253 - 15.05.04


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Solo la morale potrà salvarci

Federico Confalonieri


Giulio Sapelli, Giochi proibiti – Enron e Parmalat capitalismi a confronto, Bruno Mondadori, 2004, pagg. 128, euro 10..

Preoccupata per quello che sarebbe potuto accadere, il vicepresidente della Enron, Sherron S. Watkins, si sedette davanti al computer e scrisse al suo storico presidente, Kenneth Lay, una lunga missiva di denuncia delle pratiche irregolari riscontrate nella contabilità. Era il 15 agosto 2001. Tre mesi e mezzo dopo lo stesso Lay avrebbe annunciato il fallimento. Per quel gesto, la rivista Time elesse la Watkins “persona dell’anno”. A Collecchio, invece, in 15 anni di falsificazione dei bilanci nessuno si azzardò a scrivere neppure una riga.

È questa una delle differenze – forse la più emblematica – fra i due casi di crack finanziario, analizzate da Giulio Sapelli nel suo libro, Giochi proibiti Enron e Parmalat capitalismi a confronto (Bruno Mondadori, 2004).
Sapelli, professore di Storia economica e Analisi culturale delle organizzazioni presso l’Università Statale di Milano, nonché uno degli studiosi di questioni economiche più stimati in Italia, prende spunto dalla vicenda Enron, ripercorrendo i passi che portarono il gruppo texano a diventare la società di maggior successo nel mondo – come indicato più volte dalla rivista Fortune –, e gli errori che ne provocarono il clamoroso fallimento.

Il libro
Cosa determinò la fine di Enron? Come viene chiarito in più punti, Enron era una società all’avanguardia nel settore energetico, guidata da manager di alto livello professionale. Nonostante ciò, giocarono alcuni fattori che portarono al disastro finale. A determinare il collasso fu l’impossibilità di far fronte alle crescenti difficoltà finanziarie dovute alle perdite di una rete di società create dai manager, sulle quali veniva scaricato l’indebitamento di Enron che così vedeva realizzare risultati positivi. Questo meccanismo era amplificato dal sistema delle stock options. Nel 2000 i manager avevano ricevuto stock options per decine di milioni di dollari e il loro primo obiettivo fu di farle fruttare nel breve periodo, anche con metodi illeciti. Invece di pensare al consolidamento dell’azienda sul lungo periodo, come dovrebbero fare i manager più responsabili, pensarono a realizzare utili immediati. E a completamento dell’opera – essenza della questione, per Sapelli – i controlli, sia interni sia esterni, non scattarono. I revisori si adeguarono ai voleri del management. In particolare la società Arthur Andersen uscì distrutta dal caso Enron.

Questo aspetto consente a Sapelli una riflessione, non tanto sull’inadeguatezza delle società di revisione, quanto sull’emergere in maniera sempre più rilevante delle “cerchie sociali”, alle quali appartiene il ristretto gruppo di revisori, amministratori indipendenti, top manager e dirigenti statali. Per Sapelli la corruzione “più che un meccanismo di scambio economico, si rivela essere un comportamento sociale che si sviluppa in un ambiente culturale che supera i principi della legalità e abbassa i gradi di sanzione morale presenti nelle cerchie sociali in cui si vive e si opera”. In quest’ottica solo l’integrità morale di tutti i componenti delle cerchie sociali può impedire lo sviluppo su larga scala di altri casi Enron.

Ma se c’è del marcio in Nord America, in Europa e in Asia la situazione non è certo più rosea. Anzi, fra i mercati americano ed euroasiatico vi sono ancora differenze tali da rendere il primo sicuramente meno imperfetto del secondo, dove “la crescita della grande impresa viene limitata dalle relazioni della famiglia, dalla consanguineità e dall’omofilia, tipiche, in particolar modo nell’intreccio tra banca e industria, dell’Europa continentale”. Per Sapelli i casi di opportunismo e mancato controllo sono molto più diffusi in Europa e nel continente asiatico, ma allo stesso tempo sono anche meno visibili. La sua preoccupazione, che prende corpo dal caso Enron, è che il mercato americano, sicuramente perfettibile, rischi di assimilare gli aspetti nefasti di quello europeo.

