Giulio Sapelli, Giochi proibiti –
Enron e Parmalat capitalismi a confronto, Bruno
Mondadori, 2004, pagg. 128, euro 10..
Preoccupata
per quello che sarebbe potuto accadere, il vicepresidente
della Enron, Sherron S. Watkins, si sedette davanti
al computer e scrisse al suo storico presidente, Kenneth
Lay, una lunga missiva di denuncia delle pratiche
irregolari riscontrate nella contabilità. Era
il 15 agosto 2001. Tre mesi e mezzo dopo lo stesso
Lay avrebbe annunciato il fallimento. Per quel gesto,
la rivista Time elesse la Watkins “persona
dell’anno”. A Collecchio, invece, in 15
anni di falsificazione dei bilanci nessuno si azzardò
a scrivere neppure una riga.
È questa una delle differenze – forse
la più emblematica – fra i due casi di
crack finanziario, analizzate da Giulio Sapelli nel
suo libro, Giochi proibiti – Enron
e Parmalat capitalismi a confronto (Bruno Mondadori,
2004).
Sapelli, professore di Storia economica e Analisi
culturale delle organizzazioni presso l’Università
Statale di Milano, nonché uno degli studiosi
di questioni economiche più stimati in Italia,
prende spunto dalla vicenda Enron, ripercorrendo i
passi che portarono il gruppo texano a diventare la
società di maggior successo nel mondo –
come indicato più volte dalla rivista Fortune
–, e gli errori che ne provocarono il clamoroso
fallimento.
Il libro
Cosa determinò la fine di Enron? Come viene
chiarito in più punti, Enron era una società
all’avanguardia nel settore energetico, guidata
da manager di alto livello professionale. Nonostante
ciò, giocarono alcuni fattori che portarono
al disastro finale. A determinare il collasso fu l’impossibilità
di far fronte alle crescenti difficoltà finanziarie
dovute alle perdite di una rete di società
create dai manager, sulle quali veniva scaricato l’indebitamento
di Enron che così vedeva realizzare risultati
positivi. Questo meccanismo era amplificato dal sistema
delle stock options. Nel 2000 i manager avevano ricevuto
stock options per decine di milioni di dollari e il
loro primo obiettivo fu di farle fruttare nel breve
periodo, anche con metodi illeciti. Invece di pensare
al consolidamento dell’azienda sul lungo periodo,
come dovrebbero fare i manager più responsabili,
pensarono a realizzare utili immediati. E a completamento
dell’opera – essenza della questione,
per Sapelli – i controlli, sia interni sia esterni,
non scattarono. I revisori si adeguarono ai voleri
del management. In particolare la società Arthur
Andersen uscì distrutta dal caso Enron.
Questo aspetto consente a Sapelli una riflessione,
non tanto sull’inadeguatezza delle società
di revisione, quanto sull’emergere in maniera
sempre più rilevante delle “cerchie sociali”,
alle quali appartiene il ristretto gruppo di revisori,
amministratori indipendenti, top manager e dirigenti
statali. Per Sapelli la corruzione “più
che un meccanismo di scambio economico, si rivela
essere un comportamento sociale che si sviluppa in
un ambiente culturale che supera i principi della
legalità e abbassa i gradi di sanzione morale
presenti nelle cerchie sociali in cui si vive e si
opera”. In quest’ottica solo l’integrità
morale di tutti i componenti delle cerchie sociali
può impedire lo sviluppo su larga scala di
altri casi Enron.
Ma se c’è del marcio in Nord America,
in Europa e in Asia la situazione non è certo
più rosea. Anzi, fra i mercati americano ed
euroasiatico vi sono ancora differenze tali da rendere
il primo sicuramente meno imperfetto del secondo,
dove “la crescita della grande impresa viene
limitata dalle relazioni della famiglia, dalla consanguineità
e dall’omofilia, tipiche, in particolar modo
nell’intreccio tra banca e industria, dell’Europa
continentale”. Per Sapelli i casi di opportunismo
e mancato controllo sono molto più diffusi
in Europa e nel continente asiatico, ma allo stesso
tempo sono anche meno visibili. La sua preoccupazione,
che prende corpo dal caso Enron, è che il mercato
americano, sicuramente perfettibile, rischi di assimilare
gli aspetti nefasti di quello europeo.
