Adriano
Olivetti la chiamava “fabbrica” la sua
azienda. Erano gli anni Cinquanta, l’impresa
d’Ivrea contava oltre cinquantamila dipendenti
tra le sedi italiane e i 180 paesi in cui si distribuivano
filiali e agenti. Eppure per lui continuava ad essere
la “fabbrica”. Forse già da qui
si intravede cos’è che ha fatto di Adriano
Olivetti un imprenditore eccezionale, una figura unica
del capitalismo italiano. Accanto al successo di mercato
della sua “fabbrica” c’è
tutto un mondo, il suo, fatto di sforzi per portare
ai suoi dipendenti ambienti di vita e di lavoro confortevoli,
per costruire, insieme a importanti architetti, spazi
che garantissero un alto livello della qualità
della vita, per realizzare attività culturali,
biblioteca e servizi sanitari efficienti. Perché
il lavoro doveva arricchirsi di esperienza estetica,
perché la qualità della vita migliora
se ogni attività, e quindi anche il lavoro,
si “trasforma in bellezza” come diceva
lui stesso.
“Era cresciuto a contatto di una cultura imprenditoriale
ricca di risvolti etici”, ricorda Luciano Gallino,
oggi ordinario di Sociologia all’Università
di Torino, e nel 1955 assunto nell’azienda di
Ivrea. Gallino ha conosciuto in prima persona che
cosa volesse dire lavorare per l’Olivetti, ha
sperimentato direttamente che cosa significasse un’esperienza
professionale al fianco di Adriano e ce ne ha lasciato
una testimonianza nel libro L’impresa responsabile.
Intervista su Adriano Olivetti (Comunità,
Torino, 2001). “Se non avesse avuto un padre
come Camillo, Adriano non sarebbe diventato quello
che fu” dice Gallino prima di ricordare una
frase che Olivetti padre ripeteva al figlio: “Prima
di licenziare un lavoratore per motivi non connessi
alla sua condotta, pensaci dieci volte”.
Cosa voleva dire per Adriano Olivetti essere
imprenditore?
Significava
assumersi delle responsabilità in maniera molto
concreta. Per la Olivetti di allora, e soprattutto
per Adriano, l’imprenditore doveva assumersi
un impegno verso il territorio in cui nasceva e cresceva
la fabbrica: se il territorio era la realtà
da cui questa traeva impiegati, operai, tecnici, allora
al territorio, sosteneva Adriano, bisognava restituire
una quota significativa di profitti sotto forma di
servizi sociali, alloggi per i lavoratori, biblioteche,
asili nido, salari soddisfacenti. Nell’insieme
l’Olivetti di Adriano era una sorta di stato
sociale a scala sub-regionale che si occupava e preoccupava
di una quantità di servizi che allora nemmeno
lo stato era in grado di fornire.
Credo che si tratti di un principio valido anche oggi:
la responsabilità sociale dell’impresa
comincia nei confronti del territorio, mentre ciò
che è stato teorizzato e declamato ad alta
voce da molti dirigenti contemporanei è l’esatto
contrario.
Si riferisce ai processi legati alla globalizzazione,
al fatto che oggi le aziende sono sempre più
delocalizzate e che quindi non prestano attenzione
al territorio che le ospita e che fornisce loro le
risorse necessarie alla produzione?
Globalizzazione significa poter produrre qualsiasi
bene o servizio praticamente in qualunque posto. Qualche
decennio fa questa pratica non era possibile perché
c’erano difficoltà logistiche per la
gestione e la costruzione di imprese in luoghi lontani
dalla sede centrale. Poi il miglioramento dei flussi
di comunicazione e dei sistemi di trasporto insieme
alla diffusione di diffusione di una cultura industriale
pressoché universale fa sì che sia molto
facile raggiungere qualunque posto per produrre qualunque
tipo di bene. Ma non bisogna mai dimenticare che a
tutto questo si aggiunge il motivo vero della delocalizzazione
delle aziende, e cioè la ridzione del costo
del lavoro. In Polonia, ad esempio, il lavoro costa
cinque volte meno di quanto un imprenditore non lo
paghi in Italia. Ecco quindi un forte incentivo a
spostare sedi e impianti in paesi lontani, soprattutto
per le imprese che puntano poco sull’innovazione.
