Il testo che segue è un estratto dell’articolo
pubblicato nell’ultimo della rivista “Diritto
& Libertà”, n.9/2004, dedicato al
tema delle armi di attrazione di massa.
Il
potere della comunicazione
“Stiamo combattendo una guerra di idee tanto
quanto una guerra al terrore” ha dichiarato
il segretario della Difesa Rumsfeld al Washington
Times lo scorso 23 ottobre. Esprimendo quello
che all’interno dell’Amministrazione americana
e negli editoriali dei maggiori quotidiani statunitensi
sta diventando ormai un’affermazione talmente
condivisa da poter essere considerata di senso comune.
Nel discorso sullo Stato dell’Unione, lo scorso
20 gennaio, il presidente degli Stati Uniti Gorge
W. Bush ha affermato: “Fino a quando il Medio
Oriente rimarrà una regione di tirannia, disperazione
e rabbia, continuerà a produrre uomini e movimenti
che minacciano l’America e i nostri amici. Perciò
l’America sta perseguendo una strategia di libertà
nella regione mediorientale. Sfideremo i nemici delle
riforme, combatteremo gli alleati del terrore e pretenderemo
standard elevati dai nostri amici. Per recidere le
barriere della propaganda dell’odio, Voice
of America e altre emittenti stanno espandendo
la loro programmazione in arabo e in persiano, e presto
un nuovo servizio televisivo inizierà a trasmettere
notizie e informazioni affidabili in tutta la regione”.
Sembra diffondersi sempre più la consapevolezza
che la guerra dichiarata dall’America al terrorismo
islamico non può essere vinta soltanto con
le armi, ma deve essere combattuta anche sul territorio
immateriale dei “cuori e le menti” delle
popolazioni arabe, da conquistare con i valori che
sono alla base della società e delle istituzioni
americane: democrazia, diritti individuali, benessere
economico, libertà di espressione. Le ha chiamate
“armi di attrazione di massa” Barbara
Spinelli in un’editoriale sul quotidiano “La
Stampa” (Il massacro della conoscenza,
10 novembre 2002). Riprendendo con un’efficace
espressione un concetto sviluppato in diversi saggi
da Joseph S. Nye, già consigliere di Clinton
per la politica estera e attualmente decano della
John Fitzgerald Kennedy School of Government di Harvard,
il quale ha coniato il termine soft power
per indicare “la capacità di condizionare
le preferenze” attraverso “fonti di potere
intangibili quali cultura, ideologia e istituzioni
in grado di attrarre gli altri”. Secondo Nye,
grazie alla rivoluzione dell’informazione il
soft power si sta affermando sempre più
come una delle dimensioni centrali della politica
internazionale, facendo diminuire l’importanza
di fonti più tradizionali di potere come la
forza militare e le risorse economiche. Ma in un mondo
in cui la maggior parte dell’Africa e del Medio
Oriente resta rinchiusa in società agricole
preindustriali con istituzioni deboli e governanti
autoritari, il 40% degli Stati, secondo la Freedom
House, non garantisce la libertà di stampa
e di espressione, può l’informazione
davvero rappresentare una forma di potere effettivo,
in grado di destabilizzare i regimi autoritari, prevenire
i conflitti e rappresentare una valida alternativa
all’uso degli strumenti militari, in situazioni
di crisi?
Non sono in realtà in molti ad aver tentato
di dare una risposta a questo quesito. In assenza
di studi adeguati, l’efficacia della libera
circolazione delle informazioni può essere
provata in via indiretta considerando le ingenti risorse
spese dai regimi autoritari per controllare i media
e impedire l’espressione del dissenso. Infatti,
se i regimi autoritari possono sopravvivere attraverso
lo spionaggio, la repressione del dissenso e altri
strumenti del terrorismo di Stato, come afferma Lance
Bennett, “la solvibilità sul lungo periodo
di questi Stati dipende comunque dal minimizzare i
costi di questa repressione. È qui che la comunicazione
entra nell’equazione politica”.
Se gli effetti della “rivoluzione dell’informazione”
all’interno degli Stati autoritari sono incerti
e comunque poco studiati (se non altro per la difficoltà
di effettuare studi indipendenti nei paesi dominati
da regimi dittatoriali), sono invece evidenti le trasformazioni
che i media globali stanno provocando nella conduzione
della politica estera dei paesi democratici e nella
politica delle grandi organizzazioni internazionali.
