L'India
cambia pagina e ritrova sulla sua strada il Partito
del Congresso, il movimento nazionalista e democratico
che dette al subcontinente, l'indipendenza e il pluralismo
politico e sociale. Con il “lungo voto”
di aprile e maggio (quattro fasi di esercizio del diritto
politico fondamentale da parte di 370 milioni di cittadini
che disciplinatamente lo hanno esercitato con modernissime
macchinette elettroniche che hanno permesso in poche
ore, dall'inizio dello scrutinio, di conoscere con esattezza
vincitori e vinti), la più grande democrazia
del mondo ha letteralmente mandato a casa il Bjp, il
“partito del popolo” indiano, ovvero la
destra nazionalista indù, guidata dal primo ministro-poeta,
Atal Vajpayee, insediando al potere il partito di Sonia
Gandhi.
A dir tutta la verità, il Congresso e i suoi
alleati (che hanno dato vita all'Alleanza Progressista
Unita), non hanno avuto la maggioranza assoluta dei
seggi della Camera Bassa del Parlamento federale:
per governare il Congresso ha bisogno del sostegno
della sinistra, i due partiti “comunisti marxisti”
che governano o hanno governato per anni Kerala e
West Bengala, e di un importante partito “locale”
dell'Uttar Pradesh, lo stato più importante
e popoloso del Nord del paese (circa 180 milioni di
persone).
Sinistra
e partito dell'Uttar Pradesh hanno garantito questo
sostegno e il Congresso ha conquistato il potere centrale,
il “Centro”, come viene definito dalla
stampa indiana.
Ma che diamine è accaduto? La domanda è
obbligatoria. Le elezioni nazionali infatti sono state
anticipate per decisione unanime della coalizione
allora al potere, l'Alleanza Democratica Nazionale
(Nda), il cui centro era appunto il Bjp. L'Nda era
assolutamente convinta non di vincere ma di stravincere
queste consultazioni e d'altra parte i primi sondaggi
avevano confermato in pieno questa impressione. La
decisione, fatale per la destra, era stata assunta
dopo la vittoria del Bjp (anche questa del tutto imprevista!)
nelle elezioni in quattro importanti stati dell'Unione
Indiana, dello scorso 1 dicembre. In quell'occasione,
il Congresso, che alla vigilia delle elezioni era
dato per vincitore, era riuscito a mala pena a conservare
la maggioranza nello stato della capitale, perdendo
tutto il resto. Da allora la leadership del Bjp aveva
pianificato la strategia per la vittoria definitiva
adottando la scelta delle elezioni anticipate e proponendo
un programma politico abbastanza “moderato”
(per la storia del nazionalismo indù), insistendo
sulla crescita economica, sul prestigio internazionale
dell'India, sulla pace con il Pakistan. E sull'autocritica
per gli “eccessi” dell'estrema destra
contro i mussulmani nel Gujarat, nei pogrom del 2002.
Tutto sembrava mettersi per il verso giusto (per
la destra nazionalista ovviamente), ma già
dai primi exit poll nella prima fase del “lungo
voto”, si era capito che qualcosa non andava
secondo i piani del Bjp. A dir la verità, un’autorevole
rivista indiana di centrosinistra, “FrontLine”,
aveva avvertito osservatori e politici: nel mondo
rurale lo scontento per una politica economica e sociale
tutta a favore dei ceti urbani era forte e potente
e avrebbe potuto rovesciare le ipotesi della vigilia.
“FrontLine” è stata semplicemente
preveggente e proprio grazie al voto rurale e alle
alleanze giuste, il Congresso ha riconquistato il
Centro.
A quel punto tutto sembrava predisposto per il “grande
ritorno” della Dinastia Nerhu con la consegna
del governo nelle mani di Sonia Gandhi. La destra
nazionalista si era ben preparata per costruire una
fortissima opposizione di delegittimazione contro
Sonia, la “straniera”, “l'italiana”:
mobilitazione di piazza dei movimenti estremisti e
dei partiti 'moderati' dell'Nda, proteste istituzionali
del primo ministro del Madhia Pradesh, operazioni
e manovre di Borsa da parte di giovani operatori vicini
al mondo della destra erano già pronte. La
Borsa di Bombay ha iniziato a crollare e persino il
moderato Georges Fernandez, già ministro della
difesa e uomo dell'ex primo ministro-poeta, aveva
organizzato la sua brava manifestazione popolare contro
Sonia. Se questa si fosse insediata al potere, l'India
sarebbe stata scossa per uno o due anni con mobilitazioni,
proteste, contestazioni senza precedenti. La delegittimazione
sarebbe stata radicale; il paese si sarebbe profondamente
polarizzato. E la destra avrebbe evitato di spaccarsi
sulla sua sconfitta elettorale.
Invece Sonia ha tolto di mezzo il giocattolo della
'straniera' e ha insediato, con una mossa a sorpresa
(che però, a leggere bene la stampa indiana,
non era poi tanto sorprendente), M. Singh alla guida
del governo. A febbraio, un'altra importante rivista
indiana, “Outlook”, aveva annunciato che
proprio Singh sarebbe stato il candidato effettivo
del Congresso alla guida del paese. M. Singh è
un personaggio importante, per dirla con la Bbc, è
“l'architetto delle riforme economiche liberali”.
Ma specialmente è un sikh. E questo ci riporta
alla storia politica recente dell'India: Indira Gandhi
infatti fu uccisa da una guardia sikh, per aver ordinato
a suo tempo l'attacco al Tempio sacro di questa importante
comunità (i sikh sono il nerbo delle forze
armate indiane).
Con la sua mossa, Sonia ha politicamente distrutto
l'intera strategia di opposizione del Bjp, ha accresciuto
enormemente il suo prestigio politico, ha assunto
una posizione di leadership senza precedenti nella
storia recente del suo paese (e infatti il presidente
pakistano Perez Musharraf l'ha immediatamente invitata
a visitare il paese) e ha insediato al potere un sikh
riappacificando la Dinastia con quella comunità
(a metà strada fra Islam e Induismo) e facendo
dell'India il più grande laboratorio della
democrazia del ventunesimo secolo, la democrazia del
relativismo e del pluriculturalismo: per la prima
volta l'India ha un premier non indù e un Presidente
musulmano. Buona fortuna Sonia!
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