Ma se parliamo di responsabilità sociale
dell’impresa bisogna dire che è un argomento
di cui si parla da anni. Chi nel 2000 avesse fatto
una ricerca su internet inserendo nei motori di ricerca
corporate social responsibility avrebbe trovato
milioni di articoli, di siti, di risorse. In molte
di queste si sosteneva che parlare di responsabilità
sociale dell’impresa e praticarla un poco facesse
bene ai profitti. Una delle aziende che aveva stilato
uno dei rapporti più ampi e completi da questo
punto di vista e che aveva formmulato un codice etico
per i propri dipendenti si chiamava Enron. Voglio
dire che stiamo parlando di un campo in cui bisogna
stare molto attenti a separare il grano dal loglio,
la sostanza dai comunicati che promuovono l’immagine
di un’azienda, perché la realtà
del funzionamento concreto della produzione può
rivelarsi nella pratica lontano dai principi espressi
nei codici etici e nelle intenzioni.
D’accordo, è un terreno delicato,
eppure esiste un ragionamento aziendale improntato
al concetto di sostenibilità. Esistono cioè
delle persone che guardano al ruolo dell’imprenditore
come ad una persona che deve assumersi delle responsabilità
nei confronti del mondo che circonda la sua azienda.
In altre parole c’è chi crede che possa
esistere un capitalismo responsabile, attento non
solo ai profitti ma anche all’idea di lasciare
alle generazioni un mondo migliore. Si può
dire che le idee di Adriano Olivetti muovessero da
questi stessi principi?
L’Olivetti di Adriano è faceva parte
di un’epoca che è ormai molto lontana
dal nostro presente. Allora nessuno parlava di sostenibilità,
era un termine che non apparteneva ancora al lessico
e alle prospettive degli imprenditori e dei ricercatori,
però il modo in cui Adriano Olivetti gestiva
la fabbrica, questo è il termine con cui chiamava
la sua impresa, è improntato ante litteram
a dei criteri che oggi possiamo riferire alla sostenibilità.
In primo era molto attento alle condizioni di lavoro,
alle condizioni ambientali, alla qualità degli
edifici. Gli stabilimenti che fece costruire sono
dei capolavori di architettura industriale nei quali
si lavorava molto bene perché c’erano
spazi ampi, molto verde, la ricerca di condizioni
di vivibilità.
Un altro aspetto che ci riconduce all’idea di
sostenibilità riguarda il territorio che viveva
attorno alla fabbrica. Tutta la regione circostante
subiva effetti benefici dalla presenza dell’Olivetti:
piani urbanistici, sistemi di trasporto, abitazioni
civili di alto livello, erano tutte iniziative che
nascevano dall’idea che l’imprenditore
dovesse lavorare anche per innalzare il livello di
vita.
Oggi, al contrario, sembra che la gestione delle imprese
lavori esattamente nella direzione opposta, verso
la costruzione di un modello di vita “non sostenibile”.
Per il momento la sostenibilità è un
flatus voci.
Imprenditoria, architettura, attività
sociali e culturali, una casa editrice. Il ritratto
di Adriano Olivetti appare come quello di una persona
percorsa da molti interessi molto diversi tra loro.
Come riusciva a mettere insieme tanti aspetti della
sua personalità e a portarli avanti tutti ad
alto livello?
Innanzitutto direi che dal punto di vista professionale
Adriano Olivetti, in tutti i momenti della giornata
metteva insieme molteplici aspetti della sua attività,
del suo impegno civile, della sua cultura. Gestiva
l’organizzazione della produzione, ma un minuto
dopo si occupava di riviste d’arte oppure di
scienza, della forma e del colore di una nuova macchina
da scrivere.
Al di là dell’etichetta di utopista
che gli è stata applicata addosso, Adriano
è stato prima di ogni altra cosa un grande
imprenditore ma contemporaneamente si impegnava in
attività che riguardavano l’architettura,
i musei, uno straordinario rango di attività
culturali in senso ampio. E sempre, in ogni occasione,
questa molteplicità di interessi e di impegni
si manifestava come un insieme di parti che interagivano
intimamente alla sua attività.
Adriano non era imprenditore negli orari di ufficio
e poi, una volta venuta la sera, iniziava a interessarsi
alla sua casa editrice Comunità. La sua intera
giornata era intessuta di tutti gli interessi che
andavano tutti in una direzione: guardavano alla fabbrica
con l’idea di “trasformare il lavoro in
bellezza”. Tipica del suo modo di intendere
il proprio lavoro, quest’espressione testimonia
uno dei suoi intenti che suonano molto singolari sulla
bocca di un imprenditore, e cioè che la fabbrica
dovesse diffondere intorno a sé bellezza, valori
estetici che cominciassero dall’architettura
e proseguissero verso idee e realizzazioni nei campi
più diversi. Non c’era il minimo aspetto
della vita e dell’immagine dell’azienda
che non tenesse ben presente una componente estetica.
