251 - 17.04.04


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La guerra nelle urne, ma non solo

Daniele Castellani Perelli


Sebbene la guerra con cui gli anglo-americani hanno conquistato un paese grande e complesso come l’Iraq sia stata relativamente rapida, il suo impatto sulle opinioni pubbliche e sulla politica mondiale è stato impressionante. Dall’estate del 2002 il tema della guerra in Iraq, nei principali paesi europei, è sembrato spesso monopolizzare l’agenda dei governi e dei media, anche perché quel conflitto ha prodotto altri conflitti, meno sanguinosi ma altrettanto delicati, in cui le cancellerie di Londra, Madrid, Berlino e Parigi si sono dovute confrontare con i media e con quella che, proprio in quei drammatici mesi, veniva definita la “seconda superpotenza mondiale”, l’opinione pubblica. Ma si può dire che la guerra abbia monopolizzato i criteri con cui i cittadini hanno giudicato, in Europa, i propri governi?

Gran Bretagna e Spagna: in guerra senza consenso, ma anche tasse e bugie

Partiamo da Gran Bretagna e Spagna. Entrambi i governi hanno appoggiato la guerra in Iraq nonostante il chiaro dissenso trasversale dell’opinione pubblica. Londra, Madrid e Barcellona hanno ospitato oceaniche manifestazioni pacifiste, e i sondaggi segnalavano, appena un mese prima dell’inizio della guerra, che il 91% degli spagnoli e l’84% dei britannici erano contrari all’intervento. I due casi si assomigliano anche per una certa arroganza con cui i due governi, nel conflitto con l’opinione pubblica, hanno comunicato con e attraverso i media. Stretti da una pressione eccezionale, Tony Blair e Josè Maria Aznar, seppure in momenti diversi, hanno cercato di convincere un’opinione pubblica dissenziente attraverso argomenti che, se non erano proprio falsi, perlomeno non possedevano fondamenta solide.

Così Tony Blair ha per mesi insistito sulla presenza di armi di distruzione di massa per giustificare l’intervento, e il mancato ritrovamento di quelle ha condotto a una forte caduta d’immagine della sua persona e del suo governo. La “bugia” rafforzava il conflitto con l’opinione pubblica, che a sua volta trovava un’autorevolissima sponda nella Bbc, prima ostile alla guerra e poi al centro di un clamoroso scontro con l’esecutivo. Il giornalista della Bbc Andrew Gilligan accusava in maggio il governo di aver reso più affascinante (“sexed up”) le accuse contro Saddam Hussein. In particolare, secondo Gilligan, risultava falso l’allarme lanciato dal governo nel dossier sull’Iraq, secondo cui entro “45 minuti” Saddam avrebbe potuto usare armi di distruzione di massa. Si venne poi a sapere che la fonte delle accuse di Gilligan, che avevano portato alle dimissioni il responsabile della comunicazione di Downing Street Alastair Campbell (lo storico spin doctor di Blair), era David Kelly, esperto di armi chimiche e batteriologiche e consulente del governo. Travolto dal rumore e dalle polemiche, il 17 luglio Kelly si toglieva la vita. La Commissione d’inchiesta ha poi scagionato il governo dall’accusa di aver manipolato le informazioni sulle armi di Saddam e di avere lasciato solo Kelly, e ha altresì condannato il comportamento di Gilligan (reo di aver violato la golden rule del giornalismo anglosassone, cioè la necessità di confermare una notizia attraverso una seconda fonte), portando alle dimissioni del giornalista e, a fine gennaio 2004, a quelle, clamorose, del direttore generale della Bbc Greg Dyke e del presidente Gavyn Davies, laburista della prima ora.

Nonostante questo, il partito di Tony Blair è in calo di consensi da più di un anno: i conservatori, nel febbraio 2003, erano a solo un punto dai laburisti, con i pacifisti liberali in forte rimonta su entrambi i rivali. Tuttavia la scelta della guerra, che ha spaccato il partito di Blair e condotto alle dimissioni molti esponenti del suo governo, verosimilmente non è il motivo principale di questa crisi di consenso, visto che anche i conservatori erano favorevoli. Semmai lo sono i conflitti derivati da quella scelta e, da non sottovalutare, una naturale stanchezza per un governo in carica da molto tempo, nonché una serie di provvedimenti sociali molto sofferti, come quello sulle tasse universitarie.

