E’ il mestiere di raccontare il mondo. Che cosa
chiediamo a un giornalista se non di descriverci quello
che non possiamo vedere con i nostri occhi, di farci
capire quello che non riusciamo a toccare con le nostre
dirette esperienze? E allora il giornalista parte, va
a scovare la realtà e ce la mette davanti. Con
un articolo, un reportage fotografico, un filmato. A
volte questa realtà è abbastanza vicina
e a portata di mano che ricostruirla per il pubblico
può essere semplice, addirittura un lavoro di
routine. Altre volte è invece tanto nascosta,
la verità, è tanto lontana, scomoda e
violenta che il suo racconto può costare anche
la vita.
“Soltanto nel mese di agosto del 2004 sono stati
uccisi nel mondo 9 giornalisti” ci fa notare Domenico
Affinito, vice presidente della sezione italiana di
Reporters Senza Frontiere e inviato per l’agenzia
Agr. “Dal punto di vista della violazione della
libertà di informazione”, continua Affinito,
“stiamo vivendo l’anno peggiore degli ultimo
decennio, complice anche la guerra in Iraq che ha visto
la morte di 40 giornalisti in poco più di un
anno, dall’inizio del conflitto a oggi”.
E già, la libertà di andare vedere e raccontare,
la libertà riconosciuta e sancita dall’articolo
19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo
in cui si legge che “ogni individuo ha diritto
alla libertà di opinione e di espressione, incluso
il diritto di non essere molestato per la propria opinione
e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni
e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”.
Una libertà violata spesso, troppo spesso, come
testimoniano i dati raccolti da Reporters
Senza Frontiere: 36 giornalisti uccisi nel 2004
a causa del proprio mestiere, 128 imprigionati, e il
conto lievita ancora se si aggiungono assistenti al
lavoro del giornalista quali tecnici, interpreti, autisti,
guardie del corpo.
“E siamo solo a settembre”, riprende Affinito
“da qui alla fine dell’anno i numeri cambieranno
ancora e il bilancio potrebbe essere ancora più
grave di quanto non sia già ora”.
Quali sono le aree geografiche più rischiose
per il mestiere di giornalista?
Le
zone più rischiose sono il Sud-Est asiatico,
il Medio Oriente, la regione orientale dell’Africa
e la Russia. Si tratta di aree geografiche caratterizzate
da
regimi o comunque sistemi di governo non democratici.
Le uniche realtà democratiche in cui i giornalisti
rischiano la vita sono la Colombia e il Bangladesh.
Nella maggior parte dei casi, i reati contro i giornalisti
sono compiuti da persone che detengono il potere e occupano
posti istituzionali, come re, presidenti della Repubblica,
dittatori, e questo rende molto difficili poterli perseguire
per le violazioni contro l’articolo 19. Inoltre,
in queste realtà, la violazione della libertà
di stampa spesso coincide con la morte del giornalista,
mentre ci sono altre situazioni in cui la libertà
non è comunque garantita, ma le sue violazioni
non arrivano fino alla soppressione fisica del giornalista.
Cos’è che fa del giornalista un
mestiere particolarmente a rischio in determinate situazioni?
Il
giornalista cerca di raccontare i fatti e per fare questo
deve documentarsi su questioni che spesso danno fastidio
a chi detiene il potere o a centri di interesse più
o meno legale. Questa è la causa scatenante,
chi non rispetta la legge o chi ha dei traffici e degli
interessi non trasparenti non ama certo vederseli sbattuti
in prima pagina. Inizialmente si cerca di evitare che
questo succeda con minacce, censure, con la chiusura
di organi di stampa o con l’incarcerazione di
giornalisti; ma se queste misure non bastano e i giornalisti
continuano a fare il proprio mestiere, a documentarsi
e a indagare, l’esito finale è l’aggressione
o la morte.
Ci sono però situazioni diverse. A volte
i giornalisti vivono situazioni di pericolo perché
il loro lavoro rappresenta una vera e propria minaccia
a forme di interesse e di potere più o meno legale.
Altre volte invece, come in Iraq, il pericolo non viene
dal potere, ma i giornalisti sembrano le pedine di una
strategia terroristica.
L’Iraq è sicuramente un caso particolare
che però è connesso al quadro generale.
La mia esperienza di inviato nel paese iracheno mi ha
insegnato che la situazione è molto complessa:
ci sono persone che combattono perché vogliono
vedere il loro paese libero dall’Occidente, ma
c’è anche chi lo fa perché è
un criminale comune, e c’è anche chi imbraccia
le armi semplicemente perché è una persona
violenta per natura. Non dobbiamo pensare che la complessità
della realtà umana che possiamo osservare a casa
nostra non esista in altre parti del mondo. Anche in
Iraq ci sono i pazzi maniaci, le persone che amano la
violenza, i criminali comuni, gli invasati e via dicendo,
esattamente come da noi.
I rapimenti e gli assassinii operati da guerriglieri
fondamentalisti non sono allora parte di una strategia
mediatica o di comunicazione?