Cosa resta nel capitalismo contemporaneo
della figura di Adriano Olivetti e cosa invece è
andato perduto?
E’ chiaro che i tempi sono cambiati però,
soprattutto per quanto riguarda l’Italia, ci
sarebbero degli aspetti dell’impegno e dell’attività
di Adriano Olivetti che sono estremamente attuali,
come ad esempio l’idea di piano territoriale.
Il nostro paese è uno dei più caotici
d’Europa per quanto riguarda la distribuzione
territoriale delle residenze, delle attività
produttive, delle vie di comunicazione. A distanza
di mezzo secolo, quindi, l’idea di piano territoriale,
di ordine urbanistico e spaziale inteso a regolare
la distribuzione delle attività che si svolgono
intorno alla produzione rimane più attuale
che mai.
Bisogna poi anche dire che la storia della Olivetti
di Adriano invita a prestare attenzione quando si
parla della nascita e della creazione della società
delle reti e dei fenomeni di globalizzazione. Ricordo
bene che intorno agli anni Cinquanta l’Olivetti
era presente in quasi 180 paesi aveva più di
cinquantamila dipendenti, metà in Italia e
metà all’estero, centinaia di filiali
e di agenti sparsi in tutto il mondo; il tutto collegato
alla sede d’Ivrea con enormi batterie di telescriventi
con cui i diversi punti di questa struttura comunicavano
in tempo reale. Allo stesso modo, già allora
tecnici e dirigenti andavano e venivano per il mondo,
un giorno erano a Ivrea e il giorno dopo erano a Nuova
Deli.
Spesso discutiamo della globalizzazione come se fosse
un fenomeno nato dieci o quindici anni fa, mentre
l’azienda di Adriano era fortemente globalizzata,
e riusciva a mantenere questo carattere di fondo insieme
a un suo sostanziale radicamento con il territorio.
Ma l’Olivetti era allora un caso
isolato, un esempio sporadico, oppure esisteva già
una diffusa cultura imprenditoriale che guardava alla
responsabilità verso il territorio e la società?
Per dimensioni e ampiezza, l’impegno di Adriano
nel costruire una sorta di stato sociale all’interno
della fabbrica, una rete di servizi sociali che possa
essere il più ampio e diffuso possibile sul
territorio è stato pressoché unico.
Però tra gli anni Trenta e i primi dodici quindici
anni del dopoguerra, ci furono in molte altre parti
d’Italia delle aziende che hanno coltivato questo
rapporto con il territorio, quest’idea per cui
l’imprenditore che utilizza l’intelligenza,
le braccia, le energie della popolazione sente proprio
il compito di restituire le risorse che sfrutta traducendole
nei servizi che un’azienda può fornire
a una comunità, come le case, i servizi di
assistenza sanitaria, i luoghi di promozioine culturale
e di ricreazione. Si possono citare la Bassetti, la
Necchi a Pavia, la Ferrero ad Alba, tutti esempi di
aziende che hanno buoni rapporti con il territorio
e fanno sì che la ricchezza prodotta non vada
soltanto agli azionisti ma si trasformi in attività
culturali che contribuiscano a migliorare la qualità
della vita della comunità che le sta intorno.
Aziende così in quel periodo ce ne sono state
parecchie, ma tutte ora sono scomparse.
Possiamo cercare nel capitalismo contemporaneo
un Adriano Olivetti del 2000? Si può fare un
paragone con i magnati che impegnano grandi capitali
in donazioni verso enti benefici, fondazioni o centri
di ricerca?
Si tratta di una cosa essenzialmente diversa. Al
di là dell’entità dell’impegno
e della donazione, oggi vediamo grandi imprenditori
o finanzieri, manager sensibili a certe istanze sociali
che destinano una parte della loro ricchezza verso
iniziative mirate come appunto fondazioni o enti benefici
o istitutoi di ricerca. Adriano Olivetti è
stata una figura completamente diversa. Lui non donava
denaro a una fondazione perché facesse ad esempio
attività culturali, era lui stesso che si impegnava
direttamente nelle iniziative che riteneva utili alla
comunità. Così ha fondato e diretto
una casa editrice, si è occupato in prima persona
dei servizi sociali, dei programmi per costruiire
alloggi per i dipendenti. Era per certi aspetti un
uomo del Rinascimento, un uomo nel quale le attività
impreditoriale, culturale e politica erano tutt’uno
e da questo punto di vista non vedo nel mondo contemporaneo
alcuna figura che possa essere paragonata a lui o
della quale possiamo dire che abbia raccolto l’eredità
e la lezione di Adriano Olivetti.
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