L’autore è professore presso l’Université
Libre de Bruxelles, dove dirige le ricerche dell’Istituto
di Studi Europei. Il pezzo che segue è l’intervento
tenuto dal prof. Telò al convegno “L'Europa
nel mondo che cambia” organizzato dai Democratici
di sinistra a Firenze il 30 e il 31 gennaio 2004.
Il
Rapporto Rasmussen
Questa riunione di Firenze beneficia della traduzione
italiana, con prefazione di P.Fassino, del “Rapporto
Rasmussen” sul governo della globalizzazione.
Esperti della London School of Economics, dell’Università
Libera di Bruxelles (dove sono direttore di ricerca
dell’IEE), dell’Università di Parigi
( CERI), dell’Università di Lisbona,
dell’Università di Dortmund e di molte
altre entità indipendenti della società
civile hanno partecipato attivamente alla sua redazione.
Promosso nel 2001 dal gruppo parlamentare presieduto
da E. Baron (e con partecipazione tra gli altri di
P.Lamy, M.Rocard, B.Trentin e di eminenti personalità
delle socialdemocrazie svedese, tedesca, olandese,spagnola)
questo esercizio è continuato, dal 2002, sotto
la direzione dell’ex primo ministro danese Paul
Nyrup Rasmussen, in collaborazione con l’Internazionale
Socialista, rilanciata dal suo Presidente Antonio
Guterres. Il processo di redazione è stato
significativo per il dialogo tra politica e cultura,
tra partiti e società civile: un vasto work
in progress di due anni, sempre più allargato
e articolato, con riunioni che si sono tenute in Scandinavia,
alla Casa dei Comuni a Londra, a Bruxelles , sinchè
il Rapporto è stato presentato al grande Forum
progressista mondiale di novembre a Bruxelles, un
vivace e ricco incontro di più di un migliaio
di rappresentanti di organizzazioni internazionali,
movimenti, esperti indipendenti.
Questa appassionata ricerca di una nuova politica
europea della globalizzazione deve restare aperta.
In un mondo in cui si rilancia la logica della forza,
si amplia lo spazio per la cultura del riformismo
internazionale, che non si limita alla denuncia, ma
cerca di contrastare l’alternativa perdente
tra apatia e rivolta avanzando idee concrete di riforma,
sia delle concrete politiche, sia delle organizzazioni
internazionali, distinguendo con chiarezza le proposte
a breve, a medio e a lungo termine. E lo fa con una
concretezza di proposte che non è contraddittoria
con il dialogo apertissimo con i movimenti giovanili
che rilanciano l’utopia di un mondo più
giusto e più pacifico, poichè è
in grado di raccogliere quella sollecitazione per
un dialogo a un livello più alto di sintesi
e di proposta, rilanciando cosi’una nozione
alta di politica.
Norberto Bobbio e il cantiere aperto di una
nuova politica per la pace
Prima
di mettere in evidenza quelli che, nella mia interpretazione,
sono alcuni dei risultati più rilevanti di
questo importante impegno collegiale, che contribuiscono
a mio parere a rafforzare il profilo di un’Unione
Europea come “potenza civile”, cioè
come modello alternativo di entità internazionale
in un mondo che rischia la pax americana,
vorrei rendere un dovuto omaggio a chi rappresenta
in modo esemplare il retroterra culturale di questo
esercizio: cioè a Norberto Bobbio, recentemente
scomparso, ma intensamente presente nella cultura
politica che ispira questo approccio delle questioni
della pace e dell globalizzazione.
Nella ricerca del tratto distintivo di un movimento
riformatore che voglia tradurre concretamente in politica
la domanda dei movimenti per la pace, la rivolta morale
contro le ingiustizie della mondializzazione, non
ho trovato un altro autore che simbolizzasse altrettanto
efficacemente questa peculiarità, questa cultura.
Una cultura politica che certo riconosce come suo
primo elemento fondativo un valore - l’universalità
e indivisibilità dei diritti umani - che in
Bobbio risaliva al suo rapporto col pacifismo di Capitini
e soprattutto al pensiero quanto mai attuale di Immanuel
Kant (un autore di cui quest’anno ricorre il
duecentesimo anniversario della morte). L'universalità
dei diritti dell’uomo è in Bobbio la
premessa, la radice di un pacifismo istituzionale
e politico che, certo, riassume il pacifismo religioso,
quello morale, anche quello economico dell’apertura
internazionale, ma che li assume e sintetizza dando
loro la prospettiva di una regolazione politica e
giuridica della pace, di una politica della globalizzazione,
di una originale combinazione di idealismo e realismo.
