E' assai seccante ammetterlo, ma talora ci sembra di
dover dare ragione al politologo Robert Kagan, il teorico
per antonomasia dell’unilateralismo neoconservatore,
universalmente noto per aver stigmatizzato l’irriducibile
differenza e alterità tra USA ed Europa, all’insegna
dello slogan secondo cui gli americani verrebbero da
Marte e gli europei da Venere. Cosa che pare valere
anche per le sinistre dei due continenti, responsabili
di due vie alternative al progressismo, come dimostrano
una volta di più due volumi giunti da poco nelle
librerie italiane.
Differenze di stili, visioni del mondo, opzioni politiche
concrete; in una parola, di civiltà, che permangono
nel mondo globalizzato e all’indomani della chiusura
dell’esperienza della Terza via, che aveva segnato,
nelle intenzioni dei protagonisti, il tentativo di unificazione
planetaria della sinistra riformista (ovviamente sotto
l’egida anglosassone). Eppure, alla fine, come
testimoniano le invocazioni piene di speranza rivolte
dal centrosinistra europeo a J. F. Kerry, il candidato
anti-Bush, si tratta di due progressismi bisognosi l’uno
dell’altro e vogliosi, per quanto possibile, di
collaborazione e integrazione.
A riproporci la dicotomia tra queste visioni intrise
e nutrite di culture davvero distinte nonostante l’origine
comune, sono i volumi di Paul Krugman, La deriva
americana (Laterza, pp. 342, euro 18) e di Robert
Castel, L’insicurezza sociale. Che
significa essere protetti? (Einaudi, pp. 100, euro
12).
Krugman,
economista liberal di fama mondiale (docente
presso alcune delle più prestigiose università
USA – Yale, MIT, Stanford, e ora Princeton –
si è occupato tra i primi delle dinamiche della
globalizzazione e mondializzazione, oltre a essere considerato
uno dei più temibili “castigamatti”
dell’amministrazione Bush e delle sue scelte disastrose
in materia di politica fiscale ed economica e, ancor
peggio (se possibile…) di politica estera; un
Michael Moore serio (ma non serioso…) dell’economia,
capofila della battaglia contro l’America oscurantista
dei neocon.
Ma Krugman si è fatto una notorietà internazionale
anche per la sua attività di brillante columnist
ed editorialista del New York Times, tramite
il quale si esercita su argomenti di attualità
e politica, lanciando i suoi giudizi sferzanti e le
sue provocazioni sempre acute. La deriva americana
è, per l’appunto, una raccolta ragionata
dei suoi articoli di fondo (i quali talora appaiono
in Italia su Repubblica), comprovanti la sua
dimensione e il suo ruolo di “intellettuale pubblico”,
come direbbe Timothy Garton Ash. Per capire come la
pensa Krugman basta leggere il bell’epitaffio
da lui consacrato alla memoria di James Tobin, il premio
Nobel già consigliere di J. F. Kennedy che aveva
inventato il keynesismo statunitense, antistatalista
e a favore del libero mercato, versione differente –
e come potrebbe essere altrimenti? – rispetto
a quello del Vecchio continente, per avversare poi con
tutte le sue forze Milton Friedman e la canea monetarista.
Nemico
di quelle che battezza come “glo-balle”,
critico severo della “matematica creativa”,
della speculazione finanziaria e di quella “Greenspanomics”
che vede il presidente della Federal Reserve tradire
spesso la sua funzione istituzionale di arbitro imparziale
dell’economia USA, feroce e implacabile accusatore
del malcostume e della corruzione sparse a piene mani
nella corporate America dalle multinazionali,
cui l’ultima generazione di repubblicani al potere
ha assicurato totale impunità, ma sempre “innamorato”
del mercato, che necessita di maggiori checks and
balances, di contrappesi e controlli: ecco chi
è Paul Krugman. Insomma, la “Tradizione
liberal” americana – come la chiama
Bob Reich, l’economista ed ex segretario del Lavoro
di Clinton – in una delle sue manifestazioni più
alte.
