Era
il 25 aprile del 1974. Allora, esattamente trent’anni
fa, da un giorno all’altro, il Portogallo cominciò
a “fare” notizia in tutto il mondo. Quasi
completamente sconosciuto, questo Paese, che gli inglesi
conoscevano per il Porto e i francesi per gli emigrati,
diventò improvvisamente il centro mediatico
dell’epoca. Da quel momento e durante i mesi
successivi, Lisbona diventò la città
con il più alto numero di corrispondenti stranieri,
inviati per raccontare quella strana rivoluzione pacifica
passata alla storia come la Revolução
dos Cravos, la Rivoluzione dei garofani.
Tanta attenzione era dovuta al contesto in cui avveniva
e alle peculiari modalità di attuazione di
quel processo. Che rivoluzione era quella guidata
dai militari? Che strada avrebbe preso? Come era possibile
destituire la dittatura più antica d’Europa
senza spargimento di sangue? In quegli anni, inoltre,
non si poteva certo prevedere il crollo del blocco
comunista e molti erano quelli che speravano nella
vittoria sovietica sull’Occidente capitalista.
E allora: quale posizione avrebbe occupato il Portogallo
nel contesto della Guerra fredda?
Gli occhi degli stranieri guardarono a quei mesi
concitati della storia portoghese con sentimenti contrastanti.
Da una parte c’era chi temeva una Cuba europea
e dall’altra chi, invece, vedeva nel Paese lusitano
un esempio da seguire.
Ultimo
Stato coloniale d’occidente, il Portogallo era
stato soggiogato, fino ai giorni di quella primavera
del ’74, dall’anacronistica dittatura
di stampo fascista di Antonio de Oliveira Salazar.
Questi, diventato primo ministro nel 1932, aveva edificato
il suo potere promulgando una Costituzione clerico-dittatoriale,
antiparlamentare e corporativa che sanciva la nascita
dell’Estado novo alla guida del quale
rimase fino al 1968, anno in cui un infarto lo costringerà
a lasciare il potere al suo delfino, Marcelo Caetano.
Partiti e movimenti politici vietati, carceri piene
d’oppositori, leader politici esiliati, sindacati
controllati, rigida censura, scioperi vietati, il
Pide, la polizia politica salazariana, che torturava
e diffondeva il terrore nella popolazione. Era questo
l’Estado Novo di Salazar e Caetano.
Ma sarà la loro politica estera e la loro
pretesa, anch’essa anacronistica, di bloccare
il processo di decolonizzazione nelle colonie portoghesi
in Africa e in Asia a corrodere il regime e a far
crescere quell’opposizione dell’esercito
che porterà al 25 aprile.
Sin
dall’inizio degli anni Sessanta, da quando cioè
cominciarono ad emergere i vari movimenti di liberazione
nazionale nelle colonie, Salazar decise di rispondere
con il pugno di ferro a chi tentava di smembrare l’impero,
“il Portogallo unico e indivisibile”.
In Africa vennero mandati a morire i giovani portoghesi
e i propri superiori. Alla fine di 13 anni di guerra
su tre fronti differenti, i morti furono 11.000 e
30.000 i feriti.
In questo contesto i militari democratici e di estrazione
marxista si unirono nel Movimento das Forças
Armadas e scelsero come capo il Generale Antonio
de Spinola che all’inizio del 1974 aveva pubblicato
un libro, Il futuro e il Portogallo, in cui
sosteneva la necessità di una soluzione politica
al conflitto nelle colonie. L’Mfa preparò
il golpe in ogni suo dettaglio nel corso di riunioni
segrete che si susseguirono nei mesi precedenti alla
liberazione.
Quello storico giorno fu scandito dalle canzoni popolari.
Poco prima della mezzanotte del 25 aprile, infatti,
un’emittente musicale di Lisbona mandò
in onda E depois do adeus una canzone d’amore
di Paulo de Carvalho. Era il segnale di allerta per
le Forze armate del Mfa.
Fu
sulle note di un’altra canzone che prese il
via la rivoluzione. Una ventina di minuti dopo la
mezzanotte Radio Renascença trasmette Grândola
vila morena di José Afonso. I militari
si muovono e occupano in poche ore i centri nevralgici
del Paese. Dentro di te, paese, è il popolo
che più conta, recita la canzone di Afonso
e il popolo non si fa attendere. Nonostante i comunicati
delle Forze armate che invitano a rimanere dentro
casa, le strade vengono invase da una popolazione
festante e finalmente libera. Molti cominciano a donare
garofani ai militari che li infilano nei fucili e
li sublimano a simbolo della rivoluzione.
È stato un brutto sogno che è passato,
un boccone amaro che è finito. Sono le
parole di Eu vim de longe di José
Mario Branco, cantata per le strade durante i giorni
e i mesi seguenti.
Tra le nazionalizzazioni dei primi governi provvisori
comunisti di Vasco Gonçalves, le lotte sociali
e i tentativi di golpe dell’estrema sinistra,
i primi due anni della transizione democratica furono
alquanto febbrili. Dopo l’approvazione della
Costituzione da parte dell’assemblea costituente
eletta il 25 aprile del 1975 e le elezioni del ’76
che portarono alla guida del Paese il Partito socialista,
toccò al primo ministro Mario Soares stabilizzare
la democrazia e dare una nuova identità al
popolo portoghese.