Bobbio era un intellettuale europeo, e la sua morte
è stata l’occasione di celebrazioni nel
mondo intero. Posso testimoniare come egli tenesse
molto al suo profilo europeista ed europeo. Questo
tratto era parte del realismo di Bobbio, perché
ogni discorso sulla pace e sulla globalizzazione assume
un senso politico solo se si affronta la questione
del cambiamento dei rapporti di forza internazionali
che traducono l’ambizione morale e la rivolta
morale in una proposta politica fattibile. Le responsabilità
politiche sono certo anche locali e nazionali: ma
è soprattutto l’Unione europea il canale
adeguato di cui disponiamo per cambiare la struttura
e il governo del mondo.
Bobbio ci ha lasciato il cantiere aperto di una nuova
politica della pace. Certo il mondo è cambiato
rispetto al Ventesimo secolo in cui ha vissuto il
filosofo torinese, ma questo cantiere aperto è
il centro di una politica riformista e progressista
della globalizzazione. E chi lo ha incontrato negli
ultimi anni sa come era drammatica in lui l’alternativa
posta dai casi in cui la comunità internazionale
è chiamata a intervenire per difendere i diritti
dell’uomo e la pace. Bobbio ci ha lasciato il
cantiere aperto della responsabilità della
comunità internazionale nel difendere i diritti
dell’uomo e la democrazia al di là del
semplice richiamo al rispetto della sovranità
nazionale. Ed egli distingueva con chiarezza la guerra
in Iraq del 1991 (un'azione di polizia, l’ha
definita, il massimo di illegittimità internazionale)
la guerra in Iraq del 2003 e il caso più controverso,
la guerra nel Kosovo del 1999. Su questa strada, la
ricerca è aperta, specie per noi europei: il
“Rapporto Rasmussen” vi contribuisce ,ad
esempio opponendo al concetto di “guerra preventiva”
quello di “politica preventiva”.
Tre nodi per un’Europa potenza civile
Vorrei attirare l’attenzione sui tre capitoli
più interessanti di questa riflessione.
Il primo è che l’UE va vista come attore
decisivo non solo per una governance mondiale,
come si dice - ma io preferisco il termine di Dante,
visto che siamo a Firenze, “governazione”
(vedi Convivio,Trattato quarto, dove Dante si riferiva
alla povera Italia priva di governo) ma anche per
l’ordine politico mondiale. Il termine
governazione è intriso degli ottimismi degli
anni ’90, seguiti alla caduta del muro di Berlino.
Redigendo il Rapporto Rasmussen non abbiam potuto
evitare di affrontare la questione drammatica degli
anni seguiti all’11 settembre, marcati da terrorismo
e guerre, per cui l’Europa non ha solo il problema
di contribuire a una migliore “governazione”
civile internazionale, ma anche di assumere una responsabilità
crescente nel governo politico dell’ordine
internazionale. Questa è la grande novità,
la nuova sfida. In questo, nonostante le divergenze
in seno al Pse, il “Rapporto Rasmussen”
compie una forzatura innovativa nella direzione dell’autonomia
politica dell’Europa.
Il secondo nodo con cui è necessario confrontarsi
è il seguente: ogni ambizione dell’Europa
a svolgere un ruolo attivo, di giustizia e di pace
nel quadro della globalizzazione non ha senso se non
si rinnova il modello socio-economico europeo. Non
ci sarà futuro nella politica internazionale
dell’Europa se non avrà successo la “Strategia
di Lisbona”, la prospettiva decennale di riforma
del modello economico e sociale europeo, verso una
“società europea della conoscenza”,
lanciata da Antonio Guterres, e dalla presidenza portoghese
dell’unione europea nel 2000. E’ la sfida
decisiva. La sua peculiarità sta proprio nel
ricomporre il discorso sull’eguaglianza col
discorso sull’efficienza, la coesione sociale
con la competitività internazionale dell’Europa,
cioè la giustizia e la forza. E’ appena
uscito un corposo Rapporto di sintesi della Commissione
europea in vista del Consiglio europeo di primavera
che dovrà fare un bilancio: è chiaro
che la Strategia di Lisbona non è un insuccesso.
