I
mezzi di comunicazioni al posto delle armi. Radio
e televisioni che sappiano amplificare nei paesi vittime
di dittature e regimi antidemocratici le voci del
dissenso, e soprattutto che sappiano dare alla popolazione
civile la consapevolezza che esiste un’alternativa
concreta all’oppressione, un’alternativa
democratica che porti alla luce le opinioni e le proposte
democratiche che vivono in condizione di clandestinità.
“Piuttosto che investire in armi, i paesi occidentali
potrebbero spendere denaro per creare le infrastrutture
della democrazia, cioè gli strumenti di comunicazione,
informazione e conoscenza necessari a creare un’opinione
pubblica attiva laddove finora c’è stata
solo repressione”. Sono parole di Marco Cappato,
europarlamentare del partito radicale dal quale è
partita la proposta, presentata al Parlamento di Strasburgo,
delle armi di attrazione di massa, un’idea che
nasce dall’assunto che la democrazia fallisce
dove viene imposta con le armi e la propaganda, ma
può realizzarsi dove si lavora per affermare
diritti e libertà attraverso i mezzi di comunicazione.
Da dove nasce la proposta sulle armi di attrazione
di massa?
Se noi prendiamo in considerazione le riflessioni
di grandi esperti internazionali è che una
democrazia non si può limitare soltanto al
voto, al momento della scelta di chi debba governare,
ma è il risultato di una serie complessa di
diritti, garanzie e libertà che comprendono
i diritti umani, i diritti civili e politici fondamentali,
l’effettiva libertà di conoscenza di
comunicazione e di espressione che fanno del consenso
espresso democraticamente anche un consenso espresso
liberamente. Secondo un recente sondaggio promosso
dall’Onu, il 55% della popolazione sudamericana
ritiene che la democrazia non sia una buona soluzione
e che spesso sia migliore un governo autoritario.
Questo risultato è il frutto della storia,
anche recente, di popolazioni che hanno vissuto l’esperienza
di un miraggio democratico che è poi rimasto
ostaggio di populismi, nazionalismi, neocolonialismi,
proibizionismi; le aspirazioni democratiche sono rimaste
cioè vittime di una serie di pressioni contro
il diritto e la libertà democratica di espressione.
In altre parole, nei paesi che vivono un regime illiberale
non possiamo propagandare forme di democrazia che
si risolvono soltanto con delle elezioni, questo potrebbe
portare ad effetti di breve periodo, ma nel corso
degli anni il risultato potrebbe essere solo la delusione
e la frustrazione di popoli che hanno prima creduto
nella democrazia e poi l’hanno vista fallire.
La
necessità primaria per i paesi oppressi da
una dittatura è dunque quella di creare delle
condizioni che consentano la formazione di un consenso
libero, consapevole e democratico. Come è possibile
realizzare questo obiettivo?
La cosa fondamentale è lavorare al rafforzamento
di tutte le opposizioni democratiche, dissidenti,
delle voci libere, a partire ovviamente da quelle
che si possono esprimere nel territorio. Possiamo
immaginare due situazioni distinte. Da una parte realtà
come la Corea del Nord e Cuba in cui il regime è
talmente forte e chiuso da rendere impossibile l’amplificazione
di ogni dissenso interno. In questi casi l’unica
possibilità è quella di “bombardare”
con informazioni dall’esterno, con le radio
libere, con le tv satellitari, far sentire la voce
di coloro che, costretti a lasciare il paese, fanno
sentire dalla diaspora il loro dissenso al regime.
Ci sono poi situazioni diverse, come ad esempio la
Tunisia, in cui, pur vigendo un sistema di governo
antidemocratico, è possibile amplificare il
dissenso interno, e le forze internazionali possono
agire in aiuto all’opposizione democratica.
L’Iraq di oggi in quali di questi due
casi può essere considerato? Esistono voci
libere interne al paese che cercano di costruire una
realtà democratica?
Certo, ci sono, ma rischiano di soccombere nell’escalation
della tensione tra etnie, bande e tribù. Un
mese fa, con Emma Bonino e Gianfranco Dell’Alba,
siamo stati a Nassyria e a Baghdad dove abbiamo prestato
particolare attenzione alla situazione delle donne
che, dal punto di vista sociale e politico, rappresenta
l’esempio più esplosivo di negazione
dei diritti sociali e politici nel mondo arabo. In
quell’occasione abbiamo incontrato Rajiha Kurzai,
un membro del consiglio governativo iracheno che cerca
di costruire all’interno del consiglio governativo
una forza transetnica, una forza liberale (è
così che lei stessa lo definisce) che sia composta
da sunniti, sciiti, curdi e che abbia come collante
un’impostazione liberal-democratica, non etnica.
