Avere
la possibilità di guardare un numero grandissimo
di canali. Riuscire a costruire un palinsesto che
sappia soddisfare i gusti e le preferenze di ciascuno.
Immaginare un pubblico non più massificato
e indifferenziato, ma segmentato, addensato in piccoli
gruppi di interessi intorno a canali tematici. E poi,
ancora, avere la reale possibilità di guardare
canali provenienti da tutti i paesi del mondo, poter
guardare la tv non solo dallo schermo del televisore
ma anche sul computer, sul telefonino. Tutte scene,
queste, che dipingono una specie di Babele elettronica,
un mondo nuovo che sta dietro l’angolo del futuro
o che forse sta già dando alcune sue anticipazioni
nello sviluppo delle tecnologie digitali applicate
alla tv. A Bruno Somalvico, autore con Bino Olivi
del libro La nuova Babele elettronica. La Tv dalla
globalizzazione delle comunicazioni alla società
dell’informazione (Il Mulino, 2003), storico
esperto di media e di tecnologie della televisione
e coordinatore, dal 2000 al 2001, del gruppo di lavoro
«digitale terrestre» del Forum Permanente
presso il Ministero delle comunicazioni, abbiamo chiesto
di spiegarci come cambia la televisione con le tecnologie
digitali.
Professor Somalvico, parliamo di tv digitale
e ci vengono in mente molte possibilità, da
una nuova e ricca offerta di canali tematici alla
possibilità di aprire il mercato a nuovi operatori,
a nuovi editori televisivi. Quale sarà il futuro
italiano per la tv?
Se si cerca di descrivere uno scenario futuro si
rischia di giocare il ruolo di una fata Morgana. Il
ritratto della tv degli anni che verranno è
legato a una serie di variabili che non consentono
facili previsioni. Il digitale terrestre, la tecnologia
scelta in Italia per la diffusione di segnali digitali,
va inquadrato nel processo storico dello sviluppo
della tv del nostro paese. Potremmo dire che oggi
ci troviamo a vivere la quarta fase della storia televisiva
italiana.
Come
e quando è iniziata questa storia?
La prima fase è stata caratterizzata dai monopoli.
Agli albori della tv, le frequenze erano considerate
un bene dello stato e una risorsa scarsa, e così
veniva assegnato a un soggetto pubblico, o para-pubblico,
il compito di avviare i segnali televisivi e di adempiere
a una serie di compiti. Tra questi ad esempio c’era
quello di costruire una rete di impianti di trasmissione
in grado di svolgere un servizio universale, cioè
raggiungere tutti i cittadini, senza discriminanti,
su tutto il territorio nazionale. Altri compiti miravano
poi a garantire il pluralismo dell’informazione,
l’accesso a soggetti diversi, in una realtà
nazionale in cui l’analfabetismo era abbastanza
diffuso, i giornali erano poco letti e la radio, prima,
e la televisione, poi, erano l’unica fonte di
accesso all’informazione per gran parte della
popolazione. La tv si presentava al pubblico con una
forte funzione educativa, su di essa ricadeva la possibilità
di svolgere un vero e proprio ruolo di alfabetizzazione,
visto che il linguaggio della tv diffuso dai programmi
della Rai ha in qualche modo unificato un paese in
cui si parlavano ancora molte lingue diverse legate
alle realtà regionali e locali.
Il panorama televisivo nato negli anni Cinquanta si
fondava sulla centralità, sul monopolio, della
Rai, concessionaria di un servizio radiotelevisivo
pubblico che inizialmente era monocanale e poi si
è ingrandito fino al secondo e al terzo canale,
e diffondeva ai telespettatori trasmissioni finanziate
dal canone e, in una piccola parte, dalla pubblicità.
Ma dopo qualche decennio il panorama è
cambiato, alle reti Rai se ne sono aggiunte altre
che hanno spezzato il monopolio del servizio pubblico.
Negli anni Ottanta i servizi televisivi europei sono
usciti dalla fase dei monopoli percorrendo vie diverse.
