
In
una Soirée Strawinsky, la Scala ha riproposto
quest'anno
The Cage, balletto di Jerome Robbins
su musica del Concerto in re per archi, rappresentato
per la prima volta il 14 giugno 1951. "In Europa",
scriveva Tim Sholl nel programma di sala, "l'opera
fu accolta in modo più diversificato allorché
il balletto divenne parte del tentativo operato dal
Dipartimento di Stato degli Stati Uniti (leggasi Cia)
di influenzare l'Europa dell'Ovest e dell'Est con una
dimostrazione di libertà nell'arte nazionale,
proprio negli anni più caldi al culmine della
guerra fredda.
The Cage ebbe la sua accoglienza
più calorosa in Italia (
) la Spagna non
volle mettere in scena il lavoro e i Paesi Bassi riuscirono
quasi a bandirlo". Era indubbiamente anche quella
una manifestazione di anti-americanismo: se pure un
anti-americanismo molto diverso da quello a cui va la
nostra mente quando ne parliamo oggi. Eppure anche di
quello si deve tener conto se si vuole cogliere il concetto
in modo da contenerne tutte le implicazioni senza sfumarne
i contorni.
Nenni, Al Quaeda, Gino Strada, i mille volti degli
anti-Usa.

Noi
abbiamo passato la massima parte della nostra vita in
presenza del comunismo, anni in cui l'America è
stata il baluardo, militare e ideologico, della lotta
contro il comunismo stesso. In quegli anni, l'anti-americano
era il comunista. Oggi la minaccia è rappresentata
dal terrorismo, e la guerra al terrorismo terrà
il posto di quella che è stata per mezzo secolo
la guerra al comunismo. In che misura l'anti-americanismo
durante la guerra fredda è diverso dall'anti-americanismo
all'epoca di Al Qaeda? Pietro Nenni che prendeva il
Premio Lenin per la Pace in che cosa differisce da Gino
Strada e da Luca Casarini? Che differenza c'è
tra le marce contro l'installazione degli euromissili
e quelle contro la presenza in Irak? Tra la demonizzazione
di Reagan e l'odio per Bush?
Gli Usa sono parte dell'Occidente. Ma l'anti-americanismo
è parte integrante dell'anti-occidentalismo,
oppure è possibile essere anti-americani e
non anti-occidentali? E' possibile sentirsi profondamente,
radicalmente partecipi della migliore parte della
storia e della tradizione dell'Occidente (non dunque
delle sue degenerazioni) e sentirsi anti-americani?
In Occidentalism Ian Buruma e Avishai Margalit
analizzano come l'Occidente è visto da chi
gli è estraneo, sia che lo ammiri e voglia
imitarlo, sia che lo rifiuti e voglia bandirlo. Dal
"Komfortismus" di Sombart, al "Volksgeist"
di Herder, dai giapponesi nella seconda guerra mondiale,
agli slavofili infatuati di Shelling, molti sono gli
anti-occidentalismi precedenti quello di Osama. Pangermanesimo
e panarabismo esibiscono impressionanti analogie.
Per tutti "il diretto nemico degli occidentali
non è sempre tanto l'Occidente stesso quanto
coloro che intendono diffonderlo nelle loro società".
L'anti-occidentalismo precede di gran lunga sia l'anti-americanismo
sia il terrorismo. Qual è lo specifico dell'anti-occidentalismo
oggi?
Piccoli dettagli di una fotografia molto grande.
Osama chiama sempre i propri nemici "crociati
sionisti" e questo apre un altro interrogativo:
quello della relazione che intercorre tra anti-americanismo
e anti-semitismo.
L'anti-occidentalismo si identifica totalmente e senza
scarti con l'anti-capitalismo? A prima vista si direbbe
di sì, ma mi resta qualche dubbio anche perché
l'occidentalismo mi sembra un concetto più
ampio, più ricco, di quello di capitalismo.
Credo che l'anti-americanismo possa essere compreso
solo all'interno di un quadro storico e filosofico,
di cui ho cercato di individuare alcune zone di confine.
Ma parlando dell'anti-americanismo di questi giorni,
quello esploso con la guerra in Irak, quello che si
esprime nelle manifestazioni popolari e perfino nel
voto alle elezioni europee, bisogna essere consapevoli
che stiamo guardando un piccolo dettaglio di una fotografia
assai più ampia. L'ipotesi che - come in un
frattale - il dettaglio rifletta la struttura di un
fenomeno storico e filosofico così complesso,
ha molta probabilità di essere sbagliata.
Penso sia utile considerare l'anti-americanismo non
isolatamente, ma come vertice di un triangolo i cui
altri due vertici sono l'anti-occidentalismo da un
lato e "l'anti-bushismo" dall'altro. Nello
spazio così definito, mi sembra di poter individuare
tre varietà di anti-americanismo.