Gli interventi militari in Bosnia e Somalia negli
anni ’90 sono stati messi in relazione con la
copertura da parte delle televisioni di tutto il mondo
delle tragedie umanitarie in atto in quei paesi, e
si è arrivati a teorizzare un vero e proprio
“Cnn effect”, termine con il quale si
indica il potere dei media globali di sostituirsi
agli apparati decisionali dei governi nel determinare
l’agenda della politica estera. È diventata
celebre l’affermazione di Madeleine Albright
secondo cui “la Cnn è il sedicesimo membro
del Consiglio di Sicurezza dell’Onu”.
Anche se gli effetti della copertura televisiva degli
eventi internazionali da parte della Cnn e di altre
emittenti globali sul processo decisionale sono stati
fortemente ridimensionati da alcuni studi, nessuno
nega l’incidenza che la rivoluzione dell’informazione
sta avendo sulla conduzione della politica estera.
Termini come “e-diplomacy” o “network
diplomacy” indicano l’emergere di nuovi
attori e nuove forme di organizzazione sulla scena
della politica internazionale, a seguito della “democratizzazione”
dell’accesso alle informazioni provocata dalle
nuove tecnologie informatiche e dall’avvento
dei media globali.
Fenomeni come l’influenza crescente esercitata
dalle Organizzazioni Nongovernative sui processi decisionali,
la nascita di network di Stati e Ong finalizzati al
raggiungimento di singoli obiettivi politici come
nel caso della campagna, vincitrice del Premio Nobel
per la pace, per il bando delle mine antiuomo o della
coalizione per l’istituzione della Corte Penale
Internazionale, l’organizzazione dei movimenti
di protesta attraverso Internet, l’uso delle
tecnologie informatiche a fini politici e il crescente
impatto della copertura televisiva degli eventi internazionali
sulle opinioni pubbliche nazionali, pongono ormai
sfide dirette alla sovranità e al monopolio
degli Stati e delle grandi organizzazioni internazionali
nella conduzione della politica estera.
Secondo quanto viene affermato in un rapporto dell’Aspen
Institute, “i nuovi flussi transnazionali di
informazione stanno trasformando alcuni dei termini
fondamentali del potere, negli affari internazionali.
Nuovi tipi di soft power che coinvolgono
la legittimità morale e il rispetto, la credibilità
quale fonte di informazione, e i valori culturali
stanno venendo alla ribalta. I poteri militari e finanziari
che appartenevano tradizionalmente alle nazioni dominanti
sono ora limitati in modi nuovi dal soft power
e dalla politica della credibilità”.
I limiti che il soft power pone a un paese
che pure è la maggiore superpotenza mondiale
come gli Stati Uniti, si sono manifestati in modo
evidente nel corso della recente crisi irachena. Le
manifestazioni contro l’intervento americano
in Iraq hanno fortemente condizionato il comportamento
dei governi di molti paesi democratici, che in passato
avevano sostenuto interventi militari voluti dagli
Stati Uniti. I leader dei paesi democratici che si
sono espressi a favore dell’intervento americano
in Iraq hanno pagato un prezzo molto alto in termini
di popolarità, e alcuni, come l’Italia,
per non inimicarsi vasti settori dell’elettorato,
si sono limitati a fornire basi logistiche senza inviare
propri contingenti sul fronte di guerra. Altri, come
il Governo francese e quello tedesco, hanno acquistato
fama e prestigio per il semplice fatto di essersi
opposti all’intervento militare.
È altrettanto significativo il fatto che tutti
i paesi dell’Europa dell’Est si siano
schierati a favore dell’intervento. Le opinioni
pubbliche dei paesi dell’ex blocco comunista
sono infatti tradizionalmente filoamericane. Il ricordo
del recente passato comunista, del ruolo giocato dagli
Stati Uniti nel determinare il crollo dei regimi autoritari
e del sostegno assicurato al processo di democratizzazione,
spiega la diffusa simpatia delle opinioni pubbliche
di quei paesi nei confronti dell’America. E
dimostra ancora una volta il ruolo centrale giocato
dal soft power nella politica estera.
