L'autore è stato Primo ministro
danese dal '93 al 2001, e per dieci anni ('92- 2002)
ha guidato il partito socialdemocratico del suo paese.
Quello che segue è l'intervento tenuto al convegno
"L'Europa nel mondo che cambia" organizzato
dai Democratici di sinistra a Firenze il 30 e il 31
gennaio 2004.
Oggi viviamo un momento cruciale in cui, mentre in Italia
la sinistra si muove, si intravede la possibilità
di creare un nuovo futuro per l’Ue. Io sento,
infatti, che il pendolo dell’Europa sta cambiando
di nuovo: dopo i tempi difficili che hanno visto le
destre protagoniste, ora la sinistra ha la possibilità
di tornare al potere. Ma ad una condizione senza la
quale perderemo ancora: ricreare le connessioni tra
il nostro lavoro e le speranze ed i sogni della gente
comune.
Il nostro maggior nemico non è necessariamente
rappresentato dalle destre, ma è, invece, l’apatia,
la mancanza di speranza tra la gente comune, il non
essere chiari nei confronti delle loro domande e dei
loro sogni. Noi dobbiamo trovare, tra la politica
e le persone comuni, una nuova connessione, un nuovo
rapporto che sappia sostituire i vecchi modi di relazionarsi
tra governanti ed elettori, che ormai non rispondono
più alle mutate esigenze della realtà
contemporanea.
C’è stato un tempo in cui in Italia noi
socialisti sapevamo rispondere alle domande della
gente, quando questa ci chiedeva di trovare la strada
verso lavori migliori, verso una maggiore sicurezza,
una migliore educazione, una più attenta cura
degli anziani. Ma oggi le risposte non si possono
più trovare soltanto all’interno dei
confini nazionali, e noi dobbiamo sforzarci di trovare
risposte e soluzioni che sappiano trascendere le dimensioni
dello Stato-nazione portandolo verso la realtà
di un nuovo mondo che apre le vie della politica estera
allo scenario europeo e a quello globale, sulle strade
di quella che tecnicamente chiamiamo multilevel
governance.
L’Europa svolga all’interno di questo
processo un ruolo da protagonista che la impegna non
solo nella creazione di politiche nuove che sappiano
essere vicine ai desideri e ai bisogni delle persone,
ma anche nelle dinamiche di riforma della globalizzazione
che vogliano condurci a governare in un modo migliore,
per un pianeta più giusto, più equo,
più democratico e più sostenibile. L’agenda
politica che verrà definita dopo le prossime
elezioni europee dovrebbe essere basata allora su
un accordo molto chiaro tra le tre istituzioni dell’Unione
europea, ovvero la Commissione, il Consiglio e il
Parlamento, in modo da centrare le forze su un obiettivo
chiaro come la definizione del ruolo globale dell’Europa
in una realtà che non ammette distanze, ma
esige alleanze, con mondi diversi da quelli della
politica dei palazzi, come le Ong ed i World Social
Forum.
I nostri recenti global progressive
forum (nati dalla collaborazione tra l’Internazionale
Socialista, il Pse e il gruppo parlamentare europeo
socialista) potrebbero essere lo scenario di cui abbiamo
bisogno per costruire ponti tra le Ong e il nostro
partito politico. Qualunque sarà il contesto
istituzionale dell’Europa, qualunque sarà
il ritratto che verrà fuori dai lavori sulla
Costituzione, non potremo affrontare questa responsabilità
politica globale nascondendoci dietro una cornice
istituzionale. Sono due gli errori che andranno evitati
con cura particolare: non riformare i nostri metodi
di lavoro e non realizzare il nostro ruolo globale.
Ma non ci sono errori da evitare, ovviamente esistono
anche punti sui quali concentrarsi per costruire una
strategia di lavoro, e mi pare che se ne possano individuare,
ntra i più importanti, tre.
Anzitutto dobbiamo assicurare nell’Europa sicurezza
e stabilità. L’Ue dovrebbe equipaggiarsi
con i mezzi politici, finanziari e militari adeguati
per giocare un ruolo attivo nella prevenzione e nella
risoluzione di conflitti. C’è chi sostiene
che gli Stati Uniti dimostrino il loro desiderio di
pace con le invesioni di paesi stranieri. Se noi vogliamo
una nuova pace, possiamo inseguirla creando nuovi
membri dell’Unione europea. Questo fa la differenza
tra guerre preventive e politiche preventive. Ma oltre
a questa che possiamo definire soft-policy
per il mantenimento della pace abbiamo anche bisogno
di una hard-policy. Nell’Enrivo
IV di Shakespeare c’è un dialogo
in cui Glendower, nemico del re, dice a Hotspur, un
giovane che combatteva per i suoi ideali: “Sai,
giovane uomo, io posso invocare gli spiriti dai più
profondi abissi”; e il giovane guerriero risponde:
“Certo che puoi. Posso chiamarli anch’io.
