L’Asia
ha un buco nero quanto a democrazia, un gigantesco buco
nero, la Cina, la superpotenza nascente retta tuttora
dalla dittatura del partito unico, ma organizzata economicamente
come un grande esperimento capitalistico. Per quanto
tempo la Cina potrà rimanere fuori dal campo
democratico? Per quanto tempo Pechino potrà controllare
i giganteschi problemi sociali, economici, distributivi
senza una qualche forma di pluralismo sociale e politico?
Ne parliamo con padre Bernardo Cervellera, direttore
di www.asianews.it.
La Cina è una dittatura autoritaria retta
dal partito comunista e aperta al capitalismo. Il recente
congresso del partito ha cambiato qualcosa?
La
nuova generazione di leadership, la cosiddetta “quarta
generazione”, ha in mente alcune riforme, ovvero
un rapporto migliore con la popolazione, una maggiore
distensione nei rapporti internazionali, cambiamenti
nella struttura costituzionale. Quanto tutto questo
sia soltanto una specie di lifting, di ornamento della
faccia pubblica non si riesce ancora a comprendere.
La maggior parte di tutti noi che guardiamo con attenzione
alla Cina riteniamo che questa “quarta generazione”
abbia in effetti il desiderio di cambiare qualche cosa:
il problema è che una grande fetta del potere,
in particolare il potere militare, è ancora in
mano a Jiang Zemin, l’ex presidente, l’ex
segretario generale del partito. Jiang Zemin fa parte
di quella “vecchia guardia” che sottolinea
il valore del patriottismo cinese, del partito comunista
e della sua persona come “demiurgo” della
politica nazionale. Jaing Zemin, ricordiamo, è
tuttora il presidente della Commissione militare centrale
del partito ed era stato accolto come segretario del
partito dopo il massacro della Tienamen, come persona
più equilibrata fra l’ala “conservatrice”
e stalinista di Li Peng e l’ala “liberale”
di Zhao, l’allora segretario generale.
Ma il partito comunista che “bestia”
è? Lei stesso ha parlato di “conservatori”,
“liberali”. Quali correnti – se ci
sono – esistono nel Pcc?
Tutto è abbastanza confuso e misterioso nella
politica cinese. Non si riesce a comprendere molto:
non c’è molto dibattito trasparente nell’elite
politica. C’è però da dire che,
attraverso traverse o attraverso i rapporti personali
di qualche dirigente cinese, si riesce a capire che
ci sono toni, sottolineature, indirizzi diversi. Per
esempio si è venuta a sapere che in questa “quarta
generazione” c’è qualche esponente
di area “liberale”, l’ala del partito
che è stata bloccata con il massacro della Tienanmen.
Va detta comunque una cosa: per quante differenze ci
possano essere tra le diverse anime del partito comunista,
tutti sono d’accordo su una questione, il partito
deve avere il potere assoluto sulla società.
Su questo assioma non si discute: quindi non viene accettata
nessuna proposta di riforma politica democratica, perché
sembra sempre un attacco al potere del partito.
Ci sono però dei cambiamenti. Per esempio
recentemente la tutela della proprietà è
stata introdotta nella Costituzione.
Nella Costituzione è stato scritto che lo Stato
deve difendere non solo la proprietà pubblica
ma anche la proprietà privata. È ovviamente
una questione molto importante: lo Stato un tempo difendeva
solamente la proprietà pubblica anche perché
esisteva solamente questo tipo di proprietà.
Al tempo di Mao nessuno aveva diritto di possedere nulla.
Con Deng si è cominciato a diventare ricchi a
livello individuale, lo Stato ha mantenuto il suo carattere
socialista e quindi sottometteva la proprietà
privata ai “bisogni” pubblici. Ma questa
subordinazione al carattere pubblico ovviamente legittimava
moltissimi abusi: ora questa definizione all’interno
della Costituzione è divenuta importante per
la semplice ragione che la Cina si trova in una situazione
economica legatissima agli investimenti stranieri di
privati.
Mentre le industrie statali collassano, la ricchezza
cinese è garantita dai capitali privati e dagli
investimenti esteri. Da qui la scelta di introdurre
la tutela della proprietà privata: ma ancora
non si riesce a capire la reale portata del cambiamento
formale.
La Cina è in grandissima espansione economica.
Ma qual è la condizione della classe lavoratrice
in Cina e delle libertà sindacali?
La libertà sindacale in Cina non esiste. Ci sono
sindacati, ma si tratta di organizzazioni governative
e quindi sono emanazioni dello stesso partito comunista.
Questo significa che questi sindacati non si schierano
mai totalmente dalla parte dei lavoratori, ma cercano
comunque di salvaguardare gli interessi del partito.
E gli interessi del partito sono la stabilità
economica e politica e il potere dei membri del partito.
Inoltre, siccome molti membri del partito sono impegnati
anche come proprietari e imprenditori, ecco che fare
gli interessi del partito molto spesso significa fare
gli interessi degli imprenditori.
Esistono però lotte sindacali che sono in continua
crescita: si registrano ormai migliaia e migliaia di
scontri sindacali di cui la nostra stampa non parla
e che mostrano come la situazione del mondo operaio
in Cina sia in peggioramento. Anzi secondo qualcuno,
la condizione operaia è addirittura peggiore
adesso che durante il periodo maoista: allora al lavoratore
era garantito tutto, la casa, le medicine, la scuola
per i figli, mentre oggi non c’è più
tutto questo.
Fin qui i lavoratori dell’industria e
del settore privato. Ma la Cina è ancora un paese
molto rurale. Qual è la condizione della campagna
cinese?
