253 - 15.05.04


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Il megafono del dissenso

Marco Cappato con Mauro Buonocore


I mezzi di comunicazioni al posto delle armi. Radio e televisioni che sappiano amplificare nei paesi vittime di dittature e regimi antidemocratici le voci del dissenso, e soprattutto che sappiano dare alla popolazione civile la consapevolezza che esiste un’alternativa concreta all’oppressione, un’alternativa democratica che porti alla luce le opinioni e le proposte democratiche che vivono in condizione di clandestinità. “Piuttosto che investire in armi, i paesi occidentali potrebbero spendere denaro per creare le infrastrutture della democrazia, cioè gli strumenti di comunicazione, informazione e conoscenza necessari a creare un’opinione pubblica attiva laddove finora c’è stata solo repressione”. Sono parole di Marco Cappato, europarlamentare del partito radicale dal quale è partita la proposta, presentata al Parlamento di Strasburgo, delle armi di attrazione di massa, un’idea che nasce dall’assunto che la democrazia fallisce dove viene imposta con le armi e la propaganda, ma può realizzarsi dove si lavora per affermare diritti e libertà attraverso i mezzi di comunicazione.

Da dove nasce la proposta sulle armi di attrazione di massa?
Se noi prendiamo in considerazione le riflessioni di grandi esperti internazionali è che una democrazia non si può limitare soltanto al voto, al momento della scelta di chi debba governare, ma è il risultato di una serie complessa di diritti, garanzie e libertà che comprendono i diritti umani, i diritti civili e politici fondamentali, l’effettiva libertà di conoscenza di comunicazione e di espressione che fanno del consenso espresso democraticamente anche un consenso espresso liberamente. Secondo un recente sondaggio promosso dall’Onu, il 55% della popolazione sudamericana ritiene che la democrazia non sia una buona soluzione e che spesso sia migliore un governo autoritario. Questo risultato è il frutto della storia, anche recente, di popolazioni che hanno vissuto l’esperienza di un miraggio democratico che è poi rimasto ostaggio di populismi, nazionalismi, neocolonialismi, proibizionismi; le aspirazioni democratiche sono rimaste cioè vittime di una serie di pressioni contro il diritto e la libertà democratica di espressione.
In altre parole, nei paesi che vivono un regime illiberale non possiamo propagandare forme di democrazia che si risolvono soltanto con delle elezioni, questo potrebbe portare ad effetti di breve periodo, ma nel corso degli anni il risultato potrebbe essere solo la delusione e la frustrazione di popoli che hanno prima creduto nella democrazia e poi l’hanno vista fallire.

La necessità primaria per i paesi oppressi da una dittatura è dunque quella di creare delle condizioni che consentano la formazione di un consenso libero, consapevole e democratico. Come è possibile realizzare questo obiettivo?

La cosa fondamentale è lavorare al rafforzamento di tutte le opposizioni democratiche, dissidenti, delle voci libere, a partire ovviamente da quelle che si possono esprimere nel territorio. Possiamo immaginare due situazioni distinte. Da una parte realtà come la Corea del Nord e Cuba in cui il regime è talmente forte e chiuso da rendere impossibile l’amplificazione di ogni dissenso interno. In questi casi l’unica possibilità è quella di “bombardare” con informazioni dall’esterno, con le radio libere, con le tv satellitari, far sentire la voce di coloro che, costretti a lasciare il paese, fanno sentire dalla diaspora il loro dissenso al regime.
Ci sono poi situazioni diverse, come ad esempio la Tunisia, in cui, pur vigendo un sistema di governo antidemocratico, è possibile amplificare il dissenso interno, e le forze internazionali possono agire in aiuto all’opposizione democratica.

L’Iraq di oggi in quali di questi due casi può essere considerato? Esistono voci libere interne al paese che cercano di costruire una realtà democratica?

