Nei
giorni in cui il dramma dei quattro ostaggi italiani
monopolizzava inevitabilmente l’agenda dei nostri
media, la stampa europea ha cercato di analizzare
le possibili vie di fuga del caos iracheno. C’è
stata unanimità su due punti: sulle responsabilità
di George Bush nella tragedia attuale e sull’impossibilità
di scendere a patti con Osama Bin Laden. E si è
dato anche molto spazio alla possibile mediazione
iraniana e a come il mondo sarebbe diverso se alla
Casa Bianca sedesse il Democratico John Kerry.
George Bush, il prigioniero di s²
Nell'editoriale del 14 aprile, "Lo smacco in Iraq",
Le Monde ha scritto che "in un anno, gli Stati
Uniti si sono mostrati incapaci di stabilizzare l'Iraq".
"Hanno dilapidato un vero capitale di simpatia in
una popolazione che esita tra l'ostilitö nei loro
confronti e la paura che se ne vadano", ha spiegato
il quotidiano parigino, per il quale ora "all'interno
come all'esterno del paese i danni sono immensi, per
tutto il mondo". Stesso bilancio negativo da parte
dell'editoriale di
Liberation, che invita Bush a "abbandonare la
sua pretesa di dettare da solo, dunque anche contro
gli iracheni, il futuro dell'Iraq". Per Liberation
il Presidente americano deve "venire a patti con la
teocrazia sciita e con i sunniti del vecchio regime,
correndo il rischio che Baghdad non sia un modello
di democrazia liberale". E soprattutto deve rivolgersi
all'Onu e smetterla con la retorica del coraggio e
della determinazione, "due qualitö che, esercitate
senz'altra finalitö che esse stesse, si mutano in
ostinazione e stupiditö".
Molto critica verso la Casa Bianca anche
La Vanguardia, per cui "seguitare insistendo nell'errore
non ² la soluzione. E la soluzione forse non ² giö
pið nelle mani di George W. Bush". Il quotidiano di
Barcellona ha scritto che "non si conosce un
piano concreto della Casa Bianca per porre fine alla
guerra civile in Iraq, n³ per convincere l'Onu perch³
assuma un ruolo di protagonista che l'amministrazione
statunitense le ha negato dal primo giorno". Le
Figaro parla di un Bush "prigioniero della propria
logica", mentre
The Guardian affida ad un ex consigliere di Clinton,
Sidney Blumenthal, un'analisi durissima della conferenza
stampa tenuta il 14 aprile dal Presidente americano,
che si ² rivelato un uomo assolutamente "mal informato
sull'Iraq": "Bush appare come un manager passivo che
si compiace di sedere al vertice di una struttura
gerarchica, senza la voglia e senza le capacitö per
fare il duro lavoro che un vero manager deve fare
per guidare la pið grande azienda del mondo. Non sembra
assorbire i dati, a meno che non gli vengano presentati
in maniera semplice e chiara da persone del cui giudizio
si fida. E' ricettivo solo verso informazioni che
coincidono con il suo punto di vista, piuttosto che
verso quelle che lo mettono in discussione".
L'Europa non cade nel tranello di Osama
"No a Bin Laden" era il titolo dell'editoriale
de La Vanguardia del 16 aprile, ed il concetto ² stato
espresso con altrettanta fermezza dai governi e dai
giornali di tutto il continente. Non ² riuscito il
trucco di Bin Laden, che offrendo una tregua all'Europa
intendeva seminare zizzania tra Washington e Bruxelles.
Il quotidiano di Barcellona ha scritto che "la risposta
unanime degli europei non ha tardato nemmeno un'ora
per prodursi", mentre
The Guardian ha dato voce ad un ex ambasciatore
britannico negli Stati Uniti, Sir Christopher Meyer,
che ha detto che "la sfida del terrorismo ² globale,
e in quanto globale tocca l'Europa tanto quanto gli
Usa". "L'uccisione di questo italiano e il messaggio
di Osama Bin Laden ² un tentativo di divide and rule",
ha commentato Meyer, mentre
Le Monde ha citato il futuro ministro degli Esteri
spagnolo, Miguel Angel Moratinos, che ha dichiarato
che non si dovrebbe "n² ascoltare n² fare attenzione"
al messaggio di Bin Laden.
Liberation , per÷, ha invitato a riflettere sul
fatto che il discorso dello sceicco era rivolto non
tanto ai governi, ma forse pið alle opinioni pubbliche
europee.
Prima alternativa: fidarsi dell'Iran
La testardaggine di Bush fa credere ai media europei
che un intervento concreto e prossimo delle Nazioni
Unite sia sempre meno ipotizzabile. Lo spiega
Le Figaro , secondo cui "il problema ² che l'Onu,
giö colpito dall'attentato che ² costato la vita a
Sergio De Mello l'estate scorsa a Baghdad, ² anch'esso
screditato nel mondo musulmano. Gli si rimprovera
in particolare l'inazione nel conflitto israelo-palestinese".
