248- 06.03.04


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“L’Irak come l’ho visto io”

Marco Calamai con Mauro Buonocore

Marco Calamai conosce l’Irak per esserci stato, per averci lavorato come esponente della Coalition Provisional Authority (Cpa), l’agenzia che gestisce le opere di ricostruzione civile dopo la guerra. Ma lo scorso mese di novembre Calamai ha lasciato la sua postazione a Nassiriya poco dopo l’attentato che ha colpito la base militare italiana.

“L’importanza di stare in Irak ora – dice Calamai – è secondo me nel tentativo di creare legami che non siano solo ed esclusivamente di natura militare, ma che sappiano anche andare direttamente al cuore della società civile irachena. Le università sono centri di irradiazione di nuovi stimoli, un progetto che crei un ponte di scambio e di comunicazione tra le realtà culturali del mondo arabo e dell’Occidente può senz’altro produrre un clima nuovo e contribuire alla creazione di presupposti di un contesto che abbia potenzialità positiva per il futuro”.
E allora, da qui, la fine dell’esperienza a Nassiriya, raccontata in un libro pubblicato da l’Unità con il titolo Diario da Nassiriya. Fine di un’illusione, e un progetto che dall’Italia vuole mettere in stretta relazione gli atenei iracheni con quelli del nostro paese. Ma per capire tutta la vicenda conviene partire dall’inizio.

Marco Calamai, qual era il suo ruolo a Nassiriya?

Ero consigliere speciale della Cpa, l’Autorità provvisoria della coalizione. Il mio ruolo riguardava il coordinamento di due iniziative, da una parte gestivo la ricostruzione civile del territorio, quindi progetti finalizzati a risolvere problemi sociali di importanza primaria, dalle scuole agli ospedali alle fognature all’acqua potabile. L’altro era quello delle elezioni municipali.

Aveva il compito di organizzare elezioni?

Ora le spiego. Il territorio Iracheno è diviso in 18 province, Nassirya è il capoluogo della provincia di Dhi Qar, una zona estesa quanto la nostra Campania, in cui gli italiani avevano la giurisdizione militare. Qui si è iniziato ad avvertire una forte richiesta dal basso, promossa da forze politiche e religiose locali, per svolgere elezioni nei venti municipi che compongono la provincia.

Nella fase iniziale della guerra sindaci e consiglieri erano stati nominati dalle forze militari della Coalizione, quindi scelti tra persone di sicura lealtà alla causa
americana. Ora però, la popolazione ha iniziato a dimostrare l’esigenza di eleggere in piena autonomia i propri rappresentanti. Conosco bene questa situazione perché l’idea del nostro gruppo di lavoro era quella di svolgere opere civili in stretto contatto con i municipi, in modo da consultare questi ultimi per capire quali fossero le priorità economiche e sociali più significative e mettere l’amministrazione irachena nelle condizioni di iniziare a gestire il proprio territorio. Era un lavoro che bisognava fare in maniera graduale ma andava iniziato perché i municipi iracheni sono stati finora delle strutture periferiche di un potere centralista che non lasciava loro alcuna possibilità di incidere sulle scelte e sulle decisioni che riguardavano il territorio.

A questo punto ho scoperto però che gli americani non vedevano di buon occhio questo progetto di coinvolgimento delle amministrazioni locali. I municipi non godevano che di pochissima considerazione nei progetti di ricostruzione, civile e politica, del paese. Ho maturato allora la consapevolezza che il processo di transizione verso la democrazia messo in atto dagli americani e gestito in quella provincia dagli inglesi, mortificava l’idea di mettere i cittadini iracheni nelle condizioni di decidere in piena autonomia la scelta dei governanti. Insomma, mi pareva che si trattasse di un modo antidemocratico di gestire la situazione, opposto ad ogni idea che voglia condurre alla realizzazione di una democrazia effettiva.

