Questo articolo è apparso sul quotidiano
l'Unità
venerdì 9 aprile 2004.
Non
fidatevi di chi ha le idee assolutamente chiare su
quel che sta succedendo in Irak. Di chi spaccia ricette
preconfezionate e dice di avere la soluzione in tasca.
Del trito e ritrito che ci continuano a propinare
nelle dichiarazioni ufficiali e nei talk show tv.
Delle semplificazioni per partito preso, o per giustificare
scelte avventate. L’unica certezza è
che continuano a non contarcela giusta. Quel che segue
non è “tutto quello che avete voluto
sempre sapere sull’Iraq, e non avete osato chiedere”.
Sono appunti, frammenti, paletti nel gran pantano.
CAOS – É il termine
più ricorrente in tutte le cronache. É
a scoppio ritardato, un anno dopo la fine dichiarata
delle ostilità. “Una nuova guerra”,
dicono molti commentatori. Il solo a non essersene
accorto sembra il ministro degli Esteri del governo
Berlusconi, Frattini. Continua a dire che si tratta
di operazioni di polizia, perché per giustificare
che abbiamo spedito laggiù i nostri soldati,
senza che avessero la minima idea di che cosa ci andavano
a fare, deve dire che la guerra non c’è.
A rischio di smentire George W. Bush che si dichiara
“presidente di guerra”. Qualche esperto
americano tenta una via di mezzo: una ancora “piccola
guerra”, che però a questo punto potrebbe
“subire una improvvisa escalation in un conflitto
civile di grandi proporzioni, o in una lotta più
ampia tra le forze della coalizione e sia le componenti
sunnite che sciite” (cioè l’80
per cento della popolazione irachena; se ci si mettessero
anche i curdi saremmo pressapoco al 100 per cento).
Ma forse è peggio che una guerra, vecchia o
nuova che sia. Le guerre hanno un obiettivo, una loro
sia pur atroce razionalità, prima o poi finiscono,
si vincono o si perdono. Al caos può non esserci
fine. Combattere il caos è la cosa più
urgente, ci spiegano, non li si può abbandonare
al caos. Suona ragionevole. Sofisticate teorie matematiche
spiegano che anche il caos ha una sua logica. Cui
bisogna contrapporne un’altra. Ma se in questo
caso fosse che la guerra di Bush non era soluzione
del caos iracheno ma è il problema che lo scatena?
COALIZIONE
- I 130.000 soldati americani in Irak non ce la fanno
più. Hanno già rinunciato a ridurli.
Il secondo contingente, con 10.000 uomini à
quello britannico. Il terzo, con oltre 3.000 uomini,
quello italiano. Berlusconi ha avuto molto più
zelo di Aznar, che pur essendo uno dei cosponsor della
guerra, ne aveva inviati solo 1.300. Ma non è
solo Zapatero ad aver annunciato il ritiro spagnolo
da qui a giugno se “non intervengono fatti nuovi”
(una leggitimità inernazionale). Anche il resto
della “coalition of the willing” si sta
sfaldando. La Polonia, quarta per numero di uomini
impegnati (2.500) ci sta ripensando. La Norvegia ha
annunciato che li ritirerà a giugno. La Corea
del Sud ha ordinato ai propri soldati di sospendere
ogni attività al di fuori degli accampamenti.
Gli ucraini hanno abbandonato Kut e il loro governo
sta decidendo il da farsi. I kazaki fanno sapere che
se ne andranno a maggio. Chi le aveva promesse ora
si guarda bene dal mandarle. Persino in America c’è
chi comincia a dire che “è venuto il
momento di andarsene”. Non solo tra i “pacifisti”,
anche tra i conservatori doc: “Non era ovvio
finora, dovrebbe esserlo ora che siamo in una situazione
sfuggita al controllo, ed è evidente che non
riusciamo a realizzare la favola su quanto avremmo
voluto succedesse in Irak”, dice ad esempio
al Los Angeles Times il direttore degli studi sulla
difesa del Cato institute (uno dei principali think
tank di destra) Charles Peña. Hanno chiesto
alla Nato, ma questa è nel pallone. L’ultima
che hanno inventato a Washington è chiedere
ad un certo numero di paesi (sarebbero in corso trattative
con la Francia, e con India e Pakistan, di inviare
truppe “a protezione del personale dell’Onu”.
É troppo pretendere che coloro che già
ci stanno facciano qualcosa per sapere almeno a fare
che?
COMBATTERE NEL BUIO - Non si tratta
solo di ritardi nella ricostruzione, nel rimettere
insieme i cocci. La nebbia del caos è più
impenetrabile di quella che era stata la “fog
of war”. “Le nostre truppe non sanno più
contro chi stanno combattendo e chi stanno difendendo”,
è il modo in cui la mette la columnist del
New York Times Maureeen Dowd. Isterica liberal? “Siamo
al punto del precipizio, con pericolo reale di perdere
il controllo della situazione”, le fa eco “Sandy”
Berger, che non è una mammola dilettante, ma
il consigliere per la sicurezza di Bill Clinton che
aveva architettato la guerra per il Kosovo. “Cerchiamo
di spiegare come le cose stanno andando, e stanno
andando come stanno andando. Certe cose vanno bene,
e altre cose ovviamente non vanno bene...”,
il modo in cui la mette il capo del Pentagono Donald
Rumsfeld.
