Marco Calamai conosce l’Irak per esserci stato,
per averci lavorato come esponente della Coalition
Provisional Authority (Cpa), l’agenzia che
gestisce le opere di ricostruzione civile dopo la
guerra. Ma lo scorso mese di novembre Calamai ha lasciato
la sua postazione a Nassiriya poco dopo l’attentato
che ha colpito la base militare italiana.
“L’importanza di stare in Irak ora –
dice Calamai – è secondo me nel tentativo
di creare legami che non siano solo ed esclusivamente
di natura militare, ma che sappiano anche andare direttamente
al cuore della società civile irachena. Le
università sono centri di irradiazione di nuovi
stimoli, un progetto che crei un ponte di scambio
e di comunicazione tra le realtà culturali
del mondo arabo e dell’Occidente può
senz’altro produrre un clima nuovo e contribuire
alla creazione di presupposti di un contesto che abbia
potenzialità positiva per il futuro”.
E allora, da qui, la fine dell’esperienza a
Nassiriya, raccontata in un libro pubblicato da l’Unità
con il titolo Diario da Nassiriya. Fine di un’illusione,
e un progetto che dall’Italia vuole mettere
in stretta relazione gli atenei iracheni con quelli
del nostro paese. Ma per capire tutta la vicenda conviene
partire dall’inizio.
Marco Calamai, qual era il suo ruolo a Nassiriya?
Ero consigliere speciale della Cpa, l’Autorità
provvisoria della coalizione. Il mio ruolo riguardava
il coordinamento di due iniziative, da una parte gestivo
la ricostruzione civile del territorio, quindi progetti
finalizzati a risolvere problemi sociali di importanza
primaria, dalle scuole agli ospedali alle fognature
all’acqua potabile. L’altro era quello
delle elezioni municipali.
Aveva il compito di organizzare elezioni?
Ora le spiego. Il territorio Iracheno è diviso
in 18 province, Nassirya è il capoluogo della
provincia di Dhi Qar, una zona estesa quanto la nostra
Campania, in cui gli italiani avevano la giurisdizione
militare. Qui si è iniziato ad avvertire una
forte richiesta dal basso, promossa da forze politiche
e religiose locali, per svolgere elezioni nei venti
municipi che compongono la provincia.
Nella fase iniziale della guerra sindaci e consiglieri
erano stati nominati dalle forze militari della Coalizione,
quindi scelti tra persone di sicura lealtà
alla causa
americana. Ora però, la popolazione ha iniziato
a dimostrare l’esigenza di eleggere in piena
autonomia i propri rappresentanti. Conosco bene questa
situazione perché l’idea del nostro gruppo
di lavoro era quella di svolgere opere civili in stretto
contatto con i municipi, in modo da consultare questi
ultimi per capire quali fossero le priorità
economiche e sociali più significative e mettere
l’amministrazione irachena nelle condizioni
di iniziare a gestire il proprio territorio. Era un
lavoro che bisognava fare in maniera graduale ma andava
iniziato perché i municipi iracheni sono stati
finora delle strutture periferiche di un potere centralista
che non lasciava loro alcuna possibilità di
incidere sulle scelte e sulle decisioni che riguardavano
il territorio.
A questo punto ho scoperto però che gli americani
non vedevano di buon occhio questo progetto di coinvolgimento
delle amministrazioni locali. I municipi non godevano
che di pochissima considerazione nei progetti di ricostruzione,
civile e politica, del paese. Ho maturato allora la
consapevolezza che il processo di transizione verso
la democrazia messo in atto dagli americani e gestito
in quella provincia dagli inglesi, mortificava l’idea
di mettere i cittadini iracheni nelle condizioni di
decidere in piena autonomia la scelta dei governanti.
Insomma, mi pareva che si trattasse di un modo antidemocratico
di gestire la situazione, opposto ad ogni idea che
voglia condurre alla realizzazione di una democrazia
effettiva.
Ma c'² dell'altro. I soldi americani per la ricostruzione andavano non alla Cpa, ma a multinazionali come la Haliburton e la Bechtel. Il grosso delle spese infrastrutturali, quindi, veniva gestito attraverso un rapporto diretto tra gli americani e le aziende statunitensi coinvolte nei progetti e nel business iracheno. Tale situazione ha creato fra gli abitanti ulteriore frustrazione e malessere crescente. Parlando con gli iracheni, si capiva a chiare lettere che loro si dicevano
grati agli americani per averli liberati da Saddam, ma al tempo stesso, ora, la loro esigenza pið forte ² quella di autogovernarsi e gestire da soli il paese. L'amministrazione civile internazionale, per altro, non dimostra di essere capace di rispondere alle domande che venivano dai cittadini in un contesto di crescente logoramento sociale ed economico, in cui la disoccupazione cresce, i servizi sono sempre pið inefficienti e, soprattutto, l'insicurezza aumenta sempre pið.