Per quanto riguarda i mezzi di comunicazione Al Jazeera
e Al Arabiya sono i soli media del mondo arabo ad
avere visibilità internazionale. Ci sono anche
televisioni satellitari legate ai paesi che sono militarmente
impegnati in Iraq ma il rischio è che questi
siano organi di propaganda, mentre il modello deve
essere quello di un canale di informazione che faccia
parlare tutti, in modo da sviluppare un contraddittorio
democratico interno al paese.
Quando parliamo di armi di attrazione di massa, intendiamo
che è possibile promuovere la democrazia laddove
non c’è o rafforzarla laddove è
debole attraverso gli strumenti della nonviolenza.
Questo significa tradurre le spese militari in investimenti
massicci in mezzi di comunicazione che promuovano
i diritti e la democrazia, in modo tale da creare
una situazione in cui non siamo noi, dall’esterno,
dall’Occidente, a scegliere il messaggio da
veicolare, ma il nostro compito si materializza nel
dare voce al dibattito interno che ha una grande portata
destabilizzatrice verso i regimi antidemocratici.
Il problema, allora, è anche capire
se gli iracheni stessi sono favorevoli alla costituzione
e all’affermazione di una forza politica liberale
nel loro paese e come si può costruire il consenso
intorno a questa iniziativa.
La popolazione irachena vive una situazione chiaramente
molto problematica perché per decenni è
stato impedito l’esercizio dell’opinione
pubblica, è stato inibito ogni dibattito, ogni
pubblico confronto. I curdi e gli sciiti massacrati
per decenni dal regime, dopo la caduta di Saddam Hussein
hanno trovato il loro primo punto di aggregazione
nell’etnia che, da motivo della loro tragedia,
si trasforma ora in un punto di forza che consente
loro di essere uniti.
Da qui l’importanza di creare gli strumenti
perché le persone si aggreghino su basi diverse
da quelle etniche. Non è una cosa che si può
imporre ma può solo essere il risultato di
una grande apertura e di una grande libertà.
Dall’arrivo delle forze americane si sono aperti
decine di giornali e di radio, ma non basta. Ci vogliono
degli investimenti enormi che mirino alla costruzione
dell’infrastrutture della democrazia, e cioè
la conoscenza, l’informazione, il sistema giuridico,
la formazione, gli strumenti che portino agli occhi
e alle orecchie degli iracheni il contenuto delle
scelte politiche per creare un paese diverso.
In questa direzione il partito radicale si
è fatto promotore di una proposta al Parlamento
europeo.
La nostra proposta riguarda la realizzazione di Radio
Free Europe, cioè la creazione di un embrione
di comunicazione che sia finanziato dall’Unione,
in modo tale che, così come esiste Voice of
America, esista una voce dell’Europa che arrivi
nelle zone in cui i conflitti hanno la meglio sulla
democrazia. Al momento la proposta è stata
bloccata con la motivazione che, non essendoci una
politica estera europea, non può esistere un
organo di informazione che porti fuori dai suoi confini
la voce dell’Unione.
Ma quello che noi proponiamo non è una radio
che sia la voce della politica continentale, che diffonda
la nostra politica estera, ma una radio che si faccia
megafono dei dissensi interni a ciascun paese, che
amplifichi il confronto delle opposizioni democratiche
interne a ciascuna realtà.
Esiste la possibilità di un futuro
europeo in questo senso?
La possibilità esiste, quello che sembra mancare
è la volontà politica di convertire
linee di bilancio verso iniziative come quella delle
armi di attrazione di massa. Quasi la metà
del bilancio dell’Ue è dedicato all’agricoltura,
se ne convertissimo una parte in investimenti per
realizzare le infrastrutture della democrazia nei
paesi oppressi dalle dittature, se convertissimo grosse
voci di spesa in investimenti tecnologici di promozione
della conoscenza, se condizionassimo maggiormente
i nostri fondi ai paesi in via di sviluppo alla costruzione
di queste infrastrutture, allora inizierebbe un ruolo
nuovo e attivo nella politica internazionale.
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