252 - 01.05.04


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Fidarsi dell’Iran o aspettare Kerry?

Daniele Castellani Perelli


Nei giorni in cui il dramma dei quattro ostaggi italiani monopolizzava inevitabilmente l’agenda dei nostri media, la stampa europea ha cercato di analizzare le possibili vie di fuga del caos iracheno. C’è stata unanimità su due punti: sulle responsabilità di George Bush nella tragedia attuale e sull’impossibilità di scendere a patti con Osama Bin Laden. E si è dato anche molto spazio alla possibile mediazione iraniana e a come il mondo sarebbe diverso se alla Casa Bianca sedesse il Democratico John Kerry.

George Bush, il prigioniero di s²

Nell'editoriale del 14 aprile, "Lo smacco in Iraq", Le Monde ha scritto che "in un anno, gli Stati Uniti si sono mostrati incapaci di stabilizzare l'Iraq". "Hanno dilapidato un vero capitale di simpatia in una popolazione che esita tra l'ostilitö nei loro confronti e la paura che se ne vadano", ha spiegato il quotidiano parigino, per il quale ora "all'interno come all'esterno del paese i danni sono immensi, per tutto il mondo". Stesso bilancio negativo da parte dell'editoriale di Liberation, che invita Bush a "abbandonare la sua pretesa di dettare da solo, dunque anche contro gli iracheni, il futuro dell'Iraq". Per Liberation il Presidente americano deve "venire a patti con la teocrazia sciita e con i sunniti del vecchio regime, correndo il rischio che Baghdad non sia un modello di democrazia liberale". E soprattutto deve rivolgersi all'Onu e smetterla con la retorica del coraggio e della determinazione, "due qualitö che, esercitate senz'altra finalitö che esse stesse, si mutano in ostinazione e stupiditö".

Molto critica verso la Casa Bianca anche La Vanguardia, per cui "seguitare insistendo nell'errore non ² la soluzione. E la soluzione forse non ² giö pið nelle mani di George W. Bush". Il quotidiano di Barcellona ha scritto che "non si conosce un piano concreto della Casa Bianca per porre fine alla guerra civile in Iraq, n³ per convincere l'Onu perch³ assuma un ruolo di protagonista che l'amministrazione statunitense le ha negato dal primo giorno". Le Figaro parla di un Bush "prigioniero della propria logica", mentre The Guardian affida ad un ex consigliere di Clinton, Sidney Blumenthal, un'analisi durissima della conferenza stampa tenuta il 14 aprile dal Presidente americano, che si ² rivelato un uomo assolutamente "mal informato sull'Iraq": "Bush appare come un manager passivo che si compiace di sedere al vertice di una struttura gerarchica, senza la voglia e senza le capacitö per fare il duro lavoro che un vero manager deve fare per guidare la pið grande azienda del mondo. Non sembra assorbire i dati, a meno che non gli vengano presentati in maniera semplice e chiara da persone del cui giudizio si fida. E' ricettivo solo verso informazioni che coincidono con il suo punto di vista, piuttosto che verso quelle che lo mettono in discussione".

L'Europa non cade nel tranello di Osama


"No a Bin Laden"
era il titolo dell'editoriale de La Vanguardia del 16 aprile, ed il concetto ² stato espresso con altrettanta fermezza dai governi e dai giornali di tutto il continente. Non ² riuscito il trucco di Bin Laden, che offrendo una tregua all'Europa intendeva seminare zizzania tra Washington e Bruxelles. Il quotidiano di Barcellona ha scritto che "la risposta unanime degli europei non ha tardato nemmeno un'ora per prodursi", mentre The Guardian ha dato voce ad un ex ambasciatore britannico negli Stati Uniti, Sir Christopher Meyer, che ha detto che "la sfida del terrorismo ² globale, e in quanto globale tocca l'Europa tanto quanto gli Usa". "L'uccisione di questo italiano e il messaggio di Osama Bin Laden ² un tentativo di divide and rule", ha commentato Meyer, mentre Le Monde ha citato il futuro ministro degli Esteri spagnolo, Miguel Angel Moratinos, che ha dichiarato che non si dovrebbe "n² ascoltare n² fare attenzione" al messaggio di Bin Laden. Liberation , per÷, ha invitato a riflettere sul fatto che il discorso dello sceicco era rivolto non tanto ai governi, ma forse pið alle opinioni pubbliche europee.

