
«Non
c'è niente di male a mettere in discussione l'identità
occidentale». Detto da un cittadino indiano all'indomani
dell'insurrezione contro Sonia Gandhi potrebbe suonare
sinistro. Eppure Dipesh Chakrabarty, professore di storia
e studi dell'Asia del sud all'Università di Chicago,
avrebbe considerato con favore l'ascesa dell'"italiana"
alla guida del subcontinente asiatico. Quella scelta,
ci spiega, avrebbe insegnato a molti indiani ad essere
meno razzisti.
Nel suo ultimo libro, appena pubblicato in Italia,
Provincializzare
l'Europa (Meltemi, 2004, pagg. 365, euro 27), Chakrabarty
si occupa molto del rapporto tra l'identità europea
e occidentale, con la sua lunga tradizione, e il sistema
di valori di altre culture, in particolare quella indiana.
L'esponente di punta dei cosiddetti
Subaltern studies
aggredisce il tema della centralità della cultura
e dei valori occidentali dal punto di un Paese ex coloniale
come l'India. Non per cancellarli, né per sostituirli.
Piuttosto per "provincializzarli".
Professor Chakrabarty, cosa intende con l'espressione
"provincializzare" l'Europa?
Significa riconoscere che l'Europa è al tempo
stesso universale e particolare. L'atto di "provincializzare",
secondo me, non è un atto di rifiuto, ma il
riconoscimento del fatto che l'universalismo non può
completamente trascendere le sue origini storiche,
particolari (e per questo provinciali). Non si tratta
dunque di un argomento contro le idee universali in
quanto tali.
Nel
suo libro si rivolge agli abitanti di Paesi ex coloniali
come l'India e non direttamente agli occidentali.
Sono i suoi connazionali che devono considerare l'Europa
e i suoi valori come relativi ad un contesto particolare?
Beh, è vero che io ho scritto dall'interno
di un gruppo sociale che è il prodotto di un
dominio coloniale e al tempo stesso da uno che è
ispirato da molti elementi della modernità
europea: scienza, ragione, idee sull'uguaglianza e
diritti umani, sulla democrazia, la cittadinanza e
così via.
Ma l'affermazione generale – la contestualizzazione
dei valori europei – dovrebbe applicarsi anche
ai modi nei quali solo alcune parti dell'Europa hanno
storicamente affermato di essere la "reale"
e "vera" Europa. Spero che il libro che
ho scritto abbia qualcosa da dire anche sul dibattito
interno all'Europa su quale sia il significato di
"Europa".
Lei parla di un ridimensionamento del ruolo
del Vecchio Continente. Non crede che un'Europa più
forte possa bilanciare l'unica superpotenza rimasta,
gli Stati Uniti?
Penso che un mondo multipolare nel quale tutti diventiamo
cosmopoliti senza proclamare nessun posto come centro
sarebbe buono per la diversità culturale e
storica. E' vero, un'Europa più forte bilancerebbe
il potere degli Stati Uniti. Ma la domanda è:
"attraverso un'Europa più forte",
è da intendersi anche un'Europa più
democratica, un’Europa che considererebbe rifugiati,
immigrati extracomunitari, coloro che chiedono asilo
come suoi cittadini?
Crede che l'"indebolimento" dell'universalismo
illuministico europeo possa minare valori condivisi
come diritti umani, uguaglianza, giustizia, pensiero
critico?
L'"indebolimento" accade comunque nella
storia. Più questi concetti diventano di uso
comune, più perdono la loro coerenza concettuale.
Ma questa popolarità non è una cattiva
cosa. Permette differenti tipi di atti democratici
in differenti contesti. Allo stesso tempo, comunque,
credo che sia dovere degli intellettuali di impegnarsi
su questi concetti popolari per restituire ad essi
almeno un po' della "forza" del loro significato
per non scivolare nel pantano del relativismo.
In Italia, in questi giorni, filosofi come
Nietzsche, Heidegger, Derrida, Vattimo sono attaccati
e definiti "cattivi maestri" che mettono
in pericolo l'identità dell'Occidente. Lei
che ne pensa del cosiddetto "postmodernismo"?
Non esiste una cosa chiamata "postmodernismo".
Molte cose stupide vengono dette in suo nome. Ma io
penso che l'onda postmodernista registri dei cambiamenti
fondamentali nel mondo occidentale: una messa in discussione
delle "metanarrazioni" che hanno precedentemente
permesso ad alcune potenze europee di dominare il
mondo. E' stato come un’elaborazione interiore
dell'Occidente rispetto al proprio passato imperiale.
Uno degli strumenti teorici che più
utilizza nel suo libro è il pensiero di Karl
Marx. Dopo la caduta del Muro di Berlino e dell'impero
sovietico è possibile considerarlo ancora uno
strumento attuale per comprendere il nostro mondo?
C'è molto di datato nel suo pensiero, ma Marx
continua comunque a darci una delle più coerenti
e sistematiche critiche del capitalismo. Ma che è
spesso anche il suo problema, raramente infatti il
capitalismo della storia e quello attuale hanno la
coerenza che Marx attribuì alla sua categoria
di "capitale".
Lei da una parte, afferma che l'universalismo
occidentale è arrivato al capolinea. Dall'altra,
riconosce che è impossibile saltare fuori quella
tradizione e adottare un ingenuo relativismo culturale.
Qual è la sua "terza via"?
La mia "terza via", se ce ne è una,
è di mantenere una doppia visione: prendere
dall'Occidente che è indispensabile ma anche
essere sempre consapevoli delle sue inadeguatezze.
Qualche mese fa, nello stilare i principi
fondamentali della costituzione europea ci fu una
battaglia tra coloro che ritenevano fondamentali i
valori illuministici e coloro che credevano imprescindibili
quelli cristiani. Ai suoi occhi, cosa rappresenta
quello scontro?
Molto del pensiero politico occidentale ha origini
teologiche e cristiane. E questa cosa non mi disturba.
Anzi, penso che sia una buona cosa conoscere queste
origini. Sono diventato consapevole di come e in molti
modi differenti la cristianità è anche
parte della mia eredità, anche se io non sono
un cristiano (né un hindu credente).
L'India è un Paese all'avanguardia
nella ricerca tecnologica e scientifica. Alla fine
del suo libro lei mostra come alcuni scienziati indiani
– Ramanujan e Raman – partecipano tanto
alla visone del mondo razionalista occidentale quanto
a quella arcaica e tradizionale. Come spiega questa
capacità di vivere in entrambe le culture,
impossibile nei Paesi occidentali?
Il motivo è la collocazione culturale della
scienza che varia a seconda delle tradizioni mentre
gli scienziati, in quanto tali, spesso s'impegnano
nelle stesse (o simili) pratiche di ricerca in tutto
il mondo. Un amico australiano una volta mi disse
che gli aborigeni moderni considerano la scienza come
una serie di tecniche e procedure di conoscenza e
non come una prospettiva generale. Penso che le due
figure indiane che ha menzionato hanno una posizione
in qualche modo simile.
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