Anche il mondo contadino, secondo alcuni analisti, sta
peggio oggi che durante il regime del partito nazionalista.
Lo sviluppo della Cina è avvenuto sostanzialmente
ai danni dei contadini: mentre il mondo urbano si è
organizzato con le regole del mercato libero, i rapporti
economici delle campagne, per evitare l’inflazione,
erano retti dallo statalismo. Questo ha comportato che
lo sviluppo delle città è in realtà
avvenuto a spese dei contadini.
La leadership del partito è così preoccupata
di rivolte o di contestazioni del mondo contadino che
all’ultimo congresso ha deciso di mettere in testa
all’agenda politica nazionale proprio i problemi
del mondo rurale.
Problemi del mondo contadino, sfruttamento
della classe lavoratrice, enormi squilibri demografici:
come la leadership del partito può pensare di
reggere tutto questo senza aperture politiche?
Le riforme politiche sono ancora tabù. Molti
ricercatori dei think tank vicini al partito
comunista hanno consigliato un passaggio lento di riforme
politiche. Ma la leadership del partito teme
che l’introduzione di elementi di democrazia anche
nella società porterebbe a un grande rigetto
da parte della popolazione verso il regime. Ed allora
l’unica strada che l’attuale presidente
propone è quella della “riforma interna”
del partito: riforma del partito significa una maggiore
collegialità nei processi decisionali e una limitazione
del potere della vecchia guardia, premiando i più
bravi e i più meritevoli. La nuova leadership
cerca di limitare i privilegi della nomemklatura del
partito. È di fatto una riforma di snellimento
del partito.
Rimaniamo alla società civile cinese.
Qual è la condizione della libertà religiosa?
Non esiste neppure libertà religiosa. Il partito
è di fatto stato sfiduciato da gran parte della
popolazione. Per questa ragione in Cina vi è
una grandissima ricerca religiosa: ci sono ormai circa
mezzo miliardo di cinesi che credono ad una qualche
forma di fede, ma nel partito rimane dominante la mentalità
ateistica tradizionale secondo la quale le religioni
sono l’oppio dei popoli. Ciò è frutto
in parte dell’ateismo marxista che voleva l’eliminazione
della religione; in parte della tradizione confuciana,
secondo la quale tutte le religioni devono essere strettamente
controllate dallo Stato. E infatti l’unica libertà
religiosa che c’è è quella di culto,
per la quale i riti e i culti sono legittimi, ma solamente
in luoghi decisi dal governo, con personale nominato
dal governo e secondo regole e tempi stabiliti dal governo.
È possibile che nel partito possa prevalere
in futuro una impostazione più liberale?
Secondo me serve tempo. In primo luogo, c’è
bisogno che si stabilizzi il potere della “quarta
generazione”, i cui esponenti, a iniziare dal
presidente, hanno le carte intellettuali per fare le
riforme, ma non hanno in mano il potere reale. In secondo
luogo, c’è bisogno della spinta esterna,
della spinta dell’Occidente. È possibile
che la società cinese non riesca più a
sopportare le crescenti disuguaglianze sociali ed economiche.
In tal caso c’è il serissimo rischio che
da una parte si sviluppino movimenti violenti di rivolta
e contestazione, e dall’altra parte cresca una
risposta reattiva altrettanto violenta. Alcuni sociologi
affermano che se il governo non riesce a dar voce alla
protesta sociale e non cerca di mettere mano alle crescenti
disuguaglianze, si rischierà seriamente una rivolta
ben maggiore di quella della Tienanmen.
Cosa dovrebbe fare l’Occidente?
L’Occidente dovrebbe aiutare la Cina a capire
che la democrazia e le riforme politiche sono a vantaggio
della società cinese. L’Occidente dovrebbe
avere il coraggio di testimoniare la democrazia. Invece,
o demonizza la Cina o la sfrutta: quando vado in Cina
e vedo gli occidentali che fanno affari lì mi
accorgo che, per loro, quello è il paese di Bengodi
senza sindacati e senza leggi anti-inquinamento.
Honk Kong: l’ex colonia inglese, che
ha organi rappresentativi e che ha un dibattito aperto
con Pechino proprio sul sistema politico potrebbe essere
il “virus” che infetta di democrazia la
Cina?
Questo è quello che pensa e che teme la Cina.
Hong Kong ha sempre sostenuto i movimenti democratici
in Cina; e poi Hong Kong ha una forte presenza di cristiani.
Va detto che Hong Kong chiedeva democrazia anche agli
antichi colonialisti inglesi, ma neppure Londra gli
ha concesso la piena libertà politica. Ora però
la richiesta è diventata più pressante:
l’ottanta per cento degli abitanti di Hong Kong
vuole il suffragio universale e non l’attuale
sistema di elezione corporativa, e l’elezione
popolare diretta del Governatore del territorio. Ma
la Cina teme che un esperimento di democrazia pluralista
a Hong Kong possa infettare l’intero paese: per
questo motivo proprio recentemente ha deciso che ogni
passaggio di riforma politica nell’ex colonia
inglese dipenderà dalle scelte di Pechino. Di
per sé, la decisione ha una sua logica, ma Pechino
ha preso questa strada ancora prima di ascoltare l’opinione
degli hongkonghesi. La centralità della questione
di Hong Kong è compresa dal movimento democratico
cinese e dalla leadership del partito. Il problema,
di nuovo, è l’Occidente, che vede la Cina
solamente come un gigante con il quale commerciare,
non come più di un miliardo di persone membri
dell’assemblea del mondo.
Questo articolo è un estratto dello speciale
Asia, democrazie in corso, pubblicato
nel numero 84 di Reset.
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