254 - 29.05.04


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Se ci fosse l'Europa

Giancarlo Bosetti


Quel che ora non convince praticamente pi¦ nessuno in Europa della condotta americana in Irak non œ tanto la scelta di fare la guerra a Saddam. Questa decisione œ stata infatti condivisa per lo meno da alcuni governi e da una parte minoritaria dell'opinione pubblica, anche se obiettivamente bisogna riconoscere che la guerra, presentata come ritorsione per l'11 settembre, colpiva un bersaglio diverso da Al Queida, e dunque andava a vuoto; ed œ stata motivata con il ricorso alle ben note bugie sulle armi di distruzioni di massa, che non si sono trovate. Fino a l– la massa del dissenso europeo era giù molto forte. Ma la massa œ diventata schiacciante, rovinosa per i rapporti tra Europa ed America, quando si œ dovuto prendere atto del modo in cui il governo americano ha affrontato l'occupazione: l'incapacitù di una iniziativa politica che sapesse conquistare consensi tra i paesi arabi, nel mondo musulmano, tra la popolazione irakena, e ovviamente tra gli alleati europei, noi tutti, che saremo colpiti da questa incapacitù perch¹ apparteniamo al mondo delle democrazie occidentali, che nel conflitto viene messo in gioco, piaccia o non piaccia. La massa del dissenso verso il governo degli Stati Uniti sta diventando incontenibile, plebiscitaria, dal momento che le difficoltù sembrano spingere Bush in una direzione che rinforza gli errori, anzich¹ introdurre correzioni. Il tempo di passare il ruolo guida a Powell œ giù venuto da un pezzo, ma il presidente continua a smentirlo e ad accreditare le tesi dell'ala dura: si resta e non si farù decidere agli irakeni sulla permanenza dell'esercito americano. Gli abusi, le torture, la condotta umiliante e sadica verso i prigionieri irakeni di Abu Ghraib œ non solo disgustosa ma anche rivelatrice di un indirizzo politico catastrofico: non si rivela soltanto la indifferenza verso i diritti umani e i diritti di guerra, si rivela soprattutto la insensibilitù nei confronti del potere decisivo di una democrazia in guerra contro una dittatura, quello della sua forza di attrazione. Questo gli Europei non lo possono sopportare e lo capiscono meglio di chiunque proprio perch¹ furono liberati da un esercito che parlava la lingua di Eisenhower. La dichiarazione del ministro degli esteri tedesco Fischer œ indicativa della maturazione di un giudizio assai grave: ad entrare in una zona di rischio œ adesso la fiducia degli europei negli Stati Uniti come potenza capace di leadership mondiale. Perch¹ se cade la fiducia in una leadership, come si palesa dai sondaggi che gli stessi americani conducono, si œ costretti a immaginarne un'altra. E realisticamente non se ne vede nessuna all'orizzonte. Ecco perch¹ se ci fosse un'Europa capace di una volontù comune nella visione internazionale, e se questa Europa avesse un vero ministro degli esteri, questi andrebbe a Washington a chiedere le dimissioni di Rumsfeld: un gesto che preme a chi la leadership americana la vuole realisticamente tenere in piedi. Gli altri, quelli che si sentono a loro agio nelle vesti "antiamericane", del segretario alla Difesa e dello staff di teste d'uovo neoconservatrici sono assolutamente soddisfatti. Niente di meglio per confermare i loro teoremi. I dettami dei "neocons" sono riusciti nell'impresa di fare dell'Irak un teatro ideale per le avventure del terrorismo islamista.

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Urge svolta dopo il collasso irakeno
Giancarlo Bosetti

(9/05/2004)
Le notizie minacciose e ripugnanti di cui parlavamo, qui, finora sono diventate una catastrofica catena di rivelazioni su abusi, torture e omicidi, che compromettono non solo l'immagine degli americani nel mondo, ma la fiducia che la popolazione americana ha in se stessa. Come ha scritto un commentatore di simpatie repubblicane come David Brooks , sul New York Times, il paese œ "alle soglie di una crisi di fiducia", in preda a un senso di impotenza.