Certo, ci sono, ma rischiano di soccombere nell’escalation della tensione tra etnie, bande e tribù. Un mese fa, con Emma Bonino e Gianfranco Dell’Alba, siamo stati a Nassyria e a Baghdad dove abbiamo prestato particolare attenzione alla situazione delle donne che, dal punto di vista sociale e politico, rappresenta l’esempio più esplosivo di negazione dei diritti sociali e politici nel mondo arabo. In quell’occasione abbiamo incontrato Rajiha Kurzai, un membro del consiglio governativo iracheno che cerca di costruire all’interno del consiglio governativo una forza transetnica, una forza liberale (è così che lei stessa lo definisce) che sia composta da sunniti, sciiti, curdi e che abbia come collante un’impostazione liberal-democratica, non etnica.
Per quanto riguarda i mezzi di comunicazione Al Jazeera e Al Arabiya sono i soli media del mondo arabo ad avere visibilità internazionale. Ci sono anche televisioni satellitari legate ai paesi che sono militarmente impegnati in Iraq ma il rischio è che questi siano organi di propaganda, mentre il modello deve essere quello di un canale di informazione che faccia parlare tutti, in modo da sviluppare un contraddittorio democratico interno al paese.
Quando parliamo di armi di attrazione di massa, intendiamo che è possibile promuovere la democrazia laddove non c’è o rafforzarla laddove è debole attraverso gli strumenti della nonviolenza. Questo significa tradurre le spese militari in investimenti massicci in mezzi di comunicazione che promuovano i diritti e la democrazia, in modo tale da creare una situazione in cui non siamo noi, dall’esterno, dall’Occidente, a scegliere il messaggio da veicolare, ma il nostro compito si materializza nel dare voce al dibattito interno che ha una grande portata destabilizzatrice verso i regimi antidemocratici.

Il problema, allora, è anche capire se gli iracheni stessi sono favorevoli alla costituzione e all’affermazione di una forza politica liberale nel loro paese e come si può costruire il consenso intorno a questa iniziativa.

La popolazione irachena vive una situazione chiaramente molto problematica perché per decenni è stato impedito l’esercizio dell’opinione pubblica, è stato inibito ogni dibattito, ogni pubblico confronto. I curdi e gli sciiti massacrati per decenni dal regime, dopo la caduta di Saddam Hussein hanno trovato il loro primo punto di aggregazione nell’etnia che, da motivo della loro tragedia, si trasforma ora in un punto di forza che consente loro di essere uniti.
Da qui l’importanza di creare gli strumenti perché le persone si aggreghino su basi diverse da quelle etniche. Non è una cosa che si può imporre ma può solo essere il risultato di una grande apertura e di una grande libertà. Dall’arrivo delle forze americane si sono aperti decine di giornali e di radio, ma non basta. Ci vogliono degli investimenti enormi che mirino alla costruzione dell’infrastrutture della democrazia, e cioè la conoscenza, l’informazione, il sistema giuridico, la formazione, gli strumenti che portino agli occhi e alle orecchie degli iracheni il contenuto delle scelte politiche per creare un paese diverso.

In questa direzione il partito radicale si è fatto promotore di una proposta al Parlamento europeo.

La nostra proposta riguarda la realizzazione di Radio Free Europe, cioè la creazione di un embrione di comunicazione che sia finanziato dall’Unione, in modo tale che, così come esiste Voice of America, esista una voce dell’Europa che arrivi nelle zone in cui i conflitti hanno la meglio sulla democrazia. Al momento la proposta è stata bloccata con la motivazione che, non essendoci una politica estera europea, non può esistere un organo di informazione che porti fuori dai suoi confini la voce dell’Unione.
Ma quello che noi proponiamo non è una radio che sia la voce della politica continentale, che diffonda la nostra politica estera, ma una radio che si faccia megafono dei dissensi interni a ciascun paese, che amplifichi il confronto delle opposizioni democratiche interne a ciascuna realtà.

Esiste la possibilità di un futuro europeo in questo senso?

La possibilità esiste, quello che sembra mancare è la volontà politica di convertire linee di bilancio verso iniziative come quella delle armi di attrazione di massa. Quasi la metà del bilancio dell’Ue è dedicato all’agricoltura, se ne convertissimo una parte in investimenti per realizzare le infrastrutture della democrazia nei paesi oppressi dalle dittature, se convertissimo grosse voci di spesa in investimenti tecnologici di promozione della conoscenza, se condizionassimo maggiormente i nostri fondi ai paesi in via di sviluppo alla costruzione di queste infrastrutture, allora inizierebbe un ruolo nuovo e attivo nella politica internazionale.









 

 

 

 

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