Ma dimmi una cosa: quando li chiami, loro vengono?”.
Ecco, se noi vogliamo che la nostra politica morbida,
fatta di accordi per il mantenimento della pace funzioni,
abbiamo anche bisogno di essere forti e concreti,
abbiamo bisogno che gli spiriti degli abissi vengano
a noi quando abbiamo la necessità di invocarli.
Un altro punto importante per la definizione concreta
di un ruolo da protagonista nella politica estera
riguarda il fatto che l’intera politica mediterranea
europea meriterebbe un occhio particolare, che guardi
nella direzione di rinforzare la partnership euro-mediterranea
soprattutto attraverso un considerevole incremento
delle risorse finanziarie. Fino ad ora, quando si
parlava di politica estera, ci siamo chiesti semplicemente
se si trattava di paesi che appartenevano o potevano
appartendere all’Ue o meno. Ma ora dobbiamo
sviluppare una nuova partnership più forte
e attiva di quella che c’è stata finora
con i paesi che ci sono vicini. Sappiamo che l’Ue
ha una responsabilità sulle realtà e
sul futuro non solo dei Paesi africani, soprattutto
quelli che si affacciano sul Mediterraneo, ma anche
verso il mondo arabo.
Diamo uno sguardo alle popolazioni nordafricane.
Vivono in condizioni di sicurezza sociale molto bassa,
allo stesso tempo il loro tasso di scolarizzazione
è del 2% più alto della media africana,
la percentuale di persone che posseggono un telefono
cellulare è di cinque punti più alta
della media continentale. Non è difficile immaginare
allora quali siano i sogni e le aspirazioni di questi
giovani, di queste donne, di questi uomini: ammirano
in tv il nostro stile di vita, e alla fine della giornata
hanno una sola scelta tra l’immigrazione o la
scuola coranica. Io penso che sia un nostro obbligo
dare loro la possibilità di una scelta migliore,
nel loro e nel nostro interesse.
Il terzo e ultimo punto su cui vorrei fermare la
mia attenzione è sul fatto che la Ue dovrebbe
ora rinforzare il suo ruolo di partner privilegiato
del mondo in via di sviluppo. Lula, la nostra nuova
speranza in America Latina, ha chiesto all’Ue
di aiutare il Brasile nella sua lotta contro la povertà,
ma il suo richiamo è stato ignorato fino ad
ora. Almeno tredici milioni di africani sono oggi
colpiti dal virus dell’hiv, e tuttavia l’Europa
copre solo il 20% del bisogno annuale dei fondi globali
per la lotta all’Aids. Non possiamo continuare
così, dobbiamo incrementare i nostri aiuti,
dobbiamo lavorare nella direzione di sostenere i processi
di integrazione di questi paesi all’interno
dello scenario globale. Così dovremmo aiutare
il sud-est asiatico ad integrarsi, sotto l’egida
dell’Asean, e dovremmo aiutare l’America
Latina ad integrarsi, sotto l’egida del Mercosur.
E dovremmo ovviamente assistere l’Africa in
una integrazione simile. Se avviciniamo la Cina, l’India
e gli Stati Uniti all’Europa, allora potremo
vedere la nascita di un nuovo ordine mondiale, basato
su regioni che si integrino in modo sempre più
forte, perché sappiamo per esperienza che l’integrazione
è la migliore assicurazione a lungo termine
contro il ritorno della guerra.
In conclusione la domanda che ci poniamo, alla vigilia
delle elezioni che si svolgeranno a giugno, è:
quale sarà il nostro spazio politico di manovra
nel futuro immediato? Credo che la risposta a questa
domanda stia soltanto e semplicemente nel tentativo
che dovremmo fare di politicizzare l’Europa.
Dovremmo portare gli elettori a fare una scelta politica
chiara e univoca, che risponda all’esigenza
di un’Europa aperta, responsabile e pronta ad
imparare. Un’Europa che si prenda cura di sè
e del mondo che le sta intorno e che lascerà
alle generazioni future.
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