L’opção europeia
e la nuova identità del Portogallo democratico
Chiuso il ciclo imperiale con il trasferimento dei
poteri alle colonie (Guinea e Capo Verde nel ’74,
Timor, Mozambico, Angola e Macao nel ’75); chiuso
il periodo rivoluzionario con la Costituzione nella
quale si definisce la Repubblica portoghese come uno
Stato democratico pluralista, in fase di transizione
verso il socialismo – formula inserita nella
Carta per raccogliere il massimo di consenso nella
fase rivoluzionaria e abrogata nel 1995 – urgeva
risolvere la crisi di identità generata dai
profondi e rapidi rivolgimenti e, allo stesso tempo,
creare le condizioni per recuperare il tempo perso
dai due differenti statalismi: quello protezionista
e coloniale antecedente il 25 aprile e quello collettivista
e rivoluzionario che lo seguì.
La lotta alla proprietà privata e la seguente
nazionalizzazione e burocratizzazione dell’economia,
le lotte sociali e la fuga dei capitali che caratterizzarono
il biennio ‘74-’75, determinarono un peggioramento
della congiuntura economica tra l’altro già
in crisi dal 1973.
La richiesta di adesione alla Cee, inoltrata formalmente
nel marzo 1977 da Soares, primo ministro del primo
Governo costituzionale, deve essere considerata in
questo contesto sia come una risposta ai problemi
della congiuntura economica sia come una scelta strategica
in grado di consolidare la democrazia, assicurare
lo sviluppo e la modernizzazione e di dare una nuova
identità europea e Occidentale al Portogallo
e alla sua popolazione.
Paese europeo, quello lusitano è anche, simultaneamente,
un Paese atlantico, ma Salazar non fu mai un grande
entusiasta della costruzione europea. Tuttavia, da
uomo pragmatico, seguì da vicino le tappe di
questo processo e cercò di mantenere relazioni
economiche con l’Europa entrando nel 1959 nell’Efta.
Dopo la Seconda guerra mondiale Salazar considerava
l’Europa come un continente esausto e senza
possibilità di manovra, schiacciato tra Usa
e Urss. Il Mercato comune e il movimento di integrazione
europeo gli apparivano come miti letterari, senza
prospettiva. L’Estado Novo, che comunque
non possedeva nessuno dei requisiti politici per aderire
al processo di integrazione con i paesi democratici
europei, doveva voltare le spalle al continente e
guardare invece all’Atlantico. Era il miraggio
euro-africano.
L’arrivo al potere di Marcelo Caetano nel 1968,
aprì nuove prospettive ai settori della società
portoghese che vedevano di buon occhio un avvicinamento
all’Europa. Nel ’72, infatti, venne firmato
un accordo commerciale con il Mercato comune. Tuttavia,
tanto il problema coloniale come le caratteristiche
antidemocratiche del regime erano incompatibili con
i principi del Trattato di Roma.
Anche dopo la Rivoluzione dei garofani in pochi videro
nell’avvicinamento all’Europa un’opzione
valida, preferendo, in maggioranza, privilegiare le
relazioni con i paesi nati dal processo di decolonizzazione
portoghese. Per i partiti di destra e di centro-sinistra
l’Europa era un orizzonte privilegiato sia per
l’affinità con il modello politico economico
che per l’appoggio materiale che questa concesse
loro durante tutto il periodo rivoluzionario. Per
i comunisti e i partiti di estrema sinistra, invece,
la prospettiva era quella di un avvicinamento ai paesi
del Terzo mondo e a quelli del “socialismo reale”.
Dopo otto anni dalla richiesta, il 12 giugno del
1985, nel corso della cerimonia al monastero dos Jerònimos
a Lisbona per la firma dell’Atto finale di adesione
del Portogallo (e Spagna) alla Cee, il primo ministro
Mario Soares affermò che l’integrazione
europea rappresentava per il suo Paese “un’opzione
fondamentale per un futuro di progresso e modernità”
e “una conseguenza “naturale del processi
di decolonizzazione e di democratizzazione avviati
il 25 aprile”.
L’integrazione comunitaria ha contribuito negli
anni in maniera determinante allo sviluppo portoghese,
al mutamento della mentalità, all’apertura
della società, al miglioramento delle strutture
e alla stabilizzazione macroeconomica, all’apertura
del sistema finanziario, alla modernizzazione dell’apparato
industriale e del tessuto imprenditoriale, alla riforma
del sistema educativo e amministrativo. Il miracolo
economico portoghese a cavallo tra anni Ottanta e
Novanta, difficilmente si sarebbe realizzato senza
i flussi finanziari di Bruxelles.
Dalla Rivoluzione dei garofani all’Unione europea
il processo si chiude oggi che i portoghesi hanno
interiorizzato la opção europeia come
imprescindibile per il proprio futuro in un mondo
globalizzato.
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