253 - 15.05.04


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Potere morbido e diplomazia pubblica

Mauro Buonocore


Diplomazia pubblica, soft power, armi di attrazione di massa. Ovvero: quando la guerra non si fa con le armi militari ma con i mezzi di comunicazione. Tutte e tre le espressioni hanno qualcosa che le lega, tutte sono esempi di come i mezzi di comunicazione di massa possano essere a volte più efficaci delle armi militari perché non puntano sull’affermazione di rapporti di forza, quanto sulla proposizione di modelli di vita e di organizzazione dello stato che possono affascinare i cittadini oppressi da sistemi di governo illiberali e totalitari alimentando così il dissenso interno e creando le condizioni per sovvertire l’ordinamento dello stato.
Vediamo nel dettaglio qual è il significato specifico di ciascuna voce.

Armi di attrazione di massa
“Dobbiamo trovare un modo per difenderci dai pericoli delle armi di distruzione di massa senza perdere le nostre armi di attrazione di massa”. A cosa si riferisce Thomas L. Friedman nell’editoriale apparso sulle pagine del “New York Times” del 6 novembre del 2002? Il giornalista americano sostiene che ci sono casi in cui i programmi della radio possono fare di più, e meglio, delle più sofisticate tecnologie militari, che un programma televisivo può contribuire ad abbattere un regime più di un bombardamento aereo. In altre parole, i nemici degli Usa non si possono combattere solo con gli eserciti, ma ci vuole dell’altro, ci vuole qualcosa che sappia rendere la democrazia americana, e lo stile di vita che essa consente e rappresenta, un modello attraente per le popolazioni oppresse da sistemi totalitari. Ed è al fondamentalismo islamico che Friedman si riferisce quando parla della necessità di utilizzare delle armi di attrazione di massa che siano in grado di conquistare i cuori e le menti degli iracheni prima ancora delle loro città, di convincerli che un sistema democratico è di gran lunga migliore dell’oppressione di una dittatura. Insomma, con l’informazione e la comunicazione si riesce a raggiungere la popolazione civile e a fare in modo che si avvicini al modello democratico e lo percepisca come un desiderio da raggiungere, un’esigenza da conquistare; gli eserciti, invece, stanno producendo l’effetto contrario di far percepire i paesi occidentali come forze occupanti.

Soft Power
Joseph Nye, docente di Relazioni Internazionali alla John F. School of Government della Harvard University e collaboratore del Segretario della Difesa americano durante l’amministrazione Clinton, sostiene l’importanza di sostituire alle azioni militari unilaterali seguite all’11 settembre, un diverso modo di agire sulla scena internazionale, un modo che Nye chiama soft power e definisce come l’abilità di raggiungere gli scopi che ci si prefigge affascinando le popolazioni arabe, piuttosto che minacciandole, con la propria cultura, con i propri ideali politici. “Un Paese può raggiungere i propri scopi nella politica mondiale”, scrive Nye nel suo libro Il paradosso del potere americano: perché l’unica suerpotenza mondiale non può agire da sola (Einaudi, 2002) “quando altri Paesi intendono seguirlo, ammirando i suoi valori, emulando il suo esempio, aspirando al suo livello di prosperità e di apertura. In questo senso occorre riorientare la nostra agenda politica: attrarre altri Paesi, non usare la forza militare (o le sanzioni economiche) per imporre loro cambiamenti che non vogliono affrontare”.

Diplomazia pubblica
Le parole di Nye, che ha recentemente firmato un nuovo libro dal titolo Soft Power: The Means to Success in World Politics, richiamano molto da vicino una pratica utilizzata e sviluppata nella politica estera degli Stati Uniti a partire dagli anni più intensi della Guerra Fredda. Fu infatti nel 1953 che nacque l’Usia (United States Information Agency), un’agenzia incaricata di curare la diplomazia pubblica (public diplomacy) negli affari esteri degli Usa. Se la diplomazia tradizionale si risolve in incontri, discussioni, accordi e trattati tra rappresentanti istituzionali di paesi diversi, la diplomazia pubblica invece sviluppa la propria azione a diretto contatto con la popolazione civile, con la vita quotidiana dei paesi stranieri. Lo scopo è ancora una volta quello di promuovere gli interessi nazionali degli Stati Uniti attraverso l’esportazione della propria cultura. Alcuni esempi? Un centro di ricerca americano, finanziato con soldi dell’amministrazione americana, ma con sede in una capitale straniera e con ricercatori stranieri; un film prodotto dall’Usia sui danni sociali del traffico illegale di narcotici trasmesso da televisioni locali dell’America Latina; un artista americano che fa un tour in un paese straniero palesemente sponsorizzato dal governo Usa; e ancora, andando a cercare nel passato, “Voice of America”, la radio dell’Usia, che trasmetteva lo sbarco di Armstrong sulla Luna e musica americana nei paesi del blocco sovietico. Un esempio di diplomazia pubblica fu anche Radio Londra, la radio che durante la seconda guerra mondiale rappresentava la voce degli alleati, non solo per le notizie attendibili che smentivano le menzogne del regime fascista, ma anche per le trasmissioni di intrattenimento, per il blues e il rock ‘n roll che faceva immaginare un mondo diverso più attraente di quello promesso e realizzato da Mussolini.

La parola alla società civile
Scoprire le menzogne di un dittatore, portargli via consensi dimostrando la sua efferata crudeltà e l’assoluta insofferenza verso ogni tipo di oppositori è una guerra che si può combattere con i media e che può avere esiti largamente migliori di quelli dimostrati dalle battaglie militari. Ma una precisazione ci viene da David Hoffman, presidente dell’organizzazione non-governativa americana Internews. La diplomazia pubblica ha esercitato la sua arte in molte realtà diverse, avverte Hoffman dalle pagine della rivista specializzata ”Foreign Affairs”, e adesso sta cercando di “convincere cuori e menti del mondo musulmano” esportando in ogni modo la propria cultura, ma se si vuole rendere libero un popolo, continua Hoffman, la strada che conduce alla realizzazione di uno stato democratico dove ancora regnano violenza e terrore passa sì per l’informazione, ma non per una cultura importata dall’estero, quanto piuttosto dal supporto che si riesce a dare “ai media democratici e alla società civile che già lottano all’interno di una realtà difficile, per fare in modo che siano loro stessi, con le loro mani a costruire le loro libertà di espressione”.







 

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