Come si legge in un rapporto del Council on Foreign
Relations, il più influente think thank
di politica estera americano, “le sfide che
gli Stati Uniti hanno oggi di fronte non possono essere
affrontate soltanto con la forza. Il mondo è
disseminato da esempi di fallimento della forza militare
nel fermare sollevazioni terroristiche prolungate
nel tempo. In Spagna, Israele, Irlanda e Unione Sovietica
persone innocenti sono morte e la democrazia ha sofferto
senza alcun incremento della sicurezza. Non possiamo
catturare tutti i terroristi né distruggere
ogni arma. Piuttosto, dobbiamo imparare a confrontarci
con il risentimento, la disperazione e la frustrazione
che producono il terreno dove il terrorismo si sviluppa.
(…) Come durante la Guerra fredda, gli Stati
Uniti hanno di fronte un lunga e protratta sfida al
proprio stile di vita. Più che mai, l’America
necessita dell’influenza, dell’attrazione
e della forza morale indispensabili per mostrare al
mondo non soltanto la sua forza, ma anche che essa
non è il nemico. Gli Stati Uniti devono dimostrare
di rappresentare uno stile di vita caratterizzato
dalla democrazia, dall’apertura e dallo stato
di diritto – e che questa è una vita
a cui vale la pena aspirare”.
La diplomazia pubblica
Anche se la prima formulazione del concetto di soft
power risale a un libro di Joseph Nye pubblicato
nel 1990, ben prima i paesi occidentali avevano sperimentato
il potere dell’informazione come strumento della
politica estera. Tutti conoscono il ruolo giocato
da Radio Londra durante la seconda guerra mondiale
in Europa. Le trasmissioni radiofoniche internazionali
divennero poi, durante la Guerra fredda, uno strumento
molto importante in un conflitto condotto sul piano
ideologico assai più che su quello militare.
Nacquero allora il Bbc World Service, Radio France
International, Radio Canada, Radio Australia, Deutsche
Welle. Ma furono soprattutto gli Stati Uniti a dotarsi
di un vero e proprio apparato di emittenti radiofoniche
internazionali. Insieme ai programmi di scambi culturali,
le radio internazionali divennero i principali strumenti
di quella che, per rimarcarne la funzione strategica,
verrà chiamata “diplomazia pubblica”
(public diplomacy).
La United States Information Agency (Usia), l’agenzia
governativa cui erano affidate queste attività,
ha definito la diplomazia pubblica come “la
promozione dell’interesse nazionale e della
sicurezza nazionale attraverso la comprensione, l’informazione
e l’influenza dei cittadini di paesi esteri
e l’ampliamento del dialogo tra i cittadini
e le istituzioni americane e le loro controparti all’estero”.
Secondo la definizione del Council on Foreign Relations,
“la diplomazia pubblica è l’insieme
dei tentativi di informare e influenzare l’opinione
pubblica in altri paesi. Laddove la diplomazia tradizionale
è un esercizio tra governi condotto dai diplomatici,
la diplomazia pubblica è diretta al pubblico
internazionale. Nota a volte come lo sforzo di conquistare
i cuori e le menti, la diplomazia pubblica statunitense
usa pubblicazioni internazionali, trasmissioni via
etere e scambi culturali per coltivare la benevolenza
nei confronti degli Usa, i suoi interessi e le sue
politiche. La diplomazia pubblica comprende anche
il monitoraggio dell’opinione pubblica globale
e il coinvolgimento in un dialogo a due direzioni
con il pubblico internazionale”.
Con la fine della Guerra fredda la percezione dell’utilità
di queste attività internazionali scemò,
e con essa i finanziamenti e le strutture ad essa
preposte. Il crollo dell’Unione Sovietica fu
frettolosamente interpretato come il definitivo trionfo
degli ideali americani di democrazia, di affermazione
dei diritti individuali e del libero mercato nel mondo.
Con l’avvento dell’era della Cnn e di
Internet, inoltre, l’informazione internazionale
assicurata dalle radio finanziate con fondi pubblici
sembrava divenuta inutile e obsoleta.