Anche il governo Aznar, in Spagna, nella difficoltà di giustificare l’appoggio a una guerra decisamente impopolare, è stato condotto a mentire. E la terribile aggravante è che lo ha fatto strumentalizzando il giorno più luttuoso della democrazia spagnola. L’esecutivo ha infatti immediatamente addossato le colpe dell’attentato dell’11 marzo all’Eta, sottovalutando volutamente gli indizi che da subito portavano alla pista islamica. Attribuire la strage all’Eta avrebbe compattato l’opinione pubblica intorno al governo, autore di una politica di fermezza nei confronti dei terroristi baschi, mentre un’eventuale responsabilità islamica sarebbe stata direttamente ricollegata, in negativo, alla già impopolare politica filoamericana di Aznar. Così, mentre l’Eta negava il proprio coinvolgimento e vicino alla stazione di Alcalà veniva ritrovato un furgone con dei detonatori e una cassetta con registrati versetti del Corano, il Ministro degli Interni Angel Acebes affermava che l’Eta rimaneva la prima pista (“Volevano un attentato prima delle elezioni che avesse dimensioni importanti”), il Ministro degli Esteri Ana Palacio invitava gli ambasciatori spagnoli a sostenere la colpevolezza dei terroristi baschi, e il candidato premier Rajoy sosteneva d’essere “moralmente convinto del coinvolgimento dell’Eta”.

Le elezioni del 14 marzo hanno visto il Psoe ribaltare i sondaggi dei giorni precedenti la strage. Questo è stato il caso in cui la guerra in Iraq ha influito di più nel mutamento politico dell’opinione pubblica. Ma la svolta non è venuta tanto dalla scelta, pur assai impopolare, dell’appoggio alla guerra in sé (che avrebbe portato comunque alla vittoria del Pp, come dicevano i sondaggi), quanto dall’arroganza e dal cinismo del governo: due qualità negative che erano già note all’opinione pubblica, ma che questi eventi hanno portato all’eccesso, all’intollerabile. Anche in questo caso i media hanno giocato un ruolo imponente, permettendo la svolta elettorale: se il servilismo della tv pubblica ha evidenziato il cinismo della maggioranza, l’indipendenza e l’intraprendenza di molta stampa hanno saputo dar voce alle frustrazioni e ai dubbi della pubblica opinione.

Germania e Francia: pacifismo con consenso, ma anche riforme e crisi economica

In Germania il no deciso all’intervento in Iraq ha permesso al Cancelliere Schroeder di essere riconfermato (“Ohne mich”, “senza di me”, era il suo slogan), ma anche qui sarebbe semplicistico credere che la guerra abbia monopolizzato l’agenda dei cittadini: allora gli elettori avevano già quattro anni di governo da giudicare, e giocarono il proprio ruolo anche l’efficacia dei soccorsi per l’alluvione dell’Elba nell’agosto 2002. Il ragionamento è più chiaro se pensiamo all’oggi: i governi di Germania e Francia hanno saputo esprimere perfettamente il “pacifismo” delle rispettive opinioni pubbliche (nella prima l’80% dei cittadini era contrario alla guerra, nella seconda il 73%), ma questo non li sta mettendo al riparo da una serie di catastrofi elettorali. La maggioranza rosso-verde ha perso le elezioni in Assia, in Bassa Sassonia e ad Amburgo, e i sondaggi danno la Spd al minimo storico del 25% dei consensi, contro il 49% della Cdu. Il superpartito di Chirac, come sappiamo, è uscito vincente solo in una delle 23 regioni, alle elezioni del 28 marzo. Dunque in questi due grandi paesi la triplice alleanza governo-media-opinione pubblica, tutta schierata contro la guerra in Iraq, non è affatto bastata ad evitare un calo dei consensi spaventoso.

La guerra in Iraq ha insomma stravolto coscienze e opinioni e politiche (non ultimo il caso, in Finlandia, di Annelli Jaatenmaki, la premier dimessasi in seguito ad uno scandalo di documenti segreti sulla guerra, sottratti ai suoi avversari politici), ma non si può credere che abbia monopolizzato l’agenda dell’opinione pubblica. Senso di stanchezza dell’elettorato, arroganza e cinismo dei governi (Spagna e Gran Bretagna), dissenso sulle riforme sociali (Francia e Gran Bretagna), crisi economica (Germania) sono argomenti che hanno contato e stanno contando forse di più. E c’è da giurare che anche in Italia, alla fine, elettori sempre più pragmatici voteranno sì sulla base dei riflessi interni della politica estera (come l’aumentata minaccia del terrorismo in Spagna in seguito all’appoggio del governo alla politica americana), ma anche e soprattutto, come sanno Raffarin e Schroeder, sulla base delle proprie tasche.



 

 

 

 

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