260 - speciale agosto 2004


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Europa/Usa a confronto: due vie al progressismo
di Massimiliano Panarari


E' assai seccante ammetterlo, ma talora ci sembra di dover dare ragione al politologo Robert Kagan, il teorico per antonomasia dell’unilateralismo neoconservatore, universalmente noto per aver stigmatizzato l’irriducibile differenza e alterità tra USA ed Europa, all’insegna dello slogan secondo cui gli americani verrebbero da Marte e gli europei da Venere. Cosa che pare valere anche per le sinistre dei due continenti, responsabili di due vie alternative al progressismo, come dimostrano una volta di più due volumi giunti da poco nelle librerie italiane.
Differenze di stili, visioni del mondo, opzioni politiche concrete; in una parola, di civiltà, che permangono nel mondo globalizzato e all’indomani della chiusura dell’esperienza della Terza via, che aveva segnato, nelle intenzioni dei protagonisti, il tentativo di unificazione planetaria della sinistra riformista (ovviamente sotto l’egida anglosassone). Eppure, alla fine, come testimoniano le invocazioni piene di speranza rivolte dal centrosinistra europeo a J. F. Kerry, il candidato anti-Bush, si tratta di due progressismi bisognosi l’uno dell’altro e vogliosi, per quanto possibile, di collaborazione e integrazione.
A riproporci la dicotomia tra queste visioni intrise e nutrite di culture davvero distinte nonostante l’origine comune, sono i volumi di Paul Krugman, La deriva americana (Laterza, pp. 342, euro 18) e di Robert Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti? (Einaudi, pp. 100, euro 12).
Krugman, economista liberal di fama mondiale (docente presso alcune delle più prestigiose università USA – Yale, MIT, Stanford, e ora Princeton – si è occupato tra i primi delle dinamiche della globalizzazione e mondializzazione, oltre a essere considerato uno dei più temibili “castigamatti” dell’amministrazione Bush e delle sue scelte disastrose in materia di politica fiscale ed economica e, ancor peggio (se possibile…) di politica estera; un Michael Moore serio (ma non serioso…) dell’economia, capofila della battaglia contro l’America oscurantista dei neocon.
Ma Krugman si è fatto una notorietà internazionale anche per la sua attività di brillante columnist ed editorialista del New York Times, tramite il quale si esercita su argomenti di attualità e politica, lanciando i suoi giudizi sferzanti e le sue provocazioni sempre acute. La deriva americana è, per l’appunto, una raccolta ragionata dei suoi articoli di fondo (i quali talora appaiono in Italia su Repubblica), comprovanti la sua dimensione e il suo ruolo di “intellettuale pubblico”, come direbbe Timothy Garton Ash. Per capire come la pensa Krugman basta leggere il bell’epitaffio da lui consacrato alla memoria di James Tobin, il premio Nobel già consigliere di J. F. Kennedy che aveva inventato il keynesismo statunitense, antistatalista e a favore del libero mercato, versione differente – e come potrebbe essere altrimenti? – rispetto a quello del Vecchio continente, per avversare poi con tutte le sue forze Milton Friedman e la canea monetarista.
Nemico di quelle che battezza come “glo-balle”, critico severo della “matematica creativa”, della speculazione finanziaria e di quella “Greenspanomics” che vede il presidente della Federal Reserve tradire spesso la sua funzione istituzionale di arbitro imparziale dell’economia USA, feroce e implacabile accusatore del malcostume e della corruzione sparse a piene mani nella corporate America dalle multinazionali, cui l’ultima generazione di repubblicani al potere ha assicurato totale impunità, ma sempre “innamorato” del mercato, che necessita di maggiori checks and balances, di contrappesi e controlli: ecco chi è Paul Krugman. Insomma, la “Tradizione liberal” americana – come la chiama Bob Reich, l’economista ed ex segretario del Lavoro di Clinton – in una delle sue manifestazioni più alte.
Piuttosto differente da quel pensiero di sinistra europea – e, soprattutto, francese (l’Alterità per gli americani: vera e propria bestia nera per i conservatori, misto di eccessiva sofisticazione e malcelata ammirazione per i progressisti) – che produce figure come quella di Robert Castel. Direttore di ricerca presso quella venerabile istituzione parigina che risponde al nome di École des Hautes Études en Sciences Sociales, al tempo stesso sociologo e storico, Castel compendia nel suo denso libretto (dotato di un intenso apparato teorico che risale fino a Hobbes e Locke) le riflessioni partorite dalla cultura sociale progressista continentale sul tema dell’insicurezza. Che non è tanto materia di ingegneria del welfare in questo caso – o, meglio, non solo – ma diventa meditazione filosofico-politica (e persino esistenziale) intorno alla percezione di rischio e al senso di spaesamento e minaccia che travolge gli individui della postmodernità, riflesso di un’ideologia tardocapitalistica e neoliberistica che divide inesorabilmente il mondo in vincitori e vinti, rigettando ogni forma collettiva e comunitaria quale inutile e anacronistico retaggio del passato.
Per superare la “frustrazione sicuritaria”, come la definisce l’autore (effetto anche delle aspettative assai alte di protezione create fino ad oggi dalle nostre “società assicuranti”), diventa urgente contrastare la precarietà del lavoro addomesticando il mercato, e rilanciare quel nesso inestricabile tra Stato di diritto e Stato sociale che fonda il modello sociale europeo – e, in definitiva, la sua civiltà, rispetto alla quale il Nuovo mondo ha deciso di percorrere strade in parte alternative. L’obiettivo coincide con la realizzazione della “società dei simili”, dice Castel riprendendo il lessico del solidarismo della Terza Repubblica francese. Una società edificata sull’idea e sulla pratica della cittadinanza sociale che è compito delle istanze pubbliche – in tutte le loro espressioni: locali, nazionali e, oggi sempre più, transnazionali – promuovere. Ecco qui la differenza fondamentale tra i progressismi dei due continenti – e, più in generale, tra le loro culture: il rapporto tra l’individuo, le comunità intermedie e lo Stato (o ciò che lo sostituirà); e il ruolo del lavoro nel mercato. E, come direbbe qualcuno, scusate se è poco…
Ma esiste anche una “terza via” rispetto ai due punti di vista esposti? Forse sì. Probabilmente, infatti, è proprio così che potremmo definire l’angolazione secondo la quale il celebre sociologo americano Richard Sennett guarda il tema della disuguaglianza, a partire da una categoria molto esistenziale e pragmatica al tempo stesso e, dunque, per continuare nel “gioco degli specchi” tra le due sponde dell’Atlantico (e dell’Occidente), contemporaneamente “europea” ed americana. Ossia il Rispetto, titolo del suo ultimo libro apparso in italiano (sottotitolo: La dignità umana in un mondo di diseguali, Mulino, pp. 265, euro 15,50), nel quale Sennett porta a compimento una ricerca sociologica narrativa e soggettivo-riflessiva, che parte dalla propria esperienza autobiografica giovanile in un quartiere povero di Chicago per indagare sull’emarginazione e sulla mancanza di eguaglianza. E per elaborare una teoria sociale e individuare una ricetta politica di “Welfare liberato” che partono dall’assunto psicologico (e dal vissuto individuale, emozionale e morale) di chi è o diventa oggetto di assistenza: non un perdente oggetto di carità e compassione, ma un soggetto a pieno titolo da coinvolgere nell’erogazione del servizio del quale risulta il destinatario. Un’ipotesi di riformulazione delle politiche sociali che ha tutte le sembianze, e il sapore, di un perfetto mix euroamericano.

 


 

 

 

 

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