In poche parole: un esercito che occupa un territorio non ² in grado di garantire la sicurezza dei cittadini per il semplice fatto che ² un esercito che viene da un paese straniero ed ² completamente estraneo alla realtö locale.
Questo insieme di cose ² il filo conduttore del mio diario, pagine che ho scritto giorno per giorno a Nassiriya e che ogni sera inviavo a mia moglie in Italia.
Che posto occupa, in questo contesto, l’attentato
che ha colpito i militari italiani?
La mia personalissima opinione è che non ci
sia un legame meccanico tra quello che avviene nella
zona tra la popolazione locale e l’attentato.
Io credo che l’attentato sia stato organizzato
da persone esterne alla realtà locale che a
Nassiriya avevano dei contatti.
Quindi, secondo lei, non c’è
connessione tra l’attentato e il malessere della
popolazione locale nei confronti di un esercito straniero
che opera sul territorio?
Credo di no, però paradossalmente, nella misura
in cui l’attentato si è verificato in
una situazione di profondo malessere, ha portato ulteriori
e importanti complicazioni nei rapporti sul territorio.
La popolazione, ad esempio, tende a stare lontana
dalle forze occupanti, perché se queste sono
una specie di calamita per il terrorismo, diventano
un motivo di insicurezza e di preoccupazione per i
cittadini, e questo rende molto più difficile
il compito chi vuole istaurare e mantenere con la
popolazione un rapporto di collaborazione. In un certo
senso il terrorismo ricatta chi cerca di avere un
dialogo con le forze occupanti.
Il sottoltitolo del suo libro recita: “Fine
di un’illusione”. A quale illusione si
riferisce? Alla realizzazone di un progetto militare
compiuto da un esercito straniero che viene avvertito
dalla popolazione locale come occupante?
Sì, io credo che se non cambia radicalmente
il quadro internazionale intorno all’Irak, e
se soprattutto non si cerca un dialogo concreto con
la popolazione irachena non ci saranno sviluppi nella
direzione che speriamo. In ogni provincia c’è
un governo civile provvisorio iracheno che rispecchia
un po’ la formazione politica del governo proivvisorio
nazionale di Baghdad. Questo governo è stato
nominato a Nassiriya dal governatore inglese e la
cittadinanza, gli sceicchi locali, gli imam, i partiti
religiosi e politici stanno chiedendo con insistenza
che questo organismo venga eletto dalla popolazione.
Le forze della Coalizione negano la soddisfazione
di questa richiesta perché gli americani sanno
che applicare effettivi criteri democratici sul territorio
iracheno può condurre ad una situazione in
cui la popolazione esprima idee non necessariamente
filo-americane. E’ qui che sta la fine dell’illusione,
l’illusione che gli americani con i loro alleati
possano davvero gestire la transizione verso un regime
democratico spontaneamente accettato dagli iracheni.
La sua esperienza ha accertato dunque, la
fine di questa illusione, l’impossibilità,
secondo lei, di lavorare per favorie un effettivo
progresso democratico in Irak. Ma lei ha lasciato
l’Irak immediatamente dopo l’attentato
al contingente italiano. In quella particolare situazione,
non sarebbe stato un segnale più significativo,
da parte di un funzionario di un organismo civile
(non militare), rimanere lì, piuttosto che
tornare in Italia?
Guardi, le spiego la dinamica reale dei fatti. Qualche
giorno dopo l’attentato, alcuni giornalisti
hanno chiesto la mia opinione sulla situazione irachena.
Visto che la mia versione era completamente contraria
alla strategia della Cpa, era per me un’esigenza
morale dimettermi immediatamente dopo aver rilasciato
quelle dichiarazioni. Non aveva più senso rimanere
in quel contesto del quale non condividevo la visione
di fondo e riscontravo il sostanziale fallimento.
Ma l’attentato ha avuto un ruolo nella
sua decisione di lasciare Nassiriya?
Certo. Ritengo che la politica americana in Irak
porti ad una situazione di tensione crescente in cui
è più facile per i terroristi organizzare
e svolgere le loro azioni.
