261 - 18.09.04


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Anno orribile per la libertà di stampa
Domenico Affinito con Mauro Buonocore


E’ il mestiere di raccontare il mondo. Che cosa chiediamo a un giornalista se non di descriverci quello che non possiamo vedere con i nostri occhi, di farci capire quello che non riusciamo a toccare con le nostre dirette esperienze? E allora il giornalista parte, va a scovare la realtà e ce la mette davanti. Con un articolo, un reportage fotografico, un filmato. A volte questa realtà è abbastanza vicina e a portata di mano che ricostruirla per il pubblico può essere semplice, addirittura un lavoro di routine. Altre volte è invece tanto nascosta, la verità, è tanto lontana, scomoda e violenta che il suo racconto può costare anche la vita.
“Soltanto nel mese di agosto del 2004 sono stati uccisi nel mondo 9 giornalisti” ci fa notare Domenico Affinito, vice presidente della sezione italiana di Reporters Senza Frontiere e inviato per l’agenzia Agr. “Dal punto di vista della violazione della libertà di informazione”, continua Affinito, “stiamo vivendo l’anno peggiore degli ultimo decennio, complice anche la guerra in Iraq che ha visto la morte di 40 giornalisti in poco più di un anno, dall’inizio del conflitto a oggi”.
E già, la libertà di andare vedere e raccontare, la libertà riconosciuta e sancita dall’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo in cui si legge che “ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”. Una libertà violata spesso, troppo spesso, come testimoniano i dati raccolti da Reporters Senza Frontiere: 36 giornalisti uccisi nel 2004 a causa del proprio mestiere, 128 imprigionati, e il conto lievita ancora se si aggiungono assistenti al lavoro del giornalista quali tecnici, interpreti, autisti, guardie del corpo.
“E siamo solo a settembre”, riprende Affinito “da qui alla fine dell’anno i numeri cambieranno ancora e il bilancio potrebbe essere ancora più grave di quanto non sia già ora”.

Quali sono le aree geografiche più rischiose per il mestiere di giornalista?

Le zone più rischiose sono il Sud-Est asiatico, il Medio Oriente, la regione orientale dell’Africa e la Russia. Si tratta di aree geografiche caratterizzate da
regimi o comunque sistemi di governo non democratici. Le uniche realtà democratiche in cui i giornalisti rischiano la vita sono la Colombia e il Bangladesh. Nella maggior parte dei casi, i reati contro i giornalisti sono compiuti da persone che detengono il potere e occupano posti istituzionali, come re, presidenti della Repubblica, dittatori, e questo rende molto difficili poterli perseguire per le violazioni contro l’articolo 19. Inoltre, in queste realtà, la violazione della libertà di stampa spesso coincide con la morte del giornalista, mentre ci sono altre situazioni in cui la libertà non è comunque garantita, ma le sue violazioni non arrivano fino alla soppressione fisica del giornalista.

Cos’è che fa del giornalista un mestiere particolarmente a rischio in determinate situazioni?

Il giornalista cerca di raccontare i fatti e per fare questo deve documentarsi su questioni che spesso danno fastidio a chi detiene il potere o a centri di interesse più o meno legale. Questa è la causa scatenante, chi non rispetta la legge o chi ha dei traffici e degli interessi non trasparenti non ama certo vederseli sbattuti in prima pagina. Inizialmente si cerca di evitare che questo succeda con minacce, censure, con la chiusura di organi di stampa o con l’incarcerazione di giornalisti; ma se queste misure non bastano e i giornalisti continuano a fare il proprio mestiere, a documentarsi e a indagare, l’esito finale è l’aggressione o la morte.

Ci sono però situazioni diverse. A volte i giornalisti vivono situazioni di pericolo perché il loro lavoro rappresenta una vera e propria minaccia a forme di interesse e di potere più o meno legale. Altre volte invece, come in Iraq, il pericolo non viene dal potere, ma i giornalisti sembrano le pedine di una strategia terroristica.

L’Iraq è sicuramente un caso particolare che però è connesso al quadro generale. La mia esperienza di inviato nel paese iracheno mi ha insegnato che la situazione è molto complessa: ci sono persone che combattono perché vogliono vedere il loro paese libero dall’Occidente, ma c’è anche chi lo fa perché è un criminale comune, e c’è anche chi imbraccia le armi semplicemente perché è una persona violenta per natura. Non dobbiamo pensare che la complessità della realtà umana che possiamo osservare a casa nostra non esista in altre parti del mondo. Anche in Iraq ci sono i pazzi maniaci, le persone che amano la violenza, i criminali comuni, gli invasati e via dicendo, esattamente come da noi.

I rapimenti e gli assassinii operati da guerriglieri fondamentalisti non sono allora parte di una strategia mediatica o di comunicazione?

