247- 21.02.04


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Olivetti, un imprenditore venuto dal Rinascimento

Luciano Gallino con Mauro Buonocore


Adriano Olivetti la chiamava “fabbrica” la sua azienda. Erano gli anni Cinquanta, l’impresa d’Ivrea contava oltre cinquantamila dipendenti tra le sedi italiane e i 180 paesi in cui si distribuivano filiali e agenti. Eppure per lui continuava ad essere la “fabbrica”. Forse già da qui si intravede cos’è che ha fatto di Adriano Olivetti un imprenditore eccezionale, una figura unica del capitalismo italiano. Accanto al successo di mercato della sua “fabbrica” c’è tutto un mondo, il suo, fatto di sforzi per portare ai suoi dipendenti ambienti di vita e di lavoro confortevoli, per costruire, insieme a importanti architetti, spazi che garantissero un alto livello della qualità della vita, per realizzare attività culturali, biblioteca e servizi sanitari efficienti. Perché il lavoro doveva arricchirsi di esperienza estetica, perché la qualità della vita migliora se ogni attività, e quindi anche il lavoro, si “trasforma in bellezza” come diceva lui stesso.
“Era cresciuto a contatto di una cultura imprenditoriale ricca di risvolti etici”, ricorda Luciano Gallino, oggi ordinario di Sociologia all’Università di Torino, e nel 1955 assunto nell’azienda di Ivrea. Gallino ha conosciuto in prima persona che cosa volesse dire lavorare per l’Olivetti, ha sperimentato direttamente che cosa significasse un’esperienza professionale al fianco di Adriano e ce ne ha lasciato una testimonianza nel libro L’impresa responsabile. Intervista su Adriano Olivetti (Comunità, Torino, 2001). “Se non avesse avuto un padre come Camillo, Adriano non sarebbe diventato quello che fu” dice Gallino prima di ricordare una frase che Olivetti padre ripeteva al figlio: “Prima di licenziare un lavoratore per motivi non connessi alla sua condotta, pensaci dieci volte”.

Cosa voleva dire per Adriano Olivetti essere imprenditore?

Significava assumersi delle responsabilità in maniera molto concreta. Per la Olivetti di allora, e soprattutto per Adriano, l’imprenditore doveva assumersi un impegno verso il territorio in cui nasceva e cresceva la fabbrica: se il territorio era la realtà da cui questa traeva impiegati, operai, tecnici, allora al territorio, sosteneva Adriano, bisognava restituire una quota significativa di profitti sotto forma di servizi sociali, alloggi per i lavoratori, biblioteche, asili nido, salari soddisfacenti. Nell’insieme l’Olivetti di Adriano era una sorta di stato sociale a scala sub-regionale che si occupava e preoccupava di una quantità di servizi che allora nemmeno lo stato era in grado di fornire.
Credo che si tratti di un principio valido anche oggi: la responsabilità sociale dell’impresa comincia nei confronti del territorio, mentre ciò che è stato teorizzato e declamato ad alta voce da molti dirigenti contemporanei è l’esatto contrario.

Si riferisce ai processi legati alla globalizzazione, al fatto che oggi le aziende sono sempre più delocalizzate e che quindi non prestano attenzione al territorio che le ospita e che fornisce loro le risorse necessarie alla produzione?

Globalizzazione significa poter produrre qualsiasi bene o servizio praticamente in qualunque posto. Qualche decennio fa questa pratica non era possibile perché c’erano difficoltà logistiche per la gestione e la costruzione di imprese in luoghi lontani dalla sede centrale. Poi il miglioramento dei flussi di comunicazione e dei sistemi di trasporto insieme alla diffusione di diffusione di una cultura industriale pressoché universale fa sì che sia molto facile raggiungere qualunque posto per produrre qualunque tipo di bene. Ma non bisogna mai dimenticare che a tutto questo si aggiunge il motivo vero della delocalizzazione delle aziende, e cioè la ridzione del costo del lavoro. In Polonia, ad esempio, il lavoro costa cinque volte meno di quanto un imprenditore non lo paghi in Italia. Ecco quindi un forte incentivo a spostare sedi e impianti in paesi lontani, soprattutto per le imprese che puntano poco sull’innovazione.