Nel nord del continente nuove soluzioni tecniche come
la diffusione via cavo e via satellite hanno aperto
le porte a nuovi soggetti. Nell’Europa mediterranea,
come in Spagna e Francia, il legislatore ha concesso
a privati l’opportunità di utilizzare
un numero molto ristretto di frequenze nazionali.
In Italia il sistema radiotelevisivo si è evoluto
verso la coesistenza di servizio pubblico e di tante
televisioni locali ed un ristretto numero di televisioni
commerciali in una realtà che possiamo definire
un oligopolio in cui i protagonisti sono due grandi
soggetti. Si è aperta così la seconda
fase della storia della tv, una fase in cui la pubblicità
diventa il grande motore di sviluppo del sistema televisivo.
Quando cerco di spiegare e raccontare la televisione
italiana di questa seconda fase, utilizzo l’immagine
della clessidra. Immaginiamo che in cima alla clessidra,
nel largo spazio che sta nella parte superiore, ci
siano tanti produttori di contenuto. Soggetti disposti
a trasformare dei contenuti in programmi televisivi
(come ad esempio la Lega calcio per le partite, un
produttore cinematografico per i film, una società
di produzione di talk-show, quiz o fiction) devono
scendere verso la metà della clessidra e andare
là dove il vetro si stringe. Qua ci sono le
reti dell’oligopolio, le concessionarie delle
frequenze cui i produttori devono proporre i propri
contenuti per farli poi irradiare a tutto il pubblico
televisivo nazionale.
Questa della clessidra è una fase che dura
fino alla seconda metà degli anni Novanta,
quando si affacciano sulla scena italiana le prime
piattaforme digitali che porteranno nuovi cambiamenti.
Di fatto però, è una situazione che
in parte vive ancora, e che continua a essere l’elemento
centrale dello scenario televisivo che abbiamo sotto
gli occhi. Se infatti andiamo a guardare i dati degli
ascolti televisivi possiamo riscontrare che quasi
il 90% di ascolti è appannaggio della tv generalista
terrestre. Le risorse economiche dell’epoca
della clessidra sono il canone, per la televisione
pubblica, e le inserzioni pubblicitarie. L’accesso
ai programmi è libero e le risorse economiche
sono esterne al sistema, con la conseguenza che lo
scopo primario della realizzazione di programmi da
parte delle televisioni commerciali è quello
di costruire platee per gli inserzionisti pubblicitari.
Una realtà, ripeto, che non è ancora
finita, ma che possiamo ritrovare, anche se con alcune
differenze, anche oggi.
E poi vennero i canali tv a pagamento.
Le prime pay-tv iniziarono a svilupparsi
in Francia già nella prima metà degli
anni Ottanta, ma in Italia solo nei primi anni Novanta
iniziano a fiorire i primi canali a pagamento che
decolleranno solo negli ultimi cinque anni in seguito
all’avvio delle piattaforme digitali via satellite.
Inizia così una realtà diversa per la
quale non funziona più il modello descrittivo
della clessidra ma che richiede un’immagine
diversa, anzi opposta, cioè il rombo, una figura
che ci disegna due processi di concentrazione, uno
in alto, l’altro all’estremo inferiore
del processo di produzione, distribuzione e fruizione
della programmazione televisiva.
Mi spiego meglio. All’estremità superiore
il rombo si restringe: è qui che abbiamo il
service provider, cioè colui che gestisce
le piattaforme, il soggetto che ha le strutture e
le possibilità per irradiare programmi attraverso
la tecnologia digitale.
Il service provider decide quali prodotti
acquisire, quali ritiene più appetibili ed
adatti alla messa in onda e per i quali vale la pena
spendere denaro e risorse per i diritti di sfruttamento.
All’estremità inferiore del rombo abbiamo
un’altra strozzatura, ancora una volta le linee
si stringono. Qui è raffigurato il momento
in cui i programmi, dopo aver incontrato il parere
favorevole del service provider, arrivano
al pubblico che però adesso non è più
vasto e indifferenziato, ma è un pubblico di
nicchia che ha deciso di pagare del denaro per avere
sul proprio televisore programmi che ritiene più
interessanti.
