Questo articolo è apparso sul quotidiano
L'Unità.
Non
c’è da prenderla alla leggera. Ad Istanbul
stanno martellando la cerniera, la porta di passaggio,
di comunicazione tra due mondi. Sanno che la Turchia
è in bilico, per questo puntano a scardinarla.
I terroristi hanno scelto con cura, niente affatto
a casaccio, i loro simboli. Prima le sinagoghe, poi
una banca e il consolato britannici. Volevano farci
sapere, ancora una volta, che ce l’hanno innanzitutto
con i dragoman, gli interpreti tra le diverse
culture, le soluzioni diplomatiche.
Cerchiamo di spiegare l’immagine. Da quando
Elisabetta I aveva nominato il primo ambasciatore
di Londra alla Sublime Porta del sultano di Costantinopoli
nel 1580, sino alla nascita della Turchia moderna
dopo la Prima guerra mondiale, avevano fatto ricorso
ad una figura particolare e decisiva, il dragoman
(corruzione del turco tercuman, interprete),
l’esperto di lingua, leggi, costumi, politica
locale, quello che meglio poteva capire le sottigliezze
degli interlocutori e della situazione con cui avevano
a che fare, gestire i rapporti coi visir, i cadì,
i capi dei giannizzeri e dell’esercito, gettare
un ponte, impedire catastrofici errori o malintesi,
insomma tenere aperte le comunicazioni. Non a caso
i migliori dragoman venivano reclutati tra
ebrei, armeni, cristiani. Gli andò bene finché
gli diedero retta, malissimo le volte che si azzardarono
a fare di testa propria, ignorare complesse interazioni
e interlocutori, marciare come se non esistessero
(era successo persino a Winston Churchill in visita
a Costantinopoli nel 1909, che finì per consegnare
la “nuova Turchia” nelle mani del Kaiser,
stava quasi per succedere a Paul Wolfowitz, quando
alla vigilia della guerra all’Irak sembrò
incoraggiare i generali turchi al golpe contro il
governo islamico uscito dalle urne). Il senso più
profondo delle bombe di Istanbul - sia di quelle contro
la comunità ebraica che da cinque secoli era
passata più indenne da pogrom e massacri, compresi
quelli nella più “civile” Europa,
sia di quelle contro la rappresentanza diplomatica
britannica - potrebbe essere proprio eliminare gli
“interpreti”, tagliare le comunicazioni,
nella speranza che il caos faccia saltare le cerniere
che ancora tengono, aprire un “fronte turco”
da aggiungere agli altri.
Nessuno
può sottovalutare l’importanza della
cerniera turca. É, all’estremo orientale
del Mediterraneo, la porta decisiva tra Est e Ovest.
Da anni ha fatto la scelta e cerca di entrare a pieno
titolo in Europa. Storicamente ne aveva fatto sempre
parte, quanto, e anzi più della Russia (l’impero
ottomano veniva definito il “gran malato dell’Europa”,
non, per dire, dell’Asia). Ne diverