261 - 18.09.04


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E intanto il monolite Cina affronta l’Occidente
Padre Bernardo Cervellara con Claudio Landi


L’Asia ha un buco nero quanto a democrazia, un gigantesco buco nero, la Cina, la superpotenza nascente retta tuttora dalla dittatura del partito unico, ma organizzata economicamente come un grande esperimento capitalistico. Per quanto tempo la Cina potrà rimanere fuori dal campo democratico? Per quanto tempo Pechino potrà controllare i giganteschi problemi sociali, economici, distributivi senza una qualche forma di pluralismo sociale e politico? Ne parliamo con padre Bernardo Cervellera, direttore di www.asianews.it.

La Cina è una dittatura autoritaria retta dal partito comunista e aperta al capitalismo. Il recente congresso del partito ha cambiato qualcosa?

La nuova generazione di leadership, la cosiddetta “quarta generazione”, ha in mente alcune riforme, ovvero un rapporto migliore con la popolazione, una maggiore distensione nei rapporti internazionali, cambiamenti nella struttura costituzionale. Quanto tutto questo sia soltanto una specie di lifting, di ornamento della faccia pubblica non si riesce ancora a comprendere. La maggior parte di tutti noi che guardiamo con attenzione alla Cina riteniamo che questa “quarta generazione” abbia in effetti il desiderio di cambiare qualche cosa: il problema è che una grande fetta del potere, in particolare il potere militare, è ancora in mano a Jiang Zemin, l’ex presidente, l’ex segretario generale del partito. Jiang Zemin fa parte di quella “vecchia guardia” che sottolinea il valore del patriottismo cinese, del partito comunista e della sua persona come “demiurgo” della politica nazionale. Jaing Zemin, ricordiamo, è tuttora il presidente della Commissione militare centrale del partito ed era stato accolto come segretario del partito dopo il massacro della Tienamen, come persona più equilibrata fra l’ala “conservatrice” e stalinista di Li Peng e l’ala “liberale” di Zhao, l’allora segretario generale.

Ma il partito comunista che “bestia” è? Lei stesso ha parlato di “conservatori”, “liberali”. Quali correnti – se ci sono – esistono nel Pcc?

Tutto è abbastanza confuso e misterioso nella politica cinese. Non si riesce a comprendere molto: non c’è molto dibattito trasparente nell’elite politica. C’è però da dire che, attraverso traverse o attraverso i rapporti personali di qualche dirigente cinese, si riesce a capire che ci sono toni, sottolineature, indirizzi diversi. Per esempio si è venuta a sapere che in questa “quarta generazione” c’è qualche esponente di area “liberale”, l’ala del partito che è stata bloccata con il massacro della Tienanmen. Va detta comunque una cosa: per quante differenze ci possano essere tra le diverse anime del partito comunista, tutti sono d’accordo su una questione, il partito deve avere il potere assoluto sulla società. Su questo assioma non si discute: quindi non viene accettata nessuna proposta di riforma politica democratica, perché sembra sempre un attacco al potere del partito.

Ci sono però dei cambiamenti. Per esempio recentemente la tutela della proprietà è stata introdotta nella Costituzione.

Nella Costituzione è stato scritto che lo Stato deve difendere non solo la proprietà pubblica ma anche la proprietà privata. È ovviamente una questione molto importante: lo Stato un tempo difendeva solamente la proprietà pubblica anche perché esisteva solamente questo tipo di proprietà. Al tempo di Mao nessuno aveva diritto di possedere nulla. Con Deng si è cominciato a diventare ricchi a livello individuale, lo Stato ha mantenuto il suo carattere socialista e quindi sottometteva la proprietà privata ai “bisogni” pubblici. Ma questa subordinazione al carattere pubblico ovviamente legittimava moltissimi abusi: ora questa definizione all’interno della Costituzione è divenuta importante per la semplice ragione che la Cina si trova in una situazione economica legatissima agli investimenti stranieri di privati.

Mentre le industrie statali collassano, la ricchezza cinese è garantita dai capitali privati e dagli investimenti esteri. Da qui la scelta di introdurre la tutela della proprietà privata: ma ancora non si riesce a capire la reale portata del cambiamento formale.

La Cina è in grandissima espansione economica. Ma qual è la condizione della classe lavoratrice in Cina e delle libertà sindacali?


La libertà sindacale in Cina non esiste. Ci sono sindacati, ma si tratta di organizzazioni governative e quindi sono emanazioni dello stesso partito comunista. Questo significa che questi sindacati non si schierano mai totalmente dalla parte dei lavoratori, ma cercano comunque di salvaguardare gli interessi del partito. E gli interessi del partito sono la stabilità economica e politica e il potere dei membri del partito. Inoltre, siccome molti membri del partito sono impegnati anche come proprietari e imprenditori, ecco che fare gli interessi del partito molto spesso significa fare gli interessi degli imprenditori.
Esistono però lotte sindacali che sono in continua crescita: si registrano ormai migliaia e migliaia di scontri sindacali di cui la nostra stampa non parla e che mostrano come la situazione del mondo operaio in Cina sia in peggioramento. Anzi secondo qualcuno, la condizione operaia è addirittura peggiore adesso che durante il periodo maoista: allora al lavoratore era garantito tutto, la casa, le medicine, la scuola per i figli, mentre oggi non c’è più tutto questo.

Fin qui i lavoratori dell’industria e del settore privato. Ma la Cina è ancora un paese molto rurale. Qual è la condizione della campagna cinese?