Prima alternativa: fidarsi dell'Iran

La testardaggine di Bush fa credere ai media europei che un intervento concreto e prossimo delle Nazioni Unite sia sempre meno ipotizzabile. Lo spiega Le Figaro , secondo cui "il problema ² che l'Onu, giö colpito dall'attentato che ² costato la vita a Sergio De Mello l'estate scorsa a Baghdad, ² anch'esso screditato nel mondo musulmano. Gli si rimprovera in particolare l'inazione nel conflitto israelo-palestinese". Tra le opzioni in campo al momento c'² intanto quella di coinvolgere l'Iran, che difficilmente pu÷ rappresentare una soluzione finale, ma che intanto pu÷ aiutare a gestire la crisi degli ostaggi e la ribellione sciita. L'idea piace all'Europa, che con l'Iran ha da sempre ottimi rapporti (soprattutto economici) e che ha tenuto negli ultimi anni un dialogo costante con Teheran, mentre Washington la inseriva nella lista degli "stati canaglia". "E' la Gran Bretagna che avrebbe invitato a aggiungersi alle negoziazioni per attenuare la crisi nel sud dell'Iraq", ha scritto Le Figaro , citando un rappresentante del Dipartimento di Stato americano. Liberation , in un articolo dal titolo "L'Iran tende la mano ad un Grande Satana impantanato", ha scritto che "pið che l'occupazione americana, Teheran teme una vittoria dei nazionalisti iracheni o dello sciita al Sadr". L'ayatollah Ali Khamenei ha sÒ dichiarato alla televisione che "presto o tardi, gli Americani saranno costretti a lasciare l'Iraq nell'onta e nell'umiliazione", ma "il principale avversario non ² pið Washington, bensÒ i due nemici tradizionali dello sciismo politico iraniano: il nazionalismo arabo esacerbato, che ha inferto all'Iran i colpi pið duri sotto Saddam Hussein, e l'islam wahhbita importato dall'Arabia Saudita, che vede sempre nello sciismo un 'complotto degli ebrei'". Quanto a al Sadr, secondo Liberation , Teheran non lo vedrebbe di buon occhio perch³ gli ricorderebbe i "vecchi demoni" dei primi anni della rivoluzione islamica, i giovani sciiti ultraradicali. Con il timore che il caos iracheno sfoci in una guerra civile che debordi in Iran.

Anche la Sueddeutsche Zeitung ha segnalato che "gli sciiti in Iraq e in Iran hanno diversi interessi". Entrambi vogliono il ritiro americano, ma mentre quelli iracheni stanno "ora sviluppando una nuova coscienza di s³", nel caso di cui "l'Iraq ,con la sua maggioranza sciita e gli altri gruppi etnici, sviluppi un ordine liberale, questo esempio non sarebbe assolutamente ben accolto dal regime iraniano". Sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung ha invitato invece a non fidarsi di Teheran l'iracheno Hassan Hussain, collaboratore del Deutschen Welle, che in un'intervista ha affermato: "L'Iran vuole solo far precipitare l'Iraq nel caos".

Seconda alternativa: aspettare Kerry


Il nome di Kerry ² stato fatto a volte quasi con ossessione. Si ² infiltrato in quasi tutti gli editoriali europei dedicati alla guerra. Paradigmatico l'intervento di Timothy Garton Ash, il 15 aprile su The Guardian . "Con l'Iraq nel caos, abbiamo bisogno di una nuova entente cordiale, e del Presidente Kerry alla Casa Bianca", ha scritto il noto commentatore, che ha ricordato un curioso aneddoto: "'Madam secretary, quanto lei dice funzionerö in pratica, ma funzionerö in teoria?' L'appunto, qui citato, di un anziano ufficiale francese all'allora segretario di Stato americano Madeleine Albright, riassume cosa piace pensare a americani e inglesi della profonda differenza tra i modi di pensare francesi e anglosassoni. Ma qui c'² una curiosa inversione di ruoli, a marcare il centesimo anniversario dell'entente cordiale tra Francia e Gran Bretagna: sulla guerra in Iraq, Blair aveva ragione in teoria, ma Chirac aveva ragione in pratica". La pensa allo stesso modo anche il New York Times , su cui Paul Berman il 15 aprile ha scritto che, mentre Bush non sa pið parlare alla sinistra europea, dovrebbero essere i Democratici, giö oggi, "con una specie di governo ombra", a spiegare al mondo gli obiettivi della guerra e a richiamare tutti alla pazienza e al sacrificio. Proprio come ha giö fatto Kerry, che, mentre Bush taceva, ha chiesto allo spagnolo Zapatero di mantenere le sue truppe in Iraq. "Questo non ² un progetto per il dopo-elezioni - ha concluso Berman - Questo ² un progetto per l'immediato. L'America ha bisogno di alleati. Oggi, e non solo domani. E l'America ha bisogno di leaders. Se l'amministrazione Bush non sa raccogliere consenso nel mondo, lasciamo che siano altri a provarci".

 

 

 

 

 

 

 

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