Diplomazia pubblica, soft power, armi di
attrazione di massa. Ovvero: quando la guerra non
si fa con le armi militari ma con i mezzi di comunicazione.
Tutte e tre le espressioni hanno qualcosa che le lega,
tutte sono esempi di come i mezzi di comunicazione
di massa possano essere a volte più efficaci
delle armi militari perché non puntano sull’affermazione
di rapporti di forza, quanto sulla proposizione di
modelli di vita e di organizzazione dello stato che
possono affascinare i cittadini oppressi da sistemi
di governo illiberali e totalitari alimentando così
il dissenso interno e creando le condizioni per sovvertire
l’ordinamento dello stato.
Vediamo nel dettaglio qual è il significato
specifico di ciascuna voce.
Armi di attrazione di massa
“Dobbiamo trovare un modo per difenderci dai
pericoli delle armi di distruzione di massa senza
perdere le nostre armi di attrazione di massa”.
A cosa si riferisce Thomas L. Friedman nell’editoriale
apparso sulle pagine del “New York Times”
del 6 novembre del 2002? Il giornalista americano
sostiene che ci sono casi in cui i programmi della
radio possono fare di più, e meglio, delle
più sofisticate tecnologie militari, che un
programma televisivo può contribuire ad abbattere
un regime più di un bombardamento aereo. In
altre parole, i nemici degli Usa non si possono combattere
solo con gli eserciti, ma ci vuole dell’altro,
ci vuole qualcosa che sappia rendere la democrazia
americana, e lo stile di vita che essa consente e
rappresenta, un modello attraente per le popolazioni
oppresse da sistemi totalitari. Ed è al fondamentalismo
islamico che Friedman si riferisce quando parla della
necessità di utilizzare delle armi di attrazione
di massa che siano in grado di conquistare i cuori
e le menti degli iracheni prima ancora delle loro
città, di convincerli che un sistema democratico
è di gran lunga migliore dell’oppressione
di una dittatura. Insomma, con l’informazione
e la comunicazione si riesce a raggiungere la popolazione
civile e a fare in modo che si avvicini al modello
democratico e lo percepisca come un desiderio da raggiungere,
un’esigenza da conquistare; gli eserciti, invece,
stanno producendo l’effetto contrario di far
percepire i paesi occidentali come forze occupanti.
Soft Power
Joseph Nye, docente di Relazioni Internazionali alla
John F. School of Government della Harvard University
e collaboratore del Segretario della Difesa americano
durante l’amministrazione Clinton, sostiene
l’importanza di sostituire alle azioni militari
unilaterali seguite all’11 settembre, un diverso
modo di agire sulla scena internazionale, un modo
che Nye chiama soft power e definisce come
l’abilità di raggiungere gli scopi che
ci si prefigge affascinando le popolazioni arabe,
piuttosto che minacciandole, con la propria cultura,
con i propri ideali politici. “Un Paese può
raggiungere i propri scopi nella politica mondiale”,
scrive Nye nel suo libro Il paradosso del potere
americano: perché l’unica suerpotenza
mondiale non può agire da sola (Einaudi,
2002) “quando altri Paesi intendono seguirlo,
ammirando i suoi valori, emulando il suo esempio,
aspirando al suo livello di prosperità e di
apertura. In questo senso occorre riorientare la nostra
agenda politica: attrarre altri Paesi, non usare la
forza militare (o le sanzioni economiche) per imporre
loro cambiamenti che non vogliono affrontare”.
Diplomazia pubblica
Le parole di Nye, che ha recentemente firmato un nuovo
libro dal titolo Soft Power: The Means to Success
in World Politics, richiamano molto da vicino
una pratica utilizzata e sviluppata nella politica
estera degli Stati Uniti a partire dagli anni più
intensi della Guerra Fredda. Fu infatti nel 1953 che
nacque l’Usia (United States Information Agency),
un’agenzia incaricata di curare la diplomazia
pubblica (public diplomacy) negli affari esteri degli
Usa. Se la diplomazia tradizionale si risolve in incontri,
discussioni, accordi e trattati tra rappresentanti
istituzionali di paesi diversi, la diplomazia pubblica
invece sviluppa la propria azione a diretto contatto
con la popolazione civile, con la vita quotidiana
dei paesi stranieri. Lo scopo è ancora una
volta quello di promuovere gli interessi nazionali
degli Stati Uniti attraverso l’esportazione
della propria cultura. Alcuni esempi? Un centro di
ricerca americano, finanziato con soldi dell’amministrazione
americana, ma con sede in una capitale straniera e
con ricercatori stranieri; un film prodotto dall’Usia
sui danni sociali del traffico illegale di narcotici
trasmesso da televisioni locali dell’America
Latina; un artista americano che fa un tour in un
paese straniero palesemente sponsorizzato dal governo
Usa; e ancora, andando a cercare nel passato, “Voice
of America”, la radio dell’Usia, che trasmetteva
lo sbarco di Armstrong sulla Luna e musica americana
nei paesi del blocco sovietico. Un esempio di diplomazia
pubblica fu anche Radio Londra, la radio che durante
la seconda guerra mondiale rappresentava la voce degli
alleati, non solo per le notizie attendibili che smentivano
le menzogne del regime fascista, ma anche per le trasmissioni
di intrattenimento, per il blues e il rock ‘n
roll che faceva immaginare un mondo diverso più
attraente di quello promesso e realizzato da Mussolini.
La parola alla società civile
Scoprire le menzogne di un dittatore, portargli via
consensi dimostrando la sua efferata crudeltà
e l’assoluta insofferenza verso ogni tipo di
oppositori è una guerra che si può combattere
con i media e che può avere esiti largamente
migliori di quelli dimostrati dalle battaglie militari.
Ma una precisazione ci viene da David Hoffman, presidente
dell’organizzazione non-governativa americana
Internews. La diplomazia pubblica ha esercitato la
sua arte in molte realtà diverse, avverte Hoffman
dalle pagine della rivista specializzata ”Foreign
Affairs”, e adesso sta cercando di “convincere
cuori e menti del mondo musulmano” esportando
in ogni modo la propria cultura, ma se si vuole rendere
libero un popolo, continua Hoffman, la strada che
conduce alla realizzazione di uno stato democratico
dove ancora regnano violenza e terrore passa sì
per l’informazione, ma non per una cultura importata
dall’estero, quanto piuttosto dal supporto che
si riesce a dare “ai media democratici e alla
società civile che già lottano all’interno
di una realtà difficile, per fare in modo che
siano loro stessi, con le loro mani a costruire le
loro libertà di espressione”.
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