Forse questo è un discorso che vale per i gruppi più politici. Ma bisogna ricordare che all’inizio della guerra i rapimenti non colpivano i giornalisti, che invece venivano rilasciati subito perché si vedeva nella stampa una specie di garanzia, una sorta di terza forza rispetto al conflitto.
Ora, però, è peggiorata la situazione generale, è aumentato il numero dei rapimenti e tra questi sono coinvolti anche dei giornalisti. Ma cercare di capire chi rapisce e uccide, e per quale motivo lo fa è molto difficile perché la realtà è talmente frastagliata che parlare in generale dei rapimenti e delle uccisioni degli ostaggi come di una strategia di comunicazione è una riduzione troppo semplicistica della complessità irachena.
Certo il rapimento dei due giornalisti francesi, Christian Chesnot e Georges Malbrunot, potrebbe far pensare a una strategia mediatica, ma, se anche così fosse, tutto fa pensare a una iniziativa suicida perché non si tratta di giornalisti della stampa americana di destra, conservatrice, o comunque repubblicana, sono francesi, vengono da un paese che si è dimostrato il solo vero antagonista europeo agli Usa in questa guerra; in più sono moltissime le voci dal mondo islamico - come i Fratelli Musulmani, gli Hezbollah, Arafat, la Lega Araba e gli sciiti iracheni – che hanno apertamente criticato questo rapimento.

In che cosa consiste l’impegno di Reporters Senza Frontiere per la difesa della libertà di opinione e di espressione nel mondo?

Reporters Senza Frontiere fa tre cose.
Innanzitutto cerca di accertare la verità istituendo inchieste su episodi di violazione della libertà grazie a colleghi amici e giornalisti che sono iscritti o sono vicini ai nostri obiettivi e che cercano di fare un’indagine di tipo giornalistico sul luogo per cercare di arrivare alla verità e ricostruire la dinamica dei fatti.
Un secondo tipo di iniziative, strettamente connesso al primo, è utilizzare queste informazioni per mezzo del nostro braccio legale, che è Rete Damocle , e istituire delle pratiche presso la Corte Penale Internazionale dell’Aia e cioè chiamare le persone che si sono macchiate dei crimini a risponderne.
Infine Reporters Senza Frontiere ha l’impegno di fornire assistenza legale alle famiglie dei giornalisti e ai giornalisti stessi che vengono rapiti incarcerati, uccisi.

Che tutele esistono per il giornalista in una situazione pericolosa?

In teoria il giornalista è coperto da numerose garanzie, prime tra queste gli accordi di Ginevra e anche le garanzie della carta dei diritti del giornalista che Reporter Senza Frontiere ha portato all’Onu, e che è stata votata da oltre 160 stati su 191 rappresentati. Questa è la teoria, ma la pratica è un’altra. Quando si va in una zona difficile si hanno, concretamente, le garanzie che si riescono ad avere pagando, con una struttura alle spalle. Ti faccio un esempio. Se io sono inviato per una testata giornalistica, vado in una zona di guerra ed ho a disposizione dei soldi per pagare una guardia del corpo che mi protegga, per spostarmi e magari prendere un aereo velocemente se la situazione lo richiede. Chi non ha queste garanzie ovviamente lavora in condizioni più difficili.
I free lance, ad esempio, devono confrontarsi con problemi maggiori rispetto a quelli che può incontrare un giornalista che ha una solida struttura alle spalle. Per questo, ad esempio, Reporters Senza Frontiere ha istituito per i free lance in zone di guerra un’assicurazione sulla vita, che in genere viene pagata dalla testata per cui lavori, che è molto. Basti pensare che l’assicurazione per un giornalista in zona di guerra può costare fino a duemila euro a settimana, una cifra che un free lance non può certo permettersi; la nostra assicurazione costa intorno ai tre euro al giorno. Quando si va in zone di guerra poi, una grande garanzia sta nella testa del giornalista. Il fine ultimo di questo mestiere è quello di raccontare i fatti, le situazioni, quindi tutto ciò che osta al racconto non va bene. Mettersi in situazioni di rischio gratuito o troppo elevato rispetto a quello che si deve fare vuol dire venire meno al proprio ruolo. E’ necessario adottare un protocollo di comportamento molto ferreo e rispettarlo, farsi un bagaglio di conoscenze indispensabili: chi va a raccontare una zona di guerra, ad esempio, deve saper riconoscere una mina antiuomo nel momento in cui questa spunta dal terreno, altrimenti si espone a troppi rischi.
Il giornalista non è un eroe, è uno che, scrivendo parlando fotografando filmando, deve cercare di riportare la realtà che ha di fronte. Per cui andando in giro bisogna stare molto attenti, evitare le zone a rischio, informarsi molto bene sui tragitti e sui posti che si attraversano. Ecco cosa intendo quando dico che molte garanzie stanno nella testa nel giornalista, intendo che è necessario adottare un protocollo di comportamento molto ferreo e rispettarlo.

 

 

 

 

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