
islamico?
Nel mondo musulmano vanno incoraggiati i processi di
democratizzazione. Una possibilità è quella
di tuffarsi nelle fonti islamiche che sono radicate
nella cultura di ciascuna società e di fare un
vero lavoro di rielaborazione critica, un lavoro di
auto-rappresentazione di sé, cercando di farne
uscire qualcosa che porti a una visione pluralistica
che possa essere considerata legittima da parte di ciascuna
popolazione. Faccio un esempio: dopo sessanta o settant’anni
di imposizione di un modello di secolarizzazione in
Turchia, la gente sembra voler tornare indietro. Perchè?
Perché quel modello è stato imposto con
la dittatura. E non è possibile imporre il pluralismo
con la dittatura, neanche con una dittatura intellettuale.
Si tratta quindi di processi molto lunghi. Importante
è che si capisca che le nostre fonti, le nostre
fondamenta consentono una distinzione tra la sfera del
credo e la sfera dello spazio sociale. È necessario
arricchirsi di tutti gli apporti della società,
anche di quelli che vengono dalle società occidentali.
Ci aiuti a capire la sua posizione rispetto
ad altri autori mussulmani che «Reset» ha
già pubblicato, come Bassam Tibi, che ha come
punto centrale del suo pensiero l’Euro-islam,
e come il mufti di Marsiglia, Soheib Benscheikh, che
crede possibile un profondo rinnovamento dell’Islam.
Non condivido affatto le idee di Bassam Tibi, perché
apparentemente parla dell’Islam dall’interno,
ma in realtà ne sta all’esterno. Benscheikh
invece è da collocare non solo pienamente all’interno,
ma anche nel riformismo razionalistico musulmano. Tibi
prospetta un discorso che può essere ricevuto
solo dai suoi partner occidentali, ma che non è
affatto ricevibile per i musulmani, nel senso che non
ha nessun tipo di ancoraggio all’interno di questa
comunità. Parla all’Occidente, dicendo
tutto quello che l’Occidente ha voglia di sentirsi
dire. Bassam Tibi afferma che i musulmani avranno fatto
un vero percorso evolutivo solo quando avranno eliminato
dal loro vocabolario la parola “sharia”.
Questo è secondo me sbagliato perché,
se attribuiamo alla parola sharia il significato di
percorso, di fedeltà, con il significato che
aveva originariamente, e non quello di legge, troveremo
allora un certo numero di correnti musulmane che riescono
ad aprirsi a dimensioni politiche di tipo pluralista.
Allora la riforma può solo venire dall’interno
dei riferimenti islamici, tramite la riscoperta di valori
universali, evitando l’imposizione di modelli
esterni?
Sì, in Turchia è stato imposto un modello
a colpi di dittatura militare e che oggi mostra i suoi
limiti. Sono stato molto critico nei confronti del modello
iraniano dal 1979 in poi, però sono costretto
a constatare che il dibattito che gli iraniani hanno
avviato all’interno tra i riformisti e i conservatori
ha portato in venti anni a percorsi di democratizzazione
più importanti di quanto non sia accaduto in
tutto il resto del mondo musulmano. Perché? Perché
c’è un vero dibattito che nasce dall’interno.
Possiamo essere ancora insoddisfatti, possiamo dire
che non ci siamo ancora, che ci sono ancora troppe resistenze,
che la posizione di Khamenei, al di là delle
leggi, non è assolutamente accettabile; ma contemporaneamente
dobbiamo renderci conto che tutti quei riformisti che
oggi sfidano la società fanno progredire la popolazione
e provocano un vero dibattito dall’interno che
tra dieci o venti anni avrà dato molto di più
alla rivoluzione intellettuale nel mondo musulmano di
quanto non lo abbiano fatto tante proclamazioni. D’altro
canto, il modello occidentale non è un modello
ideale, si tratta di un modello tra altri modelli. Forse
per il futuro delle nostre società sarà
necessario che altre civiltà, siano esse musulmane
o no, forniscano altri contributi.
Lei ritiene che la guerra americana all’Iraq
sia stata di aiuto a questo processo?
Assolutamente no. La guerra ha dimostrato al mondo musulmano
- e tra l’altro non solo al mondo musulmano, ma
anche a molti europei - che contro il diritto internazionale
e l’autonomia dei popoli gli americani hanno potuto
fare quello che hanno voluto, manipolando l’opinione
pubblica internazionale, parlando di armi di distruzione
di massa che non c’erano. Si è verificata
una svalutazione del discorso politico sulla scena internazionale,
con la conseguenza che il mondo musulmano non si fa
più tante illusioni, se mai gliene fossero rimaste
dopo quello che siamo costretti a vedere in Palestina.
La seconda cosa assolutamente negativa è che
la guerra, in fin dei conti, non era la cosa principale.
Dopo la guerra, come era prevedibile, ci ritroviamo
con un Iraq che diventerà una sorta di protettorato
con la funzione essenziale di proteggere gli interessi
geostrategici ed economici americani e garantire sicurezza
a Israele.
E gli aspetti positivi? C’è stata
la guerra: ma è stato evitato uno “scontro
delle civiltà”?
Per la prima volta il mondo musulmano ha capito veramente
che ci sono possibili forme di partnership, che non
si tratta di schierare l’Occidente contro l’Islam,
ma che, in fin dei conti, ci sono molti esseri umani,
uomini e donne, occidentali o non occidentali, americani
o non americani, che sono molto più vicini oggi
ad una partnership per difendere dei valori. E qui la
cosa si fa interessante, nel senso che ci si può
ritrovare su valori comuni di pluralismo e di democrazia.
Ci siamo resi conto, all’improvviso che l’Occidente
non è una cosa sola, che ci sono delle correnti
contraddittorie, che non bisogna farne una caricatura.
Se i nostri valori comuni sono il pluralismo
e la democrazia, come vede l’integrazione musulmana
in Europa?
In Francia, in Inghilterra e sempre di più anche
in Germania, ma avverrà anche in Italia, i processi
di integrazione sono già all’opera. Bisogna
smetterla di parlare per venti anni di integrazione.
Vede, ci sono delle parole che quando le si utilizzava
venti anni fa erano progressiste, mentre oggi sono scollegate
dalle loro rispettive realtà. Ci dobbiamo rendere
conto che, anche in Italia, sta emergendo una cittadinanza
italiana per donne e uomini di confessione musulmana.
Cosa vuol dire integrazione delle intimità?
Significa sentirsi psicologicamente a casa propria e
accettato come italiano e come membro di qualsiasi altra
nazionalità europea. Non ci sarà vera
presenza musulmana nelle nostre società se non
si lavora insieme al cambiamento della rappresentazione
che si ha dell’Islam. Non bisogna cadere nel vittimismo.
I principali responsabili di questa situazione sono
gli stessi musulmani, ed è questo il motivo per
cui debbono prendere la parola, debbono esprimersi,
essere presenti nel dibattito sociale e politico, per
far capire che sono cittadini come gli altri, che vogliono
partecipare, che hanno gli stessi valori degli altri,
che i loro valori non sono minoritari. È necessario
poi sviluppare partnership di base. Non delle associazioni
musulmane, che parlano solo dell’Islam o che si
occupano solo dei musulmani, ma con le persone, associazioni
e organizzazioni che lavorano sulla difesa dei diritti
di tutti, musulmani e non.
Questa intervista a Tariq Ramadan è tratta
dal libro Lumi dell’Islam. Nove intellettuali
musulmani parlano di libertà, di
Nina zu Fürstenber, Marsilio – I libri di
Reset, pagg. 125, euro 7,50.
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