Gli orfani del comunismo.
La prima varietà è rappresentata da
coloro che si ritrovano in tutti e tre i vertici del
triangolo: sono infatti sia anti-americani sia anti-occidentali
sia anti-bushisti. Sono sostanzialmente gli orfani
del comunismo, persuasi che il capitalismo sia destinato
alla sconfitta, al fallimento, (a questo proposito
A. Glucksmann ricorda come gli orfani del comunismo
alimentino il terrorismo mondiale con armi, uomini
e ideologie, come la teoria del crollo). Basta leggere
gli scritti di Asor Rosa o i proclami dei no global
arrabbiati, gli scritti dei vecchi liberal americani
alla Chomsky o alla Gore Vidal. Mi sembra abbastanza
normale che una grande società aperta produca
simili opinioni e simili manifestazioni, e credo che
le possa anche gestire senza eccessive preoccupazioni.
Ma c'è un aspetto politico che non si può
far finta di non vedere. L'eredità di questi
"orfani" é esplicitamente rivendicata
nel nome e nell'identità di buona parte di
quel 13% a sinistra dei Ds. Il loro anti-americanismo
é la faccia di un sostanziale anti-capitalismo,
appena aggiornato dall'evidenza dei fatti, e che quotidianamente
si esprime nell'attacco al Washington consensus, alla
liberalizzazione finanziaria, alla globalizzazione.
Per i riformisti eredi di Kautsky nella Seconda Internazionale,
messi alla berlina da Lenin in quanto veri colpevoli
di non aver avuto né l'energia né la
fede per capire che il capitalismo "marcisce",
per farsi carico della sua successione e instaurare
il comunismo a qualunque prezzo, proprio questo anti-americanismo
rappresenta quello con cui la guerra ideale e politica
sin da allora sarà senza esclusione di colpi.
Macintosh, non Windows.
La seconda varietà è rappresentata da
coloro che sono anti-bushisti, ma non sono anti-occidentali
e non si ritengono anti-americani. Il punto è
che quella a cui pensano è la loro America,
e neppure li sfiora il dubbio che questa America sia
diversa da quella della realtà, e che il loro
americanismo virtuale nasconda un anti-americanismo
sostanziale. Ad esempio, negli scritti su Kennedy
ripubblicati da Furio Colombo, la deformazione della
realtà sta non solo nella prefazione apposta
all'edizione 2004, ma era già tutta contenuta
negli scritti originali del 1963-64. Il loro anti-bushismo
è talmente appassionato e viscerale, che si
rivolge contro tutta l'America che non sia quella
delle università di Boston, dei salotti liberal
di New York o dei movimenti libertari della West Coast.
Sognano l'America, ma senza il darwinismo sociale,
con sindacati potenti, senza la pena di morte, senza
il diritto a possedere armi, senza multinazionali:
un'America il cui sistema operativo sia Macintosh
e non Windows. Un'America wilsoniana, aggiornata al
mito onusiano. Sono i portatori sani dell'anti-americanismo.
Un presidente per trattare.
Accanto agli anti-americani per idealismo, ci sono
quelli che lo sono per realismo. Non sono anti-occidentali,
non sono anti-Bush: sono gli eredi della Francia gollista
che esce dalla Nato, che costruisce la propria difesa
nucleare da sola e si dà una strategia tous
azimuts, che si contrappone all'America in base a
ragioni di Realpolitik, coerentemente con una visione
in cui i rapporti internazionali sono rapporti tra
grandi potenze, stati sovrani, magari uniti da alleanze
purché non comportino cessioni di sovranità.
Per gli anti-americani per idealismo i rapporti internazionali
sono multilaterali, garantiti da organismi come l'Unione
Europea, l'Onu: in attesa di un autentico governo
mondiale. Gli anti-americani idealisti si identificano
con un modello di America che si sono creati ad hoc;
i realisti contrappongono il proprio modello a quello
Usa. Per quelli la cacciata di Bush è l'obbiettivo
prioritario e irrinunciabile; questi desiderano solo
un presidente Usa più debole con cui trattare
in condizioni più vantaggiose.
Se l'Europa vuole stare da sola.
A queste tre tipizzazioni di anti-americanismo corrispondono
posizioni che si divaricano radicalmente quanto a
natura del terrorismo e strategia per batterlo. Per
gli anti-americanisti del primo tipo questo non è
un problema: per loro il terrorismo è la giusta
punizione degli Usa per i delitti commessi, di cui
l'11 settembre è stato solo il primo esempio.
Gli anti-americanisti per idealismo e quelli per realismo
hanno concezioni profondamente diverse della natura
del fenomeno terrorismo - e quindi del modo di combatterlo
- e del futuro delle nostre società in presenza
della minaccia che esso rappresenta. Gli idealisti
non parlano di colpe e di punizioni, ma di cause e
rimedi: per loro il terrorismo è il prodotto
della disuguaglianza tra il nord e il sud del mondo,
della povertà e dell'irrisolto problema palestinese.