Ma c'² dell'altro. I soldi americani per la ricostruzione andavano non alla Cpa, ma a multinazionali come la Haliburton e la Bechtel. Il grosso delle spese infrastrutturali, quindi, veniva gestito attraverso un rapporto diretto tra gli americani e le aziende statunitensi coinvolte nei progetti e nel business iracheno. Tale situazione ha creato fra gli abitanti ulteriore frustrazione e malessere crescente. Parlando con gli iracheni, si capiva a chiare lettere che loro si dicevano grati agli americani per averli liberati da Saddam, ma al tempo stesso, ora, la loro esigenza pið forte ² quella di autogovernarsi e gestire da soli il paese. L'amministrazione civile internazionale, per altro, non dimostra di essere capace di rispondere alle domande che venivano dai cittadini in un contesto di crescente logoramento sociale ed economico, in cui la disoccupazione cresce, i servizi sono sempre pið inefficienti e, soprattutto, l'insicurezza aumenta sempre pið. In poche parole: un esercito che occupa un territorio non ² in grado di garantire la sicurezza dei cittadini per il semplice fatto che ² un esercito che viene da un paese straniero ed ² completamente estraneo alla realtö locale. Questo insieme di cose ² il filo conduttore del mio diario, pagine che ho scritto giorno per giorno a Nassiriya e che ogni sera inviavo a mia moglie in Italia.

Che posto occupa, in questo contesto, l’attentato che ha colpito i militari italiani?

La mia personalissima opinione è che non ci sia un legame meccanico tra quello che avviene nella zona tra la popolazione locale e l’attentato. Io credo che l’attentato sia stato organizzato da persone esterne alla realtà locale che a Nassiriya avevano dei contatti.

Quindi, secondo lei, non c’è connessione tra l’attentato e il malessere della popolazione locale nei confronti di un esercito straniero che opera sul territorio?

Credo di no, però paradossalmente, nella misura in cui l’attentato si è verificato in una situazione di profondo malessere, ha portato ulteriori e importanti complicazioni nei rapporti sul territorio. La popolazione, ad esempio, tende a stare lontana dalle forze occupanti, perché se queste sono una specie di calamita per il terrorismo, diventano un motivo di insicurezza e di preoccupazione per i cittadini, e questo rende molto più difficile il compito chi vuole istaurare e mantenere con la popolazione un rapporto di collaborazione. In un certo senso il terrorismo ricatta chi cerca di avere un dialogo con le forze occupanti.

Il sottoltitolo del suo libro recita: “Fine di un’illusione”. A quale illusione si riferisce? Alla realizzazone di un progetto militare compiuto da un esercito straniero che viene avvertito dalla popolazione locale come occupante?

Sì, io credo che se non cambia radicalmente il quadro internazionale intorno all’Irak, e se soprattutto non si cerca un dialogo concreto con la popolazione irachena non ci saranno sviluppi nella direzione che speriamo. In ogni provincia c’è un governo civile provvisorio iracheno che rispecchia un po’ la formazione politica del governo proivvisorio nazionale di Baghdad. Questo governo è stato nominato a Nassiriya dal governatore inglese e la cittadinanza, gli sceicchi locali, gli imam, i partiti religiosi e politici stanno chiedendo con insistenza che questo organismo venga eletto dalla popolazione. Le forze della Coalizione negano la soddisfazione di questa richiesta perché gli americani sanno che applicare effettivi criteri democratici sul territorio iracheno può condurre ad una situazione in cui la popolazione esprima idee non necessariamente filo-americane. E’ qui che sta la fine dell’illusione, l’illusione che gli americani con i loro alleati possano davvero gestire la transizione verso un regime democratico spontaneamente accettato dagli iracheni.

La sua esperienza ha accertato dunque, la fine di questa illusione, l’impossibilità, secondo lei, di lavorare per favorie un effettivo progresso democratico in Irak. Ma lei ha lasciato l’Irak immediatamente dopo l’attentato al contingente italiano. In quella particolare situazione, non sarebbe stato un segnale più significativo, da parte di un funzionario di un organismo civile (non militare), rimanere lì, piuttosto che tornare in Italia?

Guardi, le spiego la dinamica reale dei fatti. Qualche giorno dopo l’attentato, alcuni giornalisti hanno chiesto la mia opinione sulla situazione irachena. Visto che la mia versione era completamente contraria alla strategia della Cpa, era per me un’esigenza morale dimettermi immediatamente dopo aver rilasciato quelle dichiarazioni. Non aveva più senso rimanere in quel contesto del quale non condividevo la visione di fondo e riscontravo il sostanziale fallimento.

Ma l’attentato ha avuto un ruolo nella sua decisione di lasciare Nassiriya?