Ma se parliamo di responsabilità sociale dell’impresa bisogna dire che è un argomento di cui si parla da anni. Chi nel 2000 avesse fatto una ricerca su internet inserendo nei motori di ricerca corporate social responsibility avrebbe trovato milioni di articoli, di siti, di risorse. In molte di queste si sosteneva che parlare di responsabilità sociale dell’impresa e praticarla un poco facesse bene ai profitti. Una delle aziende che aveva stilato uno dei rapporti più ampi e completi da questo punto di vista e che aveva formmulato un codice etico per i propri dipendenti si chiamava Enron. Voglio dire che stiamo parlando di un campo in cui bisogna stare molto attenti a separare il grano dal loglio, la sostanza dai comunicati che promuovono l’immagine di un’azienda, perché la realtà del funzionamento concreto della produzione può rivelarsi nella pratica lontano dai principi espressi nei codici etici e nelle intenzioni.

D’accordo, è un terreno delicato, eppure esiste un ragionamento aziendale improntato al concetto di sostenibilità. Esistono cioè delle persone che guardano al ruolo dell’imprenditore come ad una persona che deve assumersi delle responsabilità nei confronti del mondo che circonda la sua azienda. In altre parole c’è chi crede che possa esistere un capitalismo responsabile, attento non solo ai profitti ma anche all’idea di lasciare alle generazioni un mondo migliore. Si può dire che le idee di Adriano Olivetti muovessero da questi stessi principi?

L’Olivetti di Adriano è faceva parte di un’epoca che è ormai molto lontana dal nostro presente. Allora nessuno parlava di sostenibilità, era un termine che non apparteneva ancora al lessico e alle prospettive degli imprenditori e dei ricercatori, però il modo in cui Adriano Olivetti gestiva la fabbrica, questo è il termine con cui chiamava la sua impresa, è improntato ante litteram a dei criteri che oggi possiamo riferire alla sostenibilità. In primo era molto attento alle condizioni di lavoro, alle condizioni ambientali, alla qualità degli edifici. Gli stabilimenti che fece costruire sono dei capolavori di architettura industriale nei quali si lavorava molto bene perché c’erano spazi ampi, molto verde, la ricerca di condizioni di vivibilità.
Un altro aspetto che ci riconduce all’idea di sostenibilità riguarda il territorio che viveva attorno alla fabbrica. Tutta la regione circostante subiva effetti benefici dalla presenza dell’Olivetti: piani urbanistici, sistemi di trasporto, abitazioni civili di alto livello, erano tutte iniziative che nascevano dall’idea che l’imprenditore dovesse lavorare anche per innalzare il livello di vita.
Oggi, al contrario, sembra che la gestione delle imprese lavori esattamente nella direzione opposta, verso la costruzione di un modello di vita “non sostenibile”. Per il momento la sostenibilità è un flatus voci.

Imprenditoria, architettura, attività sociali e culturali, una casa editrice. Il ritratto di Adriano Olivetti appare come quello di una persona percorsa da molti interessi molto diversi tra loro. Come riusciva a mettere insieme tanti aspetti della sua personalità e a portarli avanti tutti ad alto livello?

Innanzitutto direi che dal punto di vista professionale Adriano Olivetti, in tutti i momenti della giornata metteva insieme molteplici aspetti della sua attività, del suo impegno civile, della sua cultura. Gestiva l’organizzazione della produzione, ma un minuto dopo si occupava di riviste d’arte oppure di scienza, della forma e del colore di una nuova macchina da scrivere.

Al di là dell’etichetta di utopista che gli è stata applicata addosso, Adriano è stato prima di ogni altra cosa un grande imprenditore ma contemporaneamente si impegnava in attività che riguardavano l’architettura, i musei, uno straordinario rango di attività culturali in senso ampio. E sempre, in ogni occasione, questa molteplicità di interessi e di impegni si manifestava come un insieme di parti che interagivano intimamente alla sua attività.
Adriano non era imprenditore negli orari di ufficio e poi, una volta venuta la sera, iniziava a interessarsi alla sua casa editrice Comunità. La sua intera giornata era intessuta di tutti gli interessi che andavano tutti in una direzione: guardavano alla fabbrica con l’idea di “trasformare il lavoro in bellezza”. Tipica del suo modo di intendere il proprio lavoro, quest’espressione testimonia uno dei suoi intenti che suonano molto singolari sulla bocca di un imprenditore, e cioè che la fabbrica dovesse diffondere intorno a sé bellezza, valori estetici che cominciassero dall’architettura e proseguissero verso idee e realizzazioni nei campi più diversi. Non c’era il minimo aspetto della vita e dell’immagine dell’azienda che non tenesse ben presente una componente estetica.