Il risultato più brillante della politica di
Bush nei paesi arabi è stato di trasformare
l’Irak in una specie di laboratorio per terroristi.
Per questo credo che sia importante il ruolo dell’Onu.
Proprio in questi giorni Paul Bremer, Amministratore
della Cpa, ha chiesto a Kofi Annan un aiuto per gestire
il processo di transizione democratica. Annan ha inviato
in Irak una delegazione che è entrata in contatto
non solo con l’Autorità Provvisoria della
Coalizione, ma anche con le personalità più
autorevoli della società irachena le quali
si sono dette favorevoli ad accettare la proposta
americana di nominare un’assemblea costituente
e quindi un nuovo governo iracheno, ma solo nel caso
che i rappresentanti di questa assemblea verranno
eletti dalla popolazione. Questo è un punto
fondamentale e le Nazioni Unite sono andate in Irak
per verificare la possibilità di gestire o
meno questo processo, quando Annan darà una
risposta, allora capiremo verso quale direzione sta
andando lo sviluppo della situazione irachena.
Visto quello che lei chiama il fallimento
della Cpa, dei progetti militari e civili in Irak,
esiste un altro modo per affrontare il problema della
ricostruzione?
Nessuno di noi può stare qui ad aspettare
di vedere come va a finire in Irak, ci sono molti
modi di operare, così come ci sono, ad esempio,
alcune Ong che stanno facendo lavori importanti in
quel territorio. La mia opinione è che sia
molto importante costruire un ponte, un dialogo con
le forze politiche e culturali irachene. Da qui è
nata l’idea di un progetto di aiuto all’Università
di Nassiriya, un’idea che può avere un
valore politico e simbolico molto significativo.
In cosa consiste questo progetto?
A Nassirya esiste una piccola università che
ha due o tre anni di vita e circa cinquemila studenti
(di cui quattro mila sono donne e questo è
un dato molto interessante per una realtà sciita
e quindi molto arcaico dal punto di vista sociale),
ci sono alcune facoltà che stanno faticosamente
funzionando come biologia, storia, letterature arabe
e una facoltà di letteratura e lingua inglese.
Docenti e funzionari iracheni vorrebbero dare vita
ad altre facoltà e mi hanno trasmesso l’interesse
di poter comunicare con atenei europei, e in modo
particolare italiani, perché ritengono che
contatti del genere siano importanti non soltanto
per gli aiuti materiali che possono giungere loro,
ma anche perché credono molto nelle possibilità
del dialogo interculturale. Esiste quindi una realtà
estremamente sensibile all’esigenza di un rapporto
con il mondo occidentale che non sia soltanto veicolato
da dinamiche militari. E’ nato così un
progetto che ha per protagonista l’associazione
culturale Il
Campo la quale intende far svolgere alle forze
culturali del sud Italia un ruolo di collegamento
tra realtà europea, il Medio oriente e in generale
i Paesi Arabi. L’associazione sta cercando allora
di coinvolgere delle università italiane e
alcune istituzioni, come la Regione Campania con la
quale abbiamo preso contatti concreti, per utilizzare
l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale
come punto di riferimento di questa iniziativa alla
quale collegare e far aderire altre università
italiane.
Concretamente cosa prevede di realizzare questo
progetto?
Stiamo cercando di mettere insieme una sorta di rete
di università che sia in grado di specializzarsi
in iniziative come l’istituzione di borse di
studio per gli studenti e studentesse di Nassiryia,
programmi di formazione in Italia per professori iracheni,
o che inviino docenti italiani a tenere seminari a
Nassiriya, o, ancora, che forniscano aiuti materiali
e concreti come forniture di computer, software e
attrezzature per la connessione e la navigazione in
Internet. All’interno di questo progetto generale
c’è poi un punto interessante che la
costituzione di un Dipartimento di Agraria in cui
il tema dell’agricoltura sia strettamente collegato
allo studio e alla progettazione delle risorse idriche.
Nassiriya si sviluppa tra il Tigri e l’Eufrate,
in un territorio potenzialmente ricchissima per la
produzioone agricola, ma in questo momento l’acqua
è inutilizzabile perché inquinata da
rifiuti; un progetto di canalizzazione delle risorse
idriche le renderebbe fruibili sia per uso alimentare
che per l’irrigazione delle terre. L’università
di Nassiriya potrebbe diventare un punto di riferimento
per lo sviluppo agricolo della zona. E le università
italiane possono avere l’occasione di svolgere
un ruolo importante in questo progetto.
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