Tra le opzioni in campo al momento c'² intanto quella
di coinvolgere l'Iran, che difficilmente pu÷ rappresentare
una soluzione finale, ma che intanto pu÷ aiutare a
gestire la crisi degli ostaggi e la ribellione sciita.
L'idea piace all'Europa, che con l'Iran ha da sempre
ottimi rapporti (soprattutto economici) e che ha tenuto
negli ultimi anni un dialogo costante con Teheran,
mentre Washington la inseriva nella lista degli "stati
canaglia". "E' la Gran Bretagna che avrebbe invitato
a aggiungersi alle negoziazioni per attenuare la crisi
nel sud dell'Iraq", ha scritto
Le Figaro , citando un rappresentante del Dipartimento
di Stato americano.
Liberation , in un articolo dal titolo "L'Iran
tende la mano ad un Grande Satana impantanato", ha
scritto che "pið che l'occupazione americana, Teheran
teme una vittoria dei nazionalisti iracheni o dello
sciita al Sadr". L'ayatollah Ali Khamenei ha sÒ dichiarato
alla televisione che "presto o tardi, gli Americani
saranno costretti a lasciare l'Iraq nell'onta e nell'umiliazione",
ma "il principale avversario non ² pið Washington,
bensÒ i due nemici tradizionali dello sciismo politico
iraniano: il nazionalismo arabo esacerbato, che ha
inferto all'Iran i colpi pið duri sotto Saddam Hussein,
e l'islam wahhbita importato dall'Arabia Saudita,
che vede sempre nello sciismo un 'complotto degli
ebrei'". Quanto a al Sadr, secondo
Liberation , Teheran non lo vedrebbe di buon occhio
perch³ gli ricorderebbe i "vecchi demoni" dei primi
anni della rivoluzione islamica, i giovani sciiti
ultraradicali. Con il timore che il caos iracheno
sfoci in una guerra civile che debordi in Iran.
Anche la
Sueddeutsche Zeitung ha segnalato che "gli sciiti
in Iraq e in Iran hanno diversi interessi". Entrambi
vogliono il ritiro americano, ma mentre quelli iracheni
stanno "ora sviluppando una nuova coscienza di s³",
nel caso di cui "l'Iraq ,con la sua maggioranza sciita
e gli altri gruppi etnici, sviluppi un ordine liberale,
questo esempio non sarebbe assolutamente ben accolto
dal regime iraniano". Sulla
Frankfurter Allgemeine Zeitung ha invitato invece
a non fidarsi di Teheran l'iracheno Hassan Hussain,
collaboratore del Deutschen Welle, che in un'intervista
ha affermato: "L'Iran vuole solo far precipitare l'Iraq
nel caos".
Seconda alternativa: aspettare Kerry
Il nome di Kerry ² stato fatto a volte quasi con ossessione.
Si ² infiltrato in quasi tutti gli editoriali europei
dedicati alla guerra. Paradigmatico l'intervento di
Timothy Garton Ash, il 15 aprile su
The Guardian . "Con l'Iraq nel caos, abbiamo bisogno
di una nuova entente cordiale, e del Presidente Kerry
alla Casa Bianca", ha scritto il noto commentatore,
che ha ricordato un curioso aneddoto: "'Madam secretary,
quanto lei dice funzionerö in pratica, ma funzionerö
in teoria?' L'appunto, qui citato, di un anziano ufficiale
francese all'allora segretario di Stato americano
Madeleine Albright, riassume cosa piace pensare a
americani e inglesi della profonda differenza tra
i modi di pensare francesi e anglosassoni. Ma qui
c'² una curiosa inversione di ruoli, a marcare il
centesimo anniversario dell'entente cordiale tra Francia
e Gran Bretagna: sulla guerra in Iraq, Blair aveva
ragione in teoria, ma Chirac aveva ragione in pratica".
La pensa allo stesso modo anche il
New York Times , su cui Paul Berman il 15 aprile
ha scritto che, mentre Bush non sa pið parlare alla
sinistra europea, dovrebbero essere i Democratici,
giö oggi, "con una specie di governo ombra", a spiegare
al mondo gli obiettivi della guerra e a richiamare
tutti alla pazienza e al sacrificio. Proprio come
ha giö fatto Kerry, che, mentre Bush taceva, ha chiesto
allo spagnolo Zapatero di mantenere le sue truppe
in Iraq. "Questo non ² un progetto per il dopo-elezioni
- ha concluso Berman - Questo ² un progetto per l'immediato.
L'America ha bisogno di alleati. Oggi, e non solo
domani. E l'America ha bisogno di leaders. Se l'amministrazione
Bush non sa raccogliere consenso nel mondo, lasciamo
che siano altri a provarci".
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