Sebbene
la guerra con cui gli anglo-americani hanno conquistato
un paese grande e complesso come l’Iraq sia
stata relativamente rapida, il suo impatto sulle opinioni
pubbliche e sulla politica mondiale è stato
impressionante. Dall’estate del 2002 il tema
della guerra in Iraq, nei principali paesi europei,
è sembrato spesso monopolizzare l’agenda
dei governi e dei media, anche perché quel
conflitto ha prodotto altri conflitti, meno sanguinosi
ma altrettanto delicati, in cui le cancellerie di
Londra, Madrid, Berlino e Parigi si sono dovute confrontare
con i media e con quella che, proprio in quei drammatici
mesi, veniva definita la “seconda superpotenza
mondiale”, l’opinione pubblica. Ma si
può dire che la guerra abbia monopolizzato
i criteri con cui i cittadini hanno giudicato, in
Europa, i propri governi?
Gran Bretagna e Spagna: in guerra senza
consenso, ma anche tasse e bugie
Partiamo da Gran Bretagna e Spagna. Entrambi i governi
hanno appoggiato la guerra in Iraq nonostante il chiaro
dissenso trasversale dell’opinione pubblica.
Londra, Madrid e Barcellona hanno ospitato oceaniche
manifestazioni pacifiste, e i sondaggi segnalavano,
appena un mese prima dell’inizio della guerra,
che il 91% degli spagnoli e l’84% dei britannici
erano contrari all’intervento. I due casi si
assomigliano anche per una certa arroganza con cui
i due governi, nel conflitto con l’opinione
pubblica, hanno comunicato con e attraverso i media.
Stretti da una pressione eccezionale, Tony Blair e
Josè Maria Aznar, seppure in momenti diversi,
hanno cercato di convincere un’opinione pubblica
dissenziente attraverso argomenti che, se non erano
proprio falsi, perlomeno non possedevano fondamenta
solide.
Così
Tony Blair ha per mesi insistito sulla presenza di
armi di distruzione di massa per giustificare l’intervento,
e il mancato ritrovamento di quelle ha condotto a
una forte caduta d’immagine della sua persona
e del suo governo. La “bugia” rafforzava
il conflitto con l’opinione pubblica, che a
sua volta trovava un’autorevolissima sponda
nella Bbc, prima ostile alla guerra e poi al centro
di un clamoroso scontro con l’esecutivo. Il
giornalista della Bbc Andrew Gilligan accusava in
maggio il governo di aver reso più affascinante
(“sexed up”) le accuse contro Saddam Hussein.
In particolare, secondo Gilligan, risultava falso
l’allarme lanciato dal governo nel dossier sull’Iraq,
secondo cui entro “45 minuti” Saddam avrebbe
potuto usare armi di distruzione di massa. Si venne
poi a sapere che la fonte delle accuse di Gilligan,
che avevano portato alle dimissioni il responsabile
della comunicazione di Downing Street Alastair Campbell
(lo storico spin doctor di Blair), era David
Kelly, esperto di armi chimiche e batteriologiche
e consulente del governo. Travolto dal rumore e dalle
polemiche, il 17 luglio Kelly si toglieva la vita.
La Commissione d’inchiesta ha poi scagionato
il governo dall’accusa di aver manipolato le
informazioni sulle armi di Saddam e di avere lasciato
solo Kelly, e ha altresì condannato il comportamento
di Gilligan (reo di aver violato la golden rule
del giornalismo anglosassone, cioè la necessità
di confermare una notizia attraverso una seconda fonte),
portando alle dimissioni del giornalista e, a fine
gennaio 2004, a quelle, clamorose, del direttore generale
della Bbc Greg Dyke e del presidente Gavyn Davies,
laburista della prima ora.
Nonostante questo, il partito di Tony Blair è
in calo di consensi da più di un anno: i conservatori,
nel febbraio 2003, erano a solo un punto dai laburisti,
con i pacifisti liberali in forte rimonta su entrambi
i rivali. Tuttavia la scelta della guerra, che ha
spaccato il partito di Blair e condotto alle dimissioni
molti esponenti del suo governo, verosimilmente non
è il motivo principale di questa crisi di consenso,
visto che anche i conservatori erano favorevoli. Semmai
lo sono i conflitti derivati da quella scelta e, da
non sottovalutare, una naturale stanchezza per un
governo in carica da molto tempo, nonché una
serie di provvedimenti sociali molto sofferti, come
quello sulle tasse universitarie.
Anche il governo Aznar, in Spagna, nella difficoltà
di giustificare l’appoggio a una guerra decisamente
impopolare, è stato condotto a mentire. E la
terribile aggravante è che lo ha fatto strumentalizzando
il giorno più luttuoso della democrazia spagnola.