E' aumentata l’occupazione nonostante una congiuntura
internazionale assai negativa, avanza la costruzione
di una moderna società della conoscenza. Le
difficoltà della Strategia di Lisbona ci sono,
ma stanno da un lato nella necessaria riforma del
Patto di stabilità e, dall’altro, nella
mancata concretizzazione nazionale da parte di certi
Stati che non mantengono gli impegni assunti nei piani
nazionali approvati secondo gli orientamenti comuni
del Consiglio e della Commissione. Qui c’è
spazio per una mobilitazioned degli attori sociali
nazionali. La Strategia di Lisbona è stata
lanciata come strategia globale e a lungo termine
nel momento in cui i rapporti di forza nel Consiglio
europeo erano particolarmente favorevoli alla sinistra:
essa va concepita come un terreno avanzato di battaglia
per una modernizzazione che sia coerente con i valori
europei e che rafforzi l’identità internazionale
dell’Unione europea come laboratorio di una
regolazione della globalizzazione.
L’importanza del testo costituzionale approvato
dalla Convenzione è il terzo punto su cui vorrei
attirare la vostra attenzione. La politica europea
della pace e della globalizzazione ha bisogno di istituzioni
dell’Ue forti e democratiche. La coscienza di
questo nesso fa del necessario rapporto coerente tra
i fini, gli obiettivi, i valori da una parte e, dall’altra,
i mezzi istituzionali, il tratto essenziale della
cultura riformista. La Convenzione è stata
la forma più avanzata di traduzione democratica
dell’obiettivo di costruire un’Europa
politica, attraverso un dibattito democratico aperto
e decentrato, senza precedenti, durato 16 mesi. L’impegno
per la difesa del testo costituzionale, nonostante
i suoi limiti (ad esempio il fatto che nel preambolo
non sia ricordata la Shoah, come ha fatto notare la
Comunità Sant’Egidio), è essenziale
se si intende fare avanzare l’Unione Europea
nel suo ruolo internazionale.
Infatti il testo della Convenzione rafforza l’identità
internazionale dell’Unione. Basta ricordare
la Carta dei Diritti finalmente incorporata come elemento
giuridico e insieme simbolico, la personalità
giuridica internazionale, il Ministro degli Esteri
come elemento di ricomposizione tra Commissione e
Consiglio nell’azione internazionale, come promessa
di coerenza ed efficacia nelle relazioni esterne di
quello che è il secondo attore globale. L’Agenzia
degli armamenti, non nel senso di una politica di
un’impossibile potenza militare dell’Europa,
ma come prova di credibilità per essere davvero
potenza civile. E infine le “cooperazioni rafforzate”.
Per varie ragioni.
Con coraggio, Romano Prodi ha dichiarato alla Bbc
lo scorso dicembre che il Consiglio europeo di Bruxelles
a Presidenza italiana è fallito perché
si sono riprodotti gli schieramenti della guerra in
Iraq. Sarebbe stato strano che non fosse così;
nel senso che l’idea che, con un rovesciamento
delle alleanze, il governo italiano potesse ricomporre
il nucleo dei sei paesi fondatori a difesa del testo
della Convenzione era una illusione. In realtà
il richiamo all’ordine da parte degli Usa è
stato efficace, contribuendo ad una stagione di declino
e marginalizzazione della posizione dell’Italia
in Europa. Ad ogni italiano tutti i termini e le cause
di questo declino, grave per l’interesse nazionale,
dovrebbero essere resi consapevoli attraverso un’informazione
esauriente su come stanno le cose. Come anche dovrebbe
essere sostenuta l’urgenza sottolineata dal
Presidente Ciampi di restare nel gruppo di testa,
proprio quando invece, anche per responsabilità
italiana, si prospetta la possibilità di un
direttorio dei tre più grandi paesi europei
che escluda l’Italia, come alternativa al mancato
accordo sul testo della Convenzione (che prevede cooperazioni
rafforzate ma in un quadro istituzionale unico).
La sfida per l’approvazione del testo costituzionale
della convenzione, incluse le disposizioni che facilitano
le cooperazioni rafforzate è una sfida per
l’autonomia politica dell’Europa.
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