254 - 29.05.04


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Quel che serve all'Europa.
Secondo Teodori

Giancarlo Bosetti


Massimo Teodori, L'Europa non œ l'America, Mondatori, pagg.130, Ÿ 15,00.

Se il precedente libro di Massimo Teodori (Maledetti americani) era una accorata denuncia dell'antiamericanismo in Europa, questo secondo su tema affine (L'Europa non œ l'America) œ una riflessione pi¦ meditata e frutto di buone letture sulla storia dell'uno e dell'altro soggetto della comparazione. Farebbero bene a leggerlo tutti, filoamericani, antiamericani, filoeuropei e antieuropei (o euroscettici) e, lù in mezzo, anche tutti gli spiriti critici che non si riconoscono in apparentamenti troppo frettolosi.

Noi per definizione (Caffœ Europa) e per convinzione di Europa (politica) ne vorremmo di pi¦, molto di pi¦, e non di meno. E dunque quando Teodori si definisce "tutt'altro che euroscettico", lui vecchio federalista, sceglie una etichetta che ci sta bene, anche se la formula rivela qualche sottile incrinatura nelle "euroconvinzioni". Quando si definisce filoamericano ne sceglie un'altra che ci sta pure bene, anche se i "filo" e gli "anti" servono di solito a definire una militanza e indeboliscono fatalmente la forza logica degli argomenti.

Ed ecco dunque gli argomenti, che non mancano, che sono utilissimi per passare in rassegna le ragioni della debolezza europea al confronto con la potenza americana, le ragioni che spiegano la mancanza di un soggetto Europa capace di far valere la propria volontù unitaria sulla scena internazionale. La pi¦ interessante delle lacune oggi (e centrale nel libro di Teodori) riguarda la politica estera europea, l'assenza di una capacitù di governo che si dovrebbe esprimere (e ce ne sarebbe assoluto bisogno) nella capacitù di negoziare collettivamente con il presidente americano una linea di condotta alternativa a quella adottata in Irak.

La rassegna degli argomenti œ molto utile perch¹ quando si argomenta, da parte americana, su quel che manca all'Europa per saper diventare "pi¦ interessante per il resto del mondo" come dice efficacemente Emma Bonino (si veda per esempio "Reset", N.83), vengono fuori tutti i gravissimi limiti della costruzione europea, alla quale faremo bene a lavorare ancora a lungo (innanzitutto spingendo per una approvazione della Costituzione in una forma che faciliti il formarsi di una volontù unitaria su materie sempre pi¦ ampie, anche in tema di politica estera). Restiamo dunque con i piedi per terra e non ci dimentichiamo che gli Stati Uniti sono uno stato federale e l'Europa non lo œ, che quando si vota per le elezioni europee in realtù da noi si va a votare per un segmento nazionale del Parlamento europeo, e soprattutto non si vota dopo una discussione su questioni europee e su leader europei ma piuttosto (e quasi esclusivamente) dopo campagne che vertono su questioni e governi nazionali. Il voto tedesco riguarderù Schroeder, come quello italiano Berlusconi, non l'operato, pressoch¹ sconosciuto, dei parlamentari europei uscenti, e tanto meno la commissione europea e le politiche di Bruxelles.

Cos– œ giusto ricordare, come fa Teodori, che in America alla capacitù di integrazione federale tra gli Stati corrisponde una societù che mantiene tuttora, nonostante i cambiamenti e l'esplodere di gigantesche comunitù ispaniche, un carattere di "crogiolo" di etnie. La cittadinanza rimane il punto di arrivo di un percorso di integrazione di cui l'Europa sta cominciando a prendere le misure, tra mille difficoltù. La capacitù di integrare gli immigrati, e la capacitù degli europei di integrarsi un po' meglio tra loro, sono due processi probabilmente apparentati anche se nessuno dispone di una teoria generale su queste connessioni. Ma le differenze linguistiche non consentiranno mai all'Europa di diventare il "crogiolo di Dio", una societù dove tutti hanno un trattino, secondo la formula del celebre saggio di Michael Walzer, Che cosa significa essere americani, per la ragione primaria che gli europei non lo desiderano. Questa diversitù di progetti esistenziali per…, anche se non pu… e non deve essere rimossa, non giustifica la lentezza dell'avvio di politiche attive di integrazione verso gli immigrati.

Ma il punto pi¦ caldo toccato dal libro di Teodori non riguarda le differenze storiche e culturali, riguarda il "divorzio" in corso sulla crisi irachena, un divorzio che ha incrinato un legame saldo per cinquant'anni, dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi. L'autore critica coloro che trasferiscono arbitrariamente un drastico giudizio politico sull'operato di Bush alla natura storica delle istituzioni e al funzionamento fisiologico della democrazia americana, che sarebbe finita "nelle mani dei signori della guerra e del petrolio". E c'œ da condividere la constatazione che vi sono effettivamente in Europa e in Italia sostenitori di queste tesi estreme. Ma un saggio come quello di Teodori non dovrebbe contentarsi di liquidare polemicamente la questione incolpando di quel "trasferimento arbitrario" i nemici pregiudiziali dell'America. Assai pi¦ interessante œ il tema delle critiche alla politica estera di Bush, di coloro, tantissimi (probabilmente, attenzione, la maggioranza) che ritengono la alleanza delle democrazie europee con quella americana indispensabile, che auspicano la tessitura di una paziente ricostruzione della solidarietù atlantica, che vorrebbero rimettere in piedi tutto il potere di attrazione che il soft power americano œ capace di esercitare sul resto del mondo.

Ad essere spicci c'œ da obiettare a Teodori che le critiche al presidente americano e ai circoli neoconservatori che l'hanno ispirato fin qui vengono soprattutto da chi a una funzione democratica degli Stati Uniti nell'ordine mondiale ci crede. Mentre le scelte e gli errori di Bush hanno alimentato in Europa una perdita di credibilitù della loro leadership (giù prima dello scandalo delle torture).

Quanto agli insoddisfatti del funzionamento della democrazia americana, vale la pensa di ricordare che l'insoddisfazione in democrazia non œ nemica ma fisiologica, mentre la piena e unanime soddisfazione, che squalifica chi soddisfatto non œ, si addice ai regimi. Dunque anche le critiche al sistema elettorale, rispuntate fuori dopo il pasticcio dei conteggi in Florida tra Bush e Gore, non sono un indizio di antiamericanismo ma sono qualcosa di molto molto americano. Forse una ovvietù. (che i voti abbiano un peso diverso da stato a stato, e che si possa diventare presidenti senza la maggioranza dei voti, e qualche volta quando la maggioranza ce l'ha quell'altro). Sono comunque un antichissimo tema di discussione per gli americani, fin dai tempi di Filadelfia, 1787, come racconta benissimo uno dei maggiori scienziati politici americani, Robert Dahl, emerito di Yale, universitù che tanti presidenti ha sfornato. Ma tutto questo Teodori lo sa benissimo.









 

 

 

 

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