Altro che soft power! Altro che spettacolo di una democrazia che spinge chi la guarda ad amarla e seguirla. Il soft power per un po' œ meglio non evocarlo. Quanti anni ci vorranno perch¹ in Iraq si possa parlare di "fiducia" verso qualcosa di americano? I giorni che passano dalle prime rivelazioni sulle depravazioni di Abu Ghraib, dalle incerte spiegazioni dei responsabili del Pentagono sul perch¹ quel carcere di Saddam non fu chiuso, su chi dava gli ordini di "far vedere l'inferno" agli arrestati da interrogare, aggravano la posizione del governo americano.

Ogni ora che passa senza che il ministro della Difesa Rumsfeld si dimetta renderù pi¦ difficile ristabilire un plausibile rapporto tra potere militare americano e popolazione irakena. Ogni ora costerù anni. Ogni ora che passa senza una crisi-shock ai vertici dell'amministrazione americana rende difficile credere che quello che œ accaduto sia circoscritto ad alcuni individui, ad un singolo gruppo, ad un reparto impazzito. E rende pi¦ verosimile l'idea che l'abisso di impunitù, in cui solo certi sadismi sono spiegabili, corrisponda a decisioni prese dai vertici militari. E che, dato il loro rilievo politico e la necessitù di garantirne la impunitù al di fuori di ogni regola, quelle decisioni siano state prese a livello politico. Non si pu… certo confondere la condotta criminale di alcuni soldati e soldatesse americane con le abitudini di un popolo intero, e neppure ci dimenticheremo che le istituzioni americane hanno anche, per fortuna, oltre a quello di Rumsfeld anche il volto dei senatori che lo interrogano e lo chiamano a rispondere davanti alle telecamere del mondo intero, ma quei crimini sono avvenuti in un contesto preparato da una "caduta di tab¦", che come ha spiegato Barbara Spinelli sulla "Stampa ", sono stati preparati "da un generale permissivismo, da una cultura dell'impunitù" consistente nel "levarsi i guanti", da una dichiarazione dello stesso Rumsfeld, nel gennaio del 2002, secondo la quale per i terroristi non vale alcuna Convenzione di Ginevra.

Dunque œ pienamente da confermare quel che diceva, prima delle rivelazioni del rapporto Taguba Michael Ignatieff, nell'articolo Mali minori, sul "New York Times Magazine" commentando il crescendo di pressioni sulla libertù degli individui nel nome della sicurezza che "una successione di attacchi terroristici su larga scala provocherebbe uno strappo nel giù fragile tessuto della fiducia che ci lega (noi Americani, Ndr) alla nostra leadership e distruggerebbe la fiducia che abbiamo gli uni verso gli altri". Lo strappo œ giù avvenuto e lo squarcio prodotto œ giù abbastanza grande senza bisogno di nuovi attacchi. L'ultimo attacco œ venuto da dentro, œ il prodotto del fallimento dell'impresa militare americana.

þ dunque l'intero governo, il presidente Bush ad essere in gioco. "L'America non ha solo bisogno di un nuovo ministro della difesa ma di un nuovo presidente". Le parole del candidato democratico, John Kerry, ovvie in bocca al suo competitore al voto del prossimo 2 novembre, hanno in queste ore una particolare solennitù ed importanza. Un cambio di presidente pu… diventare vitale per ristabilire le condizioni di credibilitù del dialogo internazionale sulla crisi irakena. E purtroppo i sei mesi che ci separano da quel voto appaiono, alla luce della crisi, di una lunghezza insostenibile. Giù, perch¹ l'impresa di una risposta americana, e di tutte le democrazie, al terrorismo fondamentalista di Al Queida œ da reinventare, reimpostare. E subito perch¹ il fallimento della strategia e della tattica di Bush œ ormai palese. E il primo aspetto del mutamento di rotta riguarda la costruzione, meglio dire: la ricostruzione, di una alleanza con le democrazie europee.









 

 

 

 

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