Cosa resta nel capitalismo contemporaneo della figura di Adriano Olivetti e cosa invece è andato perduto?

E’ chiaro che i tempi sono cambiati però, soprattutto per quanto riguarda l’Italia, ci sarebbero degli aspetti dell’impegno e dell’attività di Adriano Olivetti che sono estremamente attuali, come ad esempio l’idea di piano territoriale. Il nostro paese è uno dei più caotici d’Europa per quanto riguarda la distribuzione territoriale delle residenze, delle attività produttive, delle vie di comunicazione. A distanza di mezzo secolo, quindi, l’idea di piano territoriale, di ordine urbanistico e spaziale inteso a regolare la distribuzione delle attività che si svolgono intorno alla produzione rimane più attuale che mai.

Bisogna poi anche dire che la storia della Olivetti di Adriano invita a prestare attenzione quando si parla della nascita e della creazione della società delle reti e dei fenomeni di globalizzazione. Ricordo bene che intorno agli anni Cinquanta l’Olivetti era presente in quasi 180 paesi aveva più di cinquantamila dipendenti, metà in Italia e metà all’estero, centinaia di filiali e di agenti sparsi in tutto il mondo; il tutto collegato alla sede d’Ivrea con enormi batterie di telescriventi con cui i diversi punti di questa struttura comunicavano in tempo reale. Allo stesso modo, già allora tecnici e dirigenti andavano e venivano per il mondo, un giorno erano a Ivrea e il giorno dopo erano a Nuova Deli.
Spesso discutiamo della globalizzazione come se fosse un fenomeno nato dieci o quindici anni fa, mentre l’azienda di Adriano era fortemente globalizzata, e riusciva a mantenere questo carattere di fondo insieme a un suo sostanziale radicamento con il territorio.

Ma l’Olivetti era allora un caso isolato, un esempio sporadico, oppure esisteva già una diffusa cultura imprenditoriale che guardava alla responsabilità verso il territorio e la società?

Per dimensioni e ampiezza, l’impegno di Adriano nel costruire una sorta di stato sociale all’interno della fabbrica, una rete di servizi sociali che possa essere il più ampio e diffuso possibile sul territorio è stato pressoché unico. Però tra gli anni Trenta e i primi dodici quindici anni del dopoguerra, ci furono in molte altre parti d’Italia delle aziende che hanno coltivato questo rapporto con il territorio, quest’idea per cui l’imprenditore che utilizza l’intelligenza, le braccia, le energie della popolazione sente proprio il compito di restituire le risorse che sfrutta traducendole nei servizi che un’azienda può fornire a una comunità, come le case, i servizi di assistenza sanitaria, i luoghi di promozioine culturale e di ricreazione. Si possono citare la Bassetti, la Necchi a Pavia, la Ferrero ad Alba, tutti esempi di aziende che hanno buoni rapporti con il territorio e fanno sì che la ricchezza prodotta non vada soltanto agli azionisti ma si trasformi in attività culturali che contribuiscano a migliorare la qualità della vita della comunità che le sta intorno. Aziende così in quel periodo ce ne sono state parecchie, ma tutte ora sono scomparse.

Possiamo cercare nel capitalismo contemporaneo un Adriano Olivetti del 2000? Si può fare un paragone con i magnati che impegnano grandi capitali in donazioni verso enti benefici, fondazioni o centri di ricerca?

Si tratta di una cosa essenzialmente diversa. Al di là dell’entità dell’impegno e della donazione, oggi vediamo grandi imprenditori o finanzieri, manager sensibili a certe istanze sociali che destinano una parte della loro ricchezza verso iniziative mirate come appunto fondazioni o enti benefici o istitutoi di ricerca. Adriano Olivetti è stata una figura completamente diversa. Lui non donava denaro a una fondazione perché facesse ad esempio attività culturali, era lui stesso che si impegnava direttamente nelle iniziative che riteneva utili alla comunità. Così ha fondato e diretto una casa editrice, si è occupato in prima persona dei servizi sociali, dei programmi per costruiire alloggi per i dipendenti. Era per certi aspetti un uomo del Rinascimento, un uomo nel quale le attività impreditoriale, culturale e politica erano tutt’uno e da questo punto di vista non vedo nel mondo contemporaneo alcuna figura che possa essere paragonata a lui o della quale possiamo dire che abbia raccolto l’eredità e la lezione di Adriano Olivetti.

 

 

 

 

 

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