L’Usia tentò di adattarsi ai cambiamenti
indirizzando le trasmissioni internazionali verso
nuovi obiettivi. Crollato il comunismo, le radio cominciarono
a rivedere il proprio ruolo: da veicoli per l’espressione
del dissenso a strumenti della transizione democratica,
attraverso la diffusione di informazioni imparziali
e la creazione di standard giornalistici a cui i media
emergenti potessero ispirarsi. Contemporaneamente,
con l’approvazione dell’U.S. International
Broadcasting Act, il Congresso americano creava Radio
Free Asia come servizio di informazione “sostitutivo”
diretto a Cina, Vietnam, Birmania, Laos, Cambogia
e Corea del Nord.
Negli anni ’90 il Congresso americano ha poi
provveduto a una riorganizzazione dell’intero
apparato della diplomazia pubblica. L’International
Broadcasting Act del 1994 provvedeva a ricondurre
tutte le emittenti internazionali sotto la direzione
del costituendo Broadcasting Board of Governors, un
nuovo organismo collegiale che dal 1998 è divenuta
un’agenzia statale indipendente. Composto di
otto cittadini privati di comprovata esperienza nel
campo della comunicazione di massa e delle relazioni
internazionali nominati dal Presidente della Repubblica
con il consenso del Senato, il BBG è presieduto
dal segretario di Stato, il quale non esercita diritto
di voto, al fine di garantire l’indipendenza
dell’organismo dal Governo. Il BBG controlla
attualmente Voice of America, Radio Free Europe/Radio
Liberty, Radio e Tv Marti, Radio Free Asia, Radio
Sawa e Worldnet Television e raggiunge complessivamente,
secondo alcune stime, circa 100 milioni di individui
in tutto il mondo.
Nel 1999, infine, il Congresso ha soppresso l’Usia
come agenzia autonoma, incorporando le sue strutture
e funzioni all’interno del Dipartimento di Stato,
con la creazione di un Sottosegretario per la diplomazia
e gli affari pubblici.
Questa riorganizzazione ha creato dei problemi di
coordinamento ed efficacia delle funzioni della diplomazia
pubblica, a cui si è aggiunta una drastica
riduzione dei fondi. Tra gli anni ’80 e gli
anni ’90 lo staff dell’Usia è diminuito
del 35%, mentre i finanziamenti, tenendo conto dell’inflazione,
sono stati ridotti del 26%. Il Congresso ha ridotto
il budget per le trasmissioni radiofoniche internazionali
dagli 844 milioni di dollari del 1993 ai 560 del 2004.
Dopo l’11 settembre, tuttavia, le potenzialità
della diplomazia pubblica sono tornate in cima all’agenda
dell’Amministrazione americana. Alcune ricerche
infatti, come ad esempio uno studio condotto dal Pew
Research Center for the Peolple and the Press, mettono
l’attenzione sul fatto che negli ultimi anni
tra la popolazione musulmana di alcuni paesi (Indonesia,
Giordania, Kuwait, Libano, Marocco, Nigeria, Pakistan,
Turchia, Putorità palestinese) gli Usa vengano
percepiti come un pericolo mentre cresce la popolarità
di personaggi come Bin Laden. (…) Ma nonostante
gli sforzi dell’amministrazione statunitense,
i risultati sembrano scarseggiare. Tutti i rapporti
pubblicati dopo l’11 settembre sulla diplomazia
pubblica americana ritengono inadeguate risorse, organizzazione
e integrazione nella politica estera complessiva.
Risorse
Il Dipartimento di Stato ha speso quest’anno
circa 600 milioni di dollari per i programmi di diplomazia
pubblica in tutto il mondo, mentre alle trasmissioni
radiofoniche internazionali del BBG il Congresso ha
destinato 540 milioni di dollari. Insieme si raggiunge
la cifra di poco più di 1 miliardo di dollari,
circa l’1% del budget annuale del Dipartimento
della Difesa. Per avere una proporzione, l’intero
budget annuale del BBG arriva a mala pena alla metà
del costo di un singolo bombardiere B-2. Mentre le
compagnie private americane investono per la pubblicità
all’estero 222 miliardi di dollari all’anno.