Anche il mondo contadino, secondo alcuni analisti, sta peggio oggi che durante il regime del partito nazionalista. Lo sviluppo della Cina è avvenuto sostanzialmente ai danni dei contadini: mentre il mondo urbano si è organizzato con le regole del mercato libero, i rapporti economici delle campagne, per evitare l’inflazione, erano retti dallo statalismo. Questo ha comportato che lo sviluppo delle città è in realtà avvenuto a spese dei contadini.
La leadership del partito è così preoccupata di rivolte o di contestazioni del mondo contadino che all’ultimo congresso ha deciso di mettere in testa all’agenda politica nazionale proprio i problemi del mondo rurale.

Problemi del mondo contadino, sfruttamento della classe lavoratrice, enormi squilibri demografici: come la leadership del partito può pensare di reggere tutto questo senza aperture politiche?

Le riforme politiche sono ancora tabù. Molti ricercatori dei think tank vicini al partito comunista hanno consigliato un passaggio lento di riforme politiche. Ma la leadership del partito teme che l’introduzione di elementi di democrazia anche nella società porterebbe a un grande rigetto da parte della popolazione verso il regime. Ed allora l’unica strada che l’attuale presidente propone è quella della “riforma interna” del partito: riforma del partito significa una maggiore collegialità nei processi decisionali e una limitazione del potere della vecchia guardia, premiando i più bravi e i più meritevoli. La nuova leadership cerca di limitare i privilegi della nomemklatura del partito. È di fatto una riforma di snellimento del partito.

Rimaniamo alla società civile cinese. Qual è la condizione della libertà religiosa?

Non esiste neppure libertà religiosa. Il partito è di fatto stato sfiduciato da gran parte della popolazione. Per questa ragione in Cina vi è una grandissima ricerca religiosa: ci sono ormai circa mezzo miliardo di cinesi che credono ad una qualche forma di fede, ma nel partito rimane dominante la mentalità ateistica tradizionale secondo la quale le religioni sono l’oppio dei popoli. Ciò è frutto in parte dell’ateismo marxista che voleva l’eliminazione della religione; in parte della tradizione confuciana, secondo la quale tutte le religioni devono essere strettamente controllate dallo Stato. E infatti l’unica libertà religiosa che c’è è quella di culto, per la quale i riti e i culti sono legittimi, ma solamente in luoghi decisi dal governo, con personale nominato dal governo e secondo regole e tempi stabiliti dal governo.

È possibile che nel partito possa prevalere in futuro una impostazione più liberale?

Secondo me serve tempo. In primo luogo, c’è bisogno che si stabilizzi il potere della “quarta generazione”, i cui esponenti, a iniziare dal presidente, hanno le carte intellettuali per fare le riforme, ma non hanno in mano il potere reale. In secondo luogo, c’è bisogno della spinta esterna, della spinta dell’Occidente. È possibile che la società cinese non riesca più a sopportare le crescenti disuguaglianze sociali ed economiche. In tal caso c’è il serissimo rischio che da una parte si sviluppino movimenti violenti di rivolta e contestazione, e dall’altra parte cresca una risposta reattiva altrettanto violenta. Alcuni sociologi affermano che se il governo non riesce a dar voce alla protesta sociale e non cerca di mettere mano alle crescenti disuguaglianze, si rischierà seriamente una rivolta ben maggiore di quella della Tienanmen.

Cosa dovrebbe fare l’Occidente?

L’Occidente dovrebbe aiutare la Cina a capire che la democrazia e le riforme politiche sono a vantaggio della società cinese. L’Occidente dovrebbe avere il coraggio di testimoniare la democrazia. Invece, o demonizza la Cina o la sfrutta: quando vado in Cina e vedo gli occidentali che fanno affari lì mi accorgo che, per loro, quello è il paese di Bengodi senza sindacati e senza leggi anti-inquinamento.

Honk Kong: l’ex colonia inglese, che ha organi rappresentativi e che ha un dibattito aperto con Pechino proprio sul sistema politico potrebbe essere il “virus” che infetta di democrazia la Cina?

Questo è quello che pensa e che teme la Cina. Hong Kong ha sempre sostenuto i movimenti democratici in Cina; e poi Hong Kong ha una forte presenza di cristiani. Va detto che Hong Kong chiedeva democrazia anche agli antichi colonialisti inglesi, ma neppure Londra gli ha concesso la piena libertà politica. Ora però la richiesta è diventata più pressante: l’ottanta per cento degli abitanti di Hong Kong vuole il suffragio universale e non l’attuale sistema di elezione corporativa, e l’elezione popolare diretta del Governatore del territorio. Ma la Cina teme che un esperimento di democrazia pluralista a Hong Kong possa infettare l’intero paese: per questo motivo proprio recentemente ha deciso che ogni passaggio di riforma politica nell’ex colonia inglese dipenderà dalle scelte di Pechino. Di per sé, la decisione ha una sua logica, ma Pechino ha preso questa strada ancora prima di ascoltare l’opinione degli hongkonghesi. La centralità della questione di Hong Kong è compresa dal movimento democratico cinese e dalla leadership del partito. Il problema, di nuovo, è l’Occidente, che vede la Cina solamente come un gigante con il quale commerciare, non come più di un miliardo di persone membri dell’assemblea del mondo.

Questo articolo è un estratto dello speciale Asia, democrazie in corso, pubblicato nel numero 84 di Reset.

 

 

 

 

 

 

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