L’esecutivo ha infatti immediatamente addossato
le colpe dell’attentato dell’11 marzo
all’Eta, sottovalutando volutamente gli indizi
che da subito portavano alla pista islamica. Attribuire
la strage all’Eta avrebbe compattato l’opinione
pubblica intorno al governo, autore di una politica
di fermezza nei confronti dei terroristi baschi, mentre
un’eventuale responsabilità islamica
sarebbe stata direttamente ricollegata, in negativo,
alla già impopolare politica filoamericana
di Aznar. Così, mentre l’Eta negava il
proprio coinvolgimento e vicino alla stazione di Alcalà
veniva ritrovato un furgone con dei detonatori e una
cassetta con registrati versetti del Corano, il Ministro
degli Interni Angel Acebes affermava che l’Eta
rimaneva la prima pista (“Volevano un attentato
prima delle elezioni che avesse dimensioni importanti”),
il Ministro degli Esteri Ana Palacio invitava gli
ambasciatori spagnoli a sostenere la colpevolezza
dei terroristi baschi, e il candidato premier Rajoy
sosteneva d’essere “moralmente convinto
del coinvolgimento dell’Eta”.
Le elezioni del 14 marzo hanno visto il Psoe ribaltare
i sondaggi dei giorni precedenti la strage. Questo
è stato il caso in cui la guerra in Iraq ha
influito di più nel mutamento politico dell’opinione
pubblica. Ma la svolta non è venuta tanto dalla
scelta, pur assai impopolare, dell’appoggio
alla guerra in sé (che avrebbe portato comunque
alla vittoria del Pp, come dicevano i sondaggi), quanto
dall’arroganza e dal cinismo del governo: due
qualità negative che erano già note
all’opinione pubblica, ma che questi eventi
hanno portato all’eccesso, all’intollerabile.
Anche in questo caso i media hanno giocato un ruolo
imponente, permettendo la svolta elettorale: se il
servilismo della tv pubblica ha evidenziato il cinismo
della maggioranza, l’indipendenza e l’intraprendenza
di molta stampa hanno saputo dar voce alle frustrazioni
e ai dubbi della pubblica opinione.
Germania e Francia: pacifismo con consenso,
ma anche riforme e crisi economica
In Germania il no deciso all’intervento in
Iraq ha permesso al Cancelliere Schroeder di essere
riconfermato (“Ohne mich”, “senza
di me”, era il suo slogan), ma anche qui sarebbe
semplicistico credere che la guerra abbia monopolizzato
l’agenda dei cittadini: allora gli elettori
avevano già quattro anni di governo da giudicare,
e giocarono il proprio ruolo anche l’efficacia
dei soccorsi per l’alluvione dell’Elba
nell’agosto 2002. Il ragionamento è più
chiaro se pensiamo all’oggi: i governi di Germania
e Francia hanno saputo esprimere perfettamente il
“pacifismo” delle rispettive opinioni
pubbliche (nella prima l’80% dei cittadini era
contrario alla guerra, nella seconda il 73%), ma questo
non li sta mettendo al riparo da una serie di catastrofi
elettorali. La maggioranza rosso-verde ha perso le
elezioni in Assia, in Bassa Sassonia e ad Amburgo,
e i sondaggi danno la Spd al minimo storico del 25%
dei consensi, contro il 49% della Cdu. Il superpartito
di Chirac, come sappiamo, è uscito vincente
solo in una delle 23 regioni, alle elezioni del 28
marzo. Dunque in questi due grandi paesi la triplice
alleanza governo-media-opinione pubblica, tutta schierata
contro la guerra in Iraq, non è affatto bastata
ad evitare un calo dei consensi spaventoso.
La guerra in Iraq ha insomma stravolto coscienze e
opinioni e politiche (non ultimo il caso, in Finlandia,
di Annelli Jaatenmaki, la premier dimessasi in seguito
ad uno scandalo di documenti segreti sulla guerra,
sottratti ai suoi avversari politici), ma non si può
credere che abbia monopolizzato l’agenda dell’opinione
pubblica. Senso di stanchezza dell’elettorato,
arroganza e cinismo dei governi (Spagna e Gran Bretagna),
dissenso sulle riforme sociali (Francia e Gran Bretagna),
crisi economica (Germania) sono argomenti che hanno
contato e stanno contando forse di più. E c’è
da giurare che anche in Italia, alla fine, elettori
sempre più pragmatici voteranno sì sulla
base dei riflessi interni della politica estera (come
l’aumentata minaccia del terrorismo in Spagna
in seguito all’appoggio del governo alla politica
americana), ma anche e soprattutto, come sanno Raffarin
e Schroeder, sulla base delle proprie tasche.
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