Organizzazione
Oltre ai finanziamenti inadeguati, il fallimento della
diplomazia pubblica nel mondo arabo è stata
messa in relazione all’assenza di coordinamento
e di una strategia integrata tra le varie strutture
del Governo preposte a questi programmi. Le proposte
avanzate dai vari rapporti prevedono tutte, da una
parte, un ruolo maggiore di direzione da parte del
Presidente degli Stati Uniti, attraverso la creazione
all’interno del gabinetto di un Consigliere
per la diplomazia pubblica o altrimenti adeguando
a questo scopo il neonato Ufficio delle comunicazioni
globali della Casa Bianca, e dall’altra, il
rafforzamento del ruolo del Sottosegretario per la
diplomazia pubblica, il responsabile ultimo dei programmi
di diplomazia pubblica del Dipartimento di Stato.
Integrazione nella politica estera
Oltre al dibattito sull’allocazione dei fondi
e la riorganizzazione del settore, una questione chiave
sollevata da molti è il ruolo che la diplomazia
pubblica dovrebbe giocare al livello della formulazione
delle scelte di politica estera. È rimasta
celebre l’affermazione di Edward R. Murrow,
direttore dell’Usia sotto la presidenza di John
Fitzgerald Kennedy, secondo cui i responsabili della
diplomazia pubblica avrebbero dovuto essere coinvolti
anche nei “decolli, e non solo negli atterraggi
di emergenza”.
Secondo il Council on Foreign Relations: “La
diplomazia pubblica deve essere parte integrante della
politica estera, non qualcosa che arriva dopo per
vendere una decisione di politica o per rispondere
alle critiche dopo i fatti. Non deve decidere le questioni
di politica estera, ma deve essere presa in considerazione
mentre vengono assunte le decisioni. In questo modo
aiuterebbe a definire le politiche ottimali e allo
stesso tempo a spiegare come esse concordino con i
valori e gli interessi delle altre nazioni, non solo
degli Stati Uniti. (…) Molte delle accuse di
ipocrisia rivolte all’America hanno a che fare
con l’appoggio che gli Stati Uniti assicurano
a governi autocratici e corrotti, mentre a parole
sposano il primato dei valori democratici americani,
la percezione di un supporto sbilanciato nei confronti
di Israele così come di una carenza di empatia
nei confronti delle condizioni dei palestinesi della
West Bank, e con i sospetti sui moventi reali della
politica estera americana in Iraq e nel resto della
regione. Ci sono delicati scambi di concessioni nel
sostegno di Washington ai governi autoritari e l’Amministrazione
dovrebbe guardare molto più attentamente ai
costi di queste politiche”.
Alle stesse conclusioni arriva il Gruppo consultivo
per la diplomazia pubblica verso il mondo musulmano,
secondo cui “la distorsione, le relazioni pubbliche
manipolative e la propaganda non sono la risposta.
Quel che conta è la politica estera”.
Oltre la diplomazia pubblica
Se l’11 settembre ha portato la diplomazia pubblica
in cima all’agenda della politica estera dell’Amministrazione
americana, ha contemporaneamente rianimato la critica
alle trasmissioni di informazione internazionale.
In un articolo pubblicato su Foreign Affairs,
David Hoffman, il presidente di Internews –
una Ong molto attiva nel sostegno ai media indipendenti
nelle democrazie emergenti – sostiene la necessità
di andare “oltre la diplomazia pubblica”.
“Più che fare ricorso alla censura o
alla propaganda, Washington dovrebbe utilizzare la
più grande arma che ha nel suo arsenale: i
valori racchiusi nel Primo Emendamento della Costituzione”.
Scrive Hoffman: “Mentre gli Stati Uniti aggiungono
armi di comunicazione di massa alle armi della guerra,
devono anche assumersi il più importante compito
di sostenere i media indigeni indipendenti, la democrazia
e la società civile nel mondo musulmano. Anche
se molti musulmani dissentono dalla politica estera
americana, soprattutto quella verso il Medio Oriente,
desiderano la libertà di espressione e l’accesso
all’informazione. La sicurezza degli Stati Uniti
si accresce nella misura in cui le altre nazioni condividono
queste libertà. Ed è messa in pericolo
dai paesi che usano la propaganda, incoraggiano i
media a diffondere odio e negano la libertà
di espressione”.