CREDIBILITA’ - Di tutto quello
che ci avevano detto andavano a fare e sarebbe successo
in Irak è successo esattamente il contrario.
Si sarebbe dovuto liberare il mondo dalla minaccia
“imminente” delle armi di distruzione
di massa di Saddam. E invece non ce n’è
traccia. Anzi, l’“al lupo, al lupo”
sull’Irak ha indebolito la soluzione per altri
poliferatori, a cominciare dalla Corea. Si sarebbe
dovuto liberare gli iracheni e portargli la democrazia.
E invece si rischia di farli precipitare in una guerra
civile più spaventosa della tirannia da cui
sono stati liberati. Ci sarebbe dovuto essere un “effetto
domino” positivo in tutto il Medio oriente.
E invece tutti i “domino” rischiano di
cadere nella direzione sbagliata. Mese dopo mese sono
cambiate le “versioni”. Ma la cosa peggiore
non è neppure la sensazione che qualcuno ci
abbia mentito. Questo tutti i governi lo fanno in
qualche misura. C’è dalle parti nostre
chi mente anche più spudoratamente di Bush.
Il grave è però che in questo modo ci
si è giocati la credibilità del paese
che per buona parte del secolo scorso era stato il
faro e il punto di riferimento dell’Occidente.
Degli Stati uniti il mondo continuerà ad avere
bisogno. I deliri sulla “grande cospirazione
” (che facciano tutto apposta) possono fare
ribrezzo. La cosa davvero tragica è che i colpi
auto-inferti alla credibilità possano rivelarsi
più micidiali e avere conseguenze più
devastanti delle stragi di Al Qaida.
ELEZIONI - Non si sfugge all’impressione
che le uniche elezioni che interessano nelle capitali
occidentali siano quelle in casa propria, non in Irak.
A cominciare ovviamente da quelle americane. Che stia
succedendo l’esatto contrario di quanto aveva
promesso mette in difficoltà Bush. Ma anche
il suo avversario democratico John Kerry. Questi denuncia
la guerra di Bush in Irak come “uno dei più
grandi fallimenti di diplomazia e di giudizio che
ho mai visto in tutta la mia carriera politica”.
Ma quando gli chiedono cosa farebbe di diverso, se
eliminerebbe o no la mina vagante Moqtada al Sadr
e le sue milizie, si limita a dire: “Cosa farei
di diverso ora? Non sono il presidente, non ho combinato
io questo pasticcio e non voglio accollarmi errori
che non ho fatto”.
INSURGENCY - Prima erano i residuati
del regime baathista, i nostalgici di Saddam. Poi
divenne di moda attribuire gli attentati ai “jihadisti”
d’importazione, vedervi lo zampino di Al Qaida.
A suo tempo, pur di non accettare il termine insurgency,
guerriglia, che ricordava sgradevolmente il Vietnam,
Rumsfeld si era arrampicato sul dizionario per sostenere
che si sarebbe trattato di “delinquenti, bande,
terroristi”. Speculare la forzatura di chi ci
vedeva la “resistenza” irachena. Ma come
spiegare l’incredibile “capolavoro”
di essere riusciti a inimicarsi sia i presunti nostalgici
del “vecchio” regime che le sue vittime?
Che siano finiti, come sostengono tutti gli osservatori,
a dover combattere su “due fronti”, contro
i sunniti che potrebbero rimpiangere Saddam e contro
gli sciiti che il suo regime massacrava? Minoranze?
“Una piccola parte della popolazione apertamente
ostile, una piccola parte entusiasticamente cooperante.
Nel mezzo un mare da convincere”: così
tendono a descrivere la situazione i comandanti militari
Usa sul campo. Ma com’è che non riescono
a convincere questa maggioranza? E se finisse invece,
suo malgrado, prigioniera delle minoranze “cattive”?
É già successo, con conseguenze da cui
ancora non si vede la via d’uscita, nel conflitto
israelo-palestinese.
TRANSIZIONE - La data fatidica resta
il 30 giugno. Giurano che non si sposta (anche se
qualche osservatore nota che la formulazione dei giuramento
è sempre più possibilista). Ma transizione
della sovranità a chi? Con quali strumenti
(l’esercito iracheno l’hanno sciolto,
senza paga, facendoseli nemici, la nuova polizia addestrata
con tanti sforzi si sta sistematicamente squagliando
di fronte alle “bande” in conflitto, quando
non parteggia per l’una o l’altra, o entrambi)?
C’è chi in America dice che in realtà
non ci sarà alcun passaggio di sovranità.
“La data è solo simbolica. Quel che avverrà
il 30 giugno sarà la trasformazione dell’amministrazione
provvisoria in ambasciata Usa. Un cambiamento di nome”,
prevede il rettore della Kennedy School of Government
di Harvard, Joseph S.Nye. E vorrebbero che la bevessero
gli altri?
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