Certo. Ritengo che la politica americana in Irak porti ad una situazione di tensione crescente in cui è più facile per i terroristi organizzare e svolgere le loro azioni.
Il risultato più brillante della politica di Bush nei paesi arabi è stato di trasformare l’Irak in una specie di laboratorio per terroristi.
Per questo credo che sia importante il ruolo dell’Onu. Proprio in questi giorni Paul Bremer, Amministratore della Cpa, ha chiesto a Kofi Annan un aiuto per gestire il processo di transizione democratica. Annan ha inviato in Irak una delegazione che è entrata in contatto non solo con l’Autorità Provvisoria della Coalizione, ma anche con le personalità più autorevoli della società irachena le quali si sono dette favorevoli ad accettare la proposta americana di nominare un’assemblea costituente e quindi un nuovo governo iracheno, ma solo nel caso che i rappresentanti di questa assemblea verranno eletti dalla popolazione. Questo è un punto fondamentale e le Nazioni Unite sono andate in Irak per verificare la possibilità di gestire o meno questo processo, quando Annan darà una risposta, allora capiremo verso quale direzione sta andando lo sviluppo della situazione irachena.

Visto quello che lei chiama il fallimento della Cpa, dei progetti militari e civili in Irak, esiste un altro modo per affrontare il problema della ricostruzione?

Nessuno di noi può stare qui ad aspettare di vedere come va a finire in Irak, ci sono molti modi di operare, così come ci sono, ad esempio, alcune Ong che stanno facendo lavori importanti in quel territorio. La mia opinione è che sia molto importante costruire un ponte, un dialogo con le forze politiche e culturali irachene. Da qui è nata l’idea di un progetto di aiuto all’Università di Nassiriya, un’idea che può avere un valore politico e simbolico molto significativo.

In cosa consiste questo progetto?

A Nassirya esiste una piccola università che ha due o tre anni di vita e circa cinquemila studenti (di cui quattro mila sono donne e questo è un dato molto interessante per una realtà sciita e quindi molto arcaico dal punto di vista sociale), ci sono alcune facoltà che stanno faticosamente funzionando come biologia, storia, letterature arabe e una facoltà di letteratura e lingua inglese. Docenti e funzionari iracheni vorrebbero dare vita ad altre facoltà e mi hanno trasmesso l’interesse di poter comunicare con atenei europei, e in modo particolare italiani, perché ritengono che contatti del genere siano importanti non soltanto per gli aiuti materiali che possono giungere loro, ma anche perché credono molto nelle possibilità del dialogo interculturale. Esiste quindi una realtà estremamente sensibile all’esigenza di un rapporto con il mondo occidentale che non sia soltanto veicolato da dinamiche militari. E’ nato così un progetto che ha per protagonista l’associazione culturale Il Campo la quale intende far svolgere alle forze culturali del sud Italia un ruolo di collegamento tra realtà europea, il Medio oriente e in generale i Paesi Arabi. L’associazione sta cercando allora di coinvolgere delle università italiane e alcune istituzioni, come la Regione Campania con la quale abbiamo preso contatti concreti, per utilizzare l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale come punto di riferimento di questa iniziativa alla quale collegare e far aderire altre università italiane.

Concretamente cosa prevede di realizzare questo progetto?

Stiamo cercando di mettere insieme una sorta di rete di università che sia in grado di specializzarsi in iniziative come l’istituzione di borse di studio per gli studenti e studentesse di Nassiryia, programmi di formazione in Italia per professori iracheni, o che inviino docenti italiani a tenere seminari a Nassiriya, o, ancora, che forniscano aiuti materiali e concreti come forniture di computer, software e attrezzature per la connessione e la navigazione in Internet. All’interno di questo progetto generale c’è poi un punto interessante che la costituzione di un Dipartimento di Agraria in cui il tema dell’agricoltura sia strettamente collegato allo studio e alla progettazione delle risorse idriche. Nassiriya si sviluppa tra il Tigri e l’Eufrate, in un territorio potenzialmente ricchissima per la produzioone agricola, ma in questo momento l’acqua è inutilizzabile perché inquinata da rifiuti; un progetto di canalizzazione delle risorse idriche le renderebbe fruibili sia per uso alimentare che per l’irrigazione delle terre. L’università di Nassiriya potrebbe diventare un punto di riferimento per lo sviluppo agricolo della zona. E le università italiane possono avere l’occasione di svolgere un ruolo importante in questo progetto.

 



 

 

 

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