Un buon esempio di nefandezza europea è rappresentato dal caso Parmalat, associato erroneamente dai media a quello Enron, mentre nella realtà trattasi di eventi completamente differenti. Innanzitutto perché nella vicenda Parmalat, oltre che una cattiva gestione, si configura proprio come un’azione criminale, con decine di persone impegnate per molti anni a falsificare i bilanci. Oltretutto Parmalat era un’azienda che già negli anni Ottanta si trovava in difficoltà, con un potenziale tecnologico piuttosto scadente e una gestione manageriale poco brillante. Eppure fino a pochi mesi prima della crisi l’immagine di Parmalat era quella di una società sana, che poteva vantare una liquidità consistente grazie alla continua emissione di bond e a un’accurata campagna pubblicitaria di supporto. Nel dicembre 2003, l’impossibilità di rimborsare un bond da 150 milioni di euro fece scattare l’inchiesta della Consob, dalla quale poi trapelò la reale condizione di Parmalat.

Come punto di contatto con la vicenda Enron vi è la totale assenza dei controlli, ma la differenza sostanziale fra i due casi, che può essere assunta ad esempio dei differenti approcci politico-economici fra Italia e Stati Uniti, è che Enron, con il fallimento, è stata punita dal mercato, mentre Parmalat è stata sottratta alle leggi di mercato, grazie alla consolidata legislazione assistenziale italiana per le aziende in crisi. Secondo Sapelli, in un sistema politico-economico equo e non colluso Parmalat avrebbe dovuto fallire. Altrimenti non s’incentiva un comportamento morale corretto, venendo a mancare la fiducia nel rispetto delle regole.

L’incontro
Occasione per presentare il libro di Sapelli è stato l’incontro organizzato dall’editore e dall’associazione Pier Lombardo Culture, tenutosi lo scorso 19 aprile al Teatro Filodrammatici di Milano. Assieme all’autore hanno partecipato Enrico Letta, responsabile economico della Margherita, Alessandro Profumo, amministratore delegato Unicredito, Giorgio Vittadini, presidente fondazione Compagnia delle Opere e Silvio Scaglia, presidente di E.Biscom. Il dibattito ha preso spunto dai contenuti del libro con, inizialmente, gli intervenuti intenti a evidenziare quegli aspetti più in sintonia con la loro visione. Approccio quasi fisiologico, riassunto con una battuta da Profumo per il quale nei libri si cercano sempre conferme alle proprie convinzioni.

Silvio Scaglia ha sottolineato l’importanza d’intervenire per eliminare i legacci consociativi che rendono inefficaci i controlli. Enrico Letta ha espresso la necessità di un intervento normativo, poche leggi ma chiare, per aumentare la trasparenza e impedire, ad esempio, che i controllori siano nominati dai controllati. Alessandro Profumo si è interrogato sulla differenza fra immagine e reputazione: in Italia s’investe molto in immagine e si da poco peso alla reputazione. Infine, Giorgio Vittadini ha parlato di moralità come desiderio di bene e del fatto che nessuno dei soggetti coinvolti, dal risparmiatore al banchiere, si accontenta di guadagnare quanto basta.

Senza alcun accenno alle imminenti elezioni europee, aspetto che ha del miracoloso di questi tempi, il dibattito si è spostato sull’Europa. Tutti i partecipanti hanno espresso la convinzione che l’Europa può e deve essere il motore di cui l’Italia ha bisogno, per consolidare la propria politica economica e per superare il fenomeno delle cerchie sociali. La necessità di Europa è ben riassunta da uno slogan di Enrico Letta: “L’Italia era un paese grande in un mondo piccolo, ora è un paese medio in un mondo grande”. Non è più possibile pensare di eccellere, da soli, in ogni settore, come avveniva fino a trent’anni fa.
La conclusione, doverosa, al prof. Sapelli: “La democrazia è imperfetta, il capitalismo è imperfetto, l’etica, in quanto accordo fra uomini, è imperfetta. Solo la morale potrà salvarci”.











 

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