L’Amministrazione americana, secondo Hoffman,
dovrebbe fare della promozione di media indipendenti
una priorità nei paesi in cui l’oppressione
crea il terreno fertile per il terrorismo. Il Dipartimento
di Stato dovrebbe applicare una forte pressione diplomatica,
“inclusa magari la minaccia di condizionare
gli aiuti futuri”, per spingere i governi di
quei paesi ad adottare leggi e politiche che promuovano
una maggiore libertà dei media. “Il modo
migliore per Washington di invertire l’onda
nella guerra della propaganda è dare supporto
alle forze che nella comunità musulmana stanno
lottando per creare democrazie moderne e istituzionalizzare
lo Stato di diritto”. Occorre quindi aiutare
la crescita dei media locali indipendenti attraverso
assistenza tecnica e finanziaria e la formazione dei
giornalisti agli standard di obiettività e
accuratezza. In società completamente chiuse
le trasmissioni dall’estero continueranno ad
essere essenziali, ma nei paesi dove esistono anche
minime possibilità di operare per i mezzi di
informazione locali indipendenti, gli Stati Uniti
dovrebbero contribuire a creare le condizioni e fornire
i mezzi per un loro pieno e libero sviluppo.
Il problema della credibilità delle emittenti
è da sempre al centro del dibattito che ruota
intorno alle emittenti internazionali del Governo
americano. Proprio per rispondere all’esigenza
della credibilità, i servizi di informazione
internazionale del Governo americano sono organizzati
in modo tale da garantire la loro indipendenza e imparzialità.
L’istituzione del Broadcasting Board of Governors
come autorità statale indipendente è
motivata proprio dalla necessità di creare
una separazione tra le emittenti e il Governo, per
proteggere i giornalisti dalle pressioni politiche
o di altra natura. È stato Kenneth Y. Tomlinson,
l’attuale presidente della Broadcasting Board
of Governor, a tracciare una linea di demarcazione
tra diplomazia pubblica e trasmissioni internazionali
nella sua audizione di fronte alla Commissione per
le relazioni estere del Senato americano lo scorso
27 febbraio 2003. “La tradizionale diplomazia
pubblica impegna i portavoce del Governo a Washington
e in tutto il mondo a portare il messaggio dell’America
senza sosta e con passione. Le trasmissioni internazionali,
invece, sono più efficaci quando operano principalmente
secondo i più alti standard del giornalismo
indipendente. Si basano sulla creazione di una linea
diretta di fiducia tra chi trasmette e chi riceve
le informazioni; di conseguenza informazioni credibili
e accurate, e un’esplicita identificazione delle
linee editoriali sono un requisito per il successo”.
Tuttavia, il cambiamento necessario nelle politiche
di promozione della libera informazione e dell’indipendenza
dei media è concettuale oltre che operativo.
Occorre passare dall’obiettivo di breve-medio
termine della promozione dell’immagine e delle
politiche di un determinato paese in aree sensibili
del mondo, all’obiettivo della promozione a
livello internazionale della democrazia attraverso
la libera circolazione delle idee.
I vantaggi apportati dalla democrazia sono inestimabili
perché riguardano un valore umano fondamentale
come la libertà. È ormai ampiamente
riconosciuto, tuttavia, che la diffusione della democrazia
è congeniale anche allo sviluppo economico,
alla pace (non esiste alcun esempio storico di guerra
tra democrazie) e anche alla sicurezza internazionale.
La libera circolazione delle informazioni potrebbe
rappresentare uno degli strumenti più efficaci
per la promozione della democrazia. Alcuni studi condotti
recentemente hanno trovato indici di correlazione
molto elevati tra grado di libertà dei media
e indicatori di “good governance” come
la responsabilizzazione dei governi nei confronti
dei cittadini, lo sviluppo economico, e più
bassi livelli di corruzione.
In un mondo in cui, secondo il rapporto annuale della
Freedom House, soltanto il 40% dei 187 paesi del mondo
godono di una relativa libertà di stampa, c’è
molto lavoro da svolgere per chi intenda promuovere
la libera circolazione delle idee come strumento di
diffusione della democrazia.
La battaglia che le democrazie e le organizzazioni
internazionali hanno di fronte è quella per
il rispetto da parte di tutti gli stati di quanto
sancisce l’articolo 19 della Dichiarazione Universale
dei Diritti Umani: “Ogni individuo ha diritto
alla libertà di opinione e di espressione incluso
il diritto di non essere molestato per la propria
opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere
informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza
riguardo a frontiere”.
La battaglia per la conquista dei cuori e delle menti
dovrebbe cominciare da qui, dal cuore del soft
power dell’Occidente democratico.
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