Piuttosto differente da quel pensiero di sinistra europea
– e, soprattutto, francese (l’Alterità
per gli americani: vera e propria bestia nera per i
conservatori, misto di eccessiva sofisticazione e malcelata
ammirazione per i progressisti) – che produce
figure come quella di Robert Castel. Direttore di ricerca
presso quella venerabile istituzione parigina che risponde
al nome di École des Hautes Études
en Sciences Sociales, al tempo stesso sociologo
e storico, Castel compendia nel suo denso libretto (dotato
di un intenso apparato teorico che risale fino a Hobbes
e Locke) le riflessioni partorite dalla cultura sociale
progressista continentale sul tema dell’insicurezza.
Che non è tanto materia di ingegneria del welfare
in questo caso – o, meglio, non solo – ma
diventa meditazione filosofico-politica (e persino esistenziale)
intorno alla percezione di rischio e al senso di spaesamento
e minaccia che travolge gli individui della postmodernità,
riflesso di un’ideologia tardocapitalistica e
neoliberistica che divide inesorabilmente il mondo in
vincitori e vinti, rigettando ogni forma collettiva
e comunitaria quale inutile e anacronistico retaggio
del passato.
Per superare la “frustrazione sicuritaria”,
come la definisce l’autore (effetto anche delle
aspettative assai alte di protezione create fino ad
oggi dalle nostre “società assicuranti”),
diventa urgente contrastare la precarietà del
lavoro addomesticando il mercato, e rilanciare quel
nesso inestricabile tra Stato di diritto e Stato sociale
che fonda il modello sociale europeo – e, in definitiva,
la sua civiltà, rispetto alla quale il Nuovo
mondo ha deciso di percorrere strade in parte alternative.
L’obiettivo coincide con la realizzazione della
“società dei simili”, dice Castel
riprendendo il lessico del solidarismo della Terza Repubblica
francese. Una società edificata sull’idea
e sulla pratica della cittadinanza sociale che è
compito delle istanze pubbliche – in tutte le
loro espressioni: locali, nazionali e, oggi sempre più,
transnazionali – promuovere. Ecco qui la differenza
fondamentale tra i progressismi dei due continenti –
e, più in generale, tra le loro culture: il rapporto
tra l’individuo, le comunità intermedie
e lo Stato (o ciò che lo sostituirà);
e il ruolo del lavoro nel mercato. E, come direbbe qualcuno,
scusate se è poco…
Ma esiste anche una “terza via” rispetto
ai due punti di vista esposti? Forse sì. Probabilmente,
infatti, è proprio così che potremmo definire
l’angolazione secondo la quale il celebre sociologo
americano Richard Sennett guarda il tema della disuguaglianza,
a partire da una categoria molto esistenziale e pragmatica
al tempo stesso e, dunque, per continuare nel “gioco
degli specchi” tra le due sponde dell’Atlantico
(e dell’Occidente), contemporaneamente “europea”
ed americana. Ossia il Rispetto, titolo del suo ultimo
libro apparso in italiano (sottotitolo: La dignità
umana in un mondo di diseguali, Mulino, pp. 265,
euro 15,50), nel quale Sennett porta a compimento una
ricerca sociologica narrativa e soggettivo-riflessiva,
che parte dalla propria esperienza autobiografica giovanile
in un quartiere povero di Chicago per indagare sull’emarginazione
e sulla mancanza di eguaglianza. E per elaborare una
teoria sociale e individuare una ricetta politica di
“Welfare liberato” che partono dall’assunto
psicologico (e dal vissuto individuale, emozionale e
morale) di chi è o diventa oggetto di assistenza:
non un perdente oggetto di carità e compassione,
ma un soggetto a pieno titolo da coinvolgere nell’erogazione
del servizio del quale risulta il destinatario. Un’ipotesi
di riformulazione delle politiche sociali che ha tutte
le sembianze, e il sapore, di un perfetto mix euroamericano.
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