E si spingono a mettere sullo stesso piano la guerra
terrorista e quella anti-terrorista (come ha fatto
Eugenio Scalfari su "Repubblica" di sabato
12 Giugno).
Per i realisti il terrorismo è un pericolo
che può essere scansato, con il quale al limite
ci si può accordare, quasi che fosse anch'esso
uno Stato capace di stipulare contratti. Se colpisce,
come in Spagna, si deve immediatamente chiudere la
partita, accettando di considerare l'11 marzo come
la "giusta" punizione per avere inviato
le truppe in Irak.
Spirito di Monaco? Sì, nel senso di cercare
un appeasement. Di evitare di confrontarsi con l'avversario
fin dall'inizio. No, nel senso che la visione strategica
è completamente diversa. L'Europa di Chirac
e di Schroeder non disconosce la minaccia, ma si chiama
fuori. L'"ohne mich" di Schroeder svela,
della strategia europea, assai più di ciò
che Dominique de Villepin vorrebbe nobilitare con
la sua retorica.
Questa è un'Europa isolazionista, che si vorrebbe
chiusa in una fortezza (senza pagare il prezzo di
approntarne le difese), una sorta di Svizzera mondiale,
buona tutt'al più per essere la sede di una
sorta di Croce Rossa planetaria. Un'Europa assai poco
comunitaria, retta da un direttorio, protezionista,
che punta sui propri campioni nazionali per avere
un ruolo nella competizione internazionale. Invece
gli idealisti innamorati dei loro sogni, gli pseudo-americanisti
e pseudo liberisti, inseguono una terza varietà
di capitalismo oltre a quello anglosassone e quello
renano, un capitalismo danubiano che pensa di sopravvivere
con l'outsourcing a Timisoara.
Tra liberalismo e totalitarismo
Bisogna ricuperare l'unità dell'Occidente:
questo é il modo per superare lo spirito di
Monaco e per vincere il terrorismo. Come la Nato e
lo sviluppo capitalistico sono state le armi che hanno
sconfitto il comunismo, così sarà una
combinazione dell'uso della forza e degli strumenti
dello sviluppo a vincere il terrorismo.
Il primo pensiero che mi venne, mentre alla tv giravano
ossessivamente le immagini degli aerei che si schiantavano
contro le torri gemelle, era stato che, da quel momento,
sarebbe diminuita la nostra libertà. Allora
pensavo alla nostra libertà di muoverci, di
avere commercio col mondo, sentendoci ragionevolmente
sicuri. Ma assai peggiore è il pericolo di
perdere, nella guerra al terrorismo, i principi delle
nostre società liberali. Qui sta la sostanziale
differenza tra il tempo della guerra fredda e quello
di Al Qaeda. E questa é la differenza che gli
anti-americanisti, soprattutto gli anti-americanisti
europei, tendono a dimenticare. Vale a dire che il
vero conflitto in atto nel mondo contemporaneo non
è quello tra Occidente e Oriente, o tra Cristianesimo
e Islam, ma quello tra due dinamiche nate all'interno
dell'Occidente medesimo: liberalismo e totalitarismo.
un sistema di differenze.
La guerra non è una crociata del bene, un'operazione
al servizio dell'assoluto, come troppo spesso recita
certa retorica dell'amministrazione americana: non
esistono guerre giuste, ma non per questo tutte le
guerre si equivalgono, dal momento che alcune di esse
possono rivelarsi esistenzialmente necessarie, in
un'ipotetica "scala del peggio". La civilizzazione
non può essere pensata come qualcosa di statico,
come una conquista duratura, se non al prezzo di legittimare
il colonialismo e lo scontro di civiltà. La
civilizzazione va pensata piuttosto in un'accezione
dinamica, come un'azione costante che si opponga alle
forze che rischiano di distruggerla, minandola dall'interno.
Parimenti, una civiltà e una cultura non si
definiscono sulla base di un'unità monolitica,
o ancor peggio mitica, ma richiamano ciò che
Ferdinand de Saussure definiva un "sistema di
differenze": un insieme di ibridazioni che rifiuta
qualsivoglia chiusura di stampo naturalistico o nazionalistico.
"Mentre ci raccogliamo attorno alla bandiera
della tradizione occidentale", scrive Leo Strauss
in Gerusalemme e Atene, "guardiamoci dal
pericolo di venire costretti, per fascino o per tirannia,
a un conformismo che ne rappresenterebbe la fine ingloriosa".
Questo articolo è l'intervento tenuto da
Franco Debenedetti all'incontro "Il nuovo spirito
di Monaco in Europa", organizzato dalla Fondazione
Magna Charta e Il Riformista a Roma il 18 Giugno 2004.
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