Un buon esempio di nefandezza europea è rappresentato
dal caso Parmalat, associato erroneamente dai media
a quello Enron, mentre nella realtà trattasi
di eventi completamente differenti. Innanzitutto perché
nella vicenda Parmalat, oltre che una cattiva gestione,
si configura proprio come un’azione criminale,
con decine di persone impegnate per molti anni a falsificare
i bilanci. Oltretutto Parmalat era un’azienda
che già negli anni Ottanta si trovava in difficoltà,
con un potenziale tecnologico piuttosto scadente e
una gestione manageriale poco brillante. Eppure fino
a pochi mesi prima della crisi l’immagine di
Parmalat era quella di una società sana, che
poteva vantare una liquidità consistente grazie
alla continua emissione di bond e a un’accurata
campagna pubblicitaria di supporto. Nel dicembre 2003,
l’impossibilità di rimborsare un bond
da 150 milioni di euro fece scattare l’inchiesta
della Consob, dalla quale poi trapelò la reale
condizione di Parmalat.
Come punto di contatto con la vicenda Enron vi è
la totale assenza dei controlli, ma la differenza
sostanziale fra i due casi, che può essere
assunta ad esempio dei differenti approcci politico-economici
fra Italia e Stati Uniti, è che Enron, con
il fallimento, è stata punita dal mercato,
mentre Parmalat è stata sottratta alle leggi
di mercato, grazie alla consolidata legislazione assistenziale
italiana per le aziende in crisi. Secondo Sapelli,
in un sistema politico-economico equo e non colluso
Parmalat avrebbe dovuto fallire. Altrimenti non s’incentiva
un comportamento morale corretto, venendo a mancare
la fiducia nel rispetto delle regole.
L’incontro
Occasione per presentare il libro di Sapelli è
stato l’incontro organizzato dall’editore
e dall’associazione Pier Lombardo Culture, tenutosi
lo scorso 19 aprile al Teatro Filodrammatici di Milano.
Assieme all’autore hanno partecipato Enrico
Letta, responsabile economico della Margherita, Alessandro
Profumo, amministratore delegato Unicredito, Giorgio
Vittadini, presidente fondazione Compagnia delle Opere
e Silvio Scaglia, presidente di E.Biscom. Il dibattito
ha preso spunto dai contenuti del libro con, inizialmente,
gli intervenuti intenti a evidenziare quegli aspetti
più in sintonia con la loro visione. Approccio
quasi fisiologico, riassunto con una battuta da Profumo
per il quale nei libri si cercano sempre conferme
alle proprie convinzioni.
Silvio Scaglia ha sottolineato l’importanza
d’intervenire per eliminare i legacci consociativi
che rendono inefficaci i controlli. Enrico Letta ha
espresso la necessità di un intervento normativo,
poche leggi ma chiare, per aumentare la trasparenza
e impedire, ad esempio, che i controllori siano nominati
dai controllati. Alessandro Profumo si è interrogato
sulla differenza fra immagine e reputazione: in Italia
s’investe molto in immagine e si da poco peso
alla reputazione. Infine, Giorgio Vittadini ha parlato
di moralità come desiderio di bene e del fatto
che nessuno dei soggetti coinvolti, dal risparmiatore
al banchiere, si accontenta di guadagnare quanto basta.
Senza alcun accenno alle imminenti elezioni europee,
aspetto che ha del miracoloso di questi tempi, il
dibattito si è spostato sull’Europa.
Tutti i partecipanti hanno espresso la convinzione
che l’Europa può e deve essere il motore
di cui l’Italia ha bisogno, per consolidare
la propria politica economica e per superare il fenomeno
delle cerchie sociali. La necessità di Europa
è ben riassunta da uno slogan di Enrico Letta:
“L’Italia era un paese grande in un mondo
piccolo, ora è un paese medio in un mondo grande”.
Non è più possibile pensare di eccellere,
da soli, in ogni settore, come avveniva fino a trent’anni
fa.
La conclusione, doverosa, al prof. Sapelli: “La
democrazia è imperfetta, il capitalismo è
imperfetto, l’etica, in quanto accordo fra uomini,
è imperfetta. Solo la morale potrà salvarci”.
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