Quindi il service provider gestisce, nel
vertice superiore del rombo, l’acquisizione
dei diritti di sfruttamento; nella parte inferiore,
invece, controlla la gestione degli abbonati che avviene
attraverso l’accesso condizionato per mezzo
del decoder. Nella parte centrale del rombo ci sono
le centinaia di canali potenziali, sempre più
segmentati e specializzati, resi possibili dalla tecnologia
digitale, come ad esempio le tv tematiche e i servizi
interattivi.
In questa nuova fase le risorse del sistema tendono
a non essere più caratterizzate dalla centralità
del canone e della pubblicità, che pure mantengono
un ruolo predominante nel periodo transitorio, ma
ora l’elemento nuovo è il finanziamento
diretto proveniente dall’utente finale, che
si concretizza nell’abbonamento a un pacchetto
di canali o l’acquisto diretto di un prodotto
nel caso della pay per view.
Così ci ha descritto tre momenti che
si sono susseguiti dando forma alla storia televisiva
italiana. Ne manca ancora uno.
La quarta fase può essere definita come quella
che crea un ambiente multipiattaforma. In un prossimo
futuro, il possibile sviluppo del cavo, la realizzazione
e la diffusione effettiva delle tecnologie a banda
larga ci offriranno la possibilità di mandare
segnali televisivi destinati a nuovi terminali mobili
come ad esempio tv da polso o micro portatili e piattaforme
wireless, così che l’esperienza televisiva
non sarà necessariamente legata al televisore.
Questo è il quadro estremamente variegato e
complesso che stiamo iniziando a vivere, questa è
la Babele che dà il titolo al libro scritto
dal prof. Bino Olivi e da me: la complessità
in cui la moltiplicazione e la segmentazione dei canali
si presenta ad un pubblico che sta mostrando di rendersi
sempre più internazionale, accomunato dagli
interessi su determinati contenuti.
Che ruolo resta, allora, al servizio pubblico
in una realtà così frammentata e, al
tempo stesso, così vasta?
Il professor Olivi e io abbiamo in passato pubblicato
un libro dal titolo La fine della comunicazione
di massa (Il Mulino). Era il 1995, ci trovavamo
alla vigilia di quell’epoca che abbiamo descritto
con la figura del rombo, e noi invitavamo ad uscire
dall’eccesso di tv generalista che non riusciva
a liberarsi della dittatura dell’Auditel. Queste
erano idee e previsioni legate alla nascita di televisioni
tematiche e della diffusione di tecnologie digitali.
Negli anni che da allora ci portano fino ad oggi è
sorto un nuovo problema, cioè il digital
divide. All’interno delle società
occidentali esistono profonde differenze tra chi ha
diete mediatiche molto ricche, condite dalle più
innovative tecnologie, e chi invece non ha confidenza
con i nuovi dispositivi digitali. In tutta questa
complessità, nella Babele di cui si parlava
prima, al servizio pubblico resta allora la necessità
di svolgere il ruolo di una bussola che sappia essere
per i telespettatori uno strumento di orientamento
in un ambiente di informazione che ha dimensioni globali
e locali allo stesso tempo. Da qui poi è necessario
riprendere le redini di una produzione di qualità
e valorizzare le realtà locali.
Nell’universo multicanale, la vecchia tv generalista
è destinata a trovare una sua posizione nella
dimensione del tempo reale, cioè a tenere al
centro della sua attenzione l’informazione e
l’approfondimento al ritmo della comunità
locale, nazionale o globale. In altre parole rimane
il compito fondamentale di saper guardare verso il
mondo e allo stesso tempo di rappresentare il sistema
paese nella sua complessità. Vincere la sfida
della cosiddetta “glocalità”, significa
saper comunicare e rendere interessante all’Italia,
all’Europa e al mondo quanto avviene oggi in
un paesino della Basilicata ostile allo stoccaggio
delle scorie radioattive e capirne le effettive ripercussioni
nel dibattito mondiale sull’approvvigionamento
energetico.
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