Forse questo è un discorso che vale per i gruppi
più politici. Ma bisogna ricordare che all’inizio
della guerra i rapimenti non colpivano i giornalisti,
che invece venivano rilasciati subito perché
si vedeva nella stampa una specie di garanzia, una sorta
di terza forza rispetto al conflitto.
Ora, però, è peggiorata la situazione
generale, è aumentato il numero dei rapimenti
e tra questi sono coinvolti anche dei giornalisti. Ma
cercare di capire chi rapisce e uccide, e per quale
motivo lo fa è molto difficile perché
la realtà è talmente frastagliata che
parlare in generale dei rapimenti e delle uccisioni
degli ostaggi come di una strategia di comunicazione
è una riduzione troppo semplicistica della complessità
irachena.
Certo il rapimento dei due giornalisti francesi, Christian
Chesnot e Georges Malbrunot, potrebbe far pensare a
una strategia mediatica, ma, se anche così fosse,
tutto fa pensare a una iniziativa suicida perché
non si tratta di giornalisti della stampa americana
di destra, conservatrice, o comunque repubblicana, sono
francesi, vengono da un paese che si è dimostrato
il solo vero antagonista europeo agli Usa in questa
guerra; in più sono moltissime le voci dal mondo
islamico - come i Fratelli Musulmani, gli Hezbollah,
Arafat, la Lega Araba e gli sciiti iracheni –
che hanno apertamente criticato questo rapimento.
In che cosa consiste l’impegno di Reporters
Senza Frontiere per la difesa della libertà di
opinione e di espressione nel mondo?
Reporters Senza Frontiere fa tre cose.
Innanzitutto cerca di accertare la verità istituendo
inchieste su episodi di violazione della libertà
grazie a colleghi amici e giornalisti che sono iscritti
o sono vicini ai nostri obiettivi e che cercano di fare
un’indagine di tipo giornalistico sul luogo per
cercare di arrivare alla verità e ricostruire
la dinamica dei fatti.
Un secondo tipo di iniziative, strettamente connesso
al primo, è utilizzare queste informazioni per
mezzo del nostro braccio legale, che è Rete
Damocle , e istituire delle pratiche presso la Corte
Penale Internazionale dell’Aia e cioè chiamare
le persone che si sono macchiate dei crimini a risponderne.
Infine Reporters Senza Frontiere ha l’impegno
di fornire assistenza legale alle famiglie dei giornalisti
e ai giornalisti stessi che vengono rapiti incarcerati,
uccisi.
Che tutele esistono per il giornalista in una
situazione pericolosa?
In teoria il giornalista è coperto da numerose
garanzie, prime tra queste gli accordi di Ginevra e
anche le garanzie della carta dei diritti del giornalista
che Reporter Senza Frontiere ha portato all’Onu,
e che è stata votata da oltre 160 stati su 191
rappresentati. Questa è la teoria, ma la pratica
è un’altra. Quando si va in una zona difficile
si hanno, concretamente, le garanzie che si riescono
ad avere pagando, con una struttura alle spalle. Ti
faccio un esempio. Se io sono inviato per una testata
giornalistica, vado in una zona di guerra ed ho a disposizione
dei soldi per pagare una guardia del corpo che mi protegga,
per spostarmi e magari prendere un aereo velocemente
se la situazione lo richiede. Chi non ha queste garanzie
ovviamente lavora in condizioni più difficili.
I free lance, ad esempio, devono confrontarsi con problemi
maggiori rispetto a quelli che può incontrare
un giornalista che ha una solida struttura alle spalle.
Per questo, ad esempio, Reporters Senza Frontiere ha
istituito per i free lance in zone di guerra un’assicurazione
sulla vita, che in genere viene pagata dalla testata
per cui lavori, che è molto. Basti pensare che
l’assicurazione per un giornalista in zona di
guerra può costare fino a duemila euro a settimana,
una cifra che un free lance non può certo permettersi;
la nostra assicurazione costa intorno ai tre euro al
giorno. Quando si va in zone di guerra poi, una grande
garanzia sta nella testa del giornalista. Il fine ultimo
di questo mestiere è quello di raccontare i fatti,
le situazioni, quindi tutto ciò che osta al racconto
non va bene. Mettersi in situazioni di rischio gratuito
o troppo elevato rispetto a quello che si deve fare
vuol dire venire meno al proprio ruolo. E’ necessario
adottare un protocollo di comportamento molto ferreo
e rispettarlo, farsi un bagaglio di conoscenze indispensabili:
chi va a raccontare una zona di guerra, ad esempio,
deve saper riconoscere una mina antiuomo nel momento
in cui questa spunta dal terreno, altrimenti si espone
a troppi rischi.
Il giornalista non è un eroe, è uno che,
scrivendo parlando fotografando filmando, deve cercare
di riportare la realtà che ha di fronte. Per
cui andando in giro bisogna stare molto attenti, evitare
le zone a rischio, informarsi molto bene sui tragitti
e sui posti che si attraversano. Ecco cosa intendo quando
dico che molte garanzie stanno nella testa nel giornalista,
intendo che è necessario adottare un protocollo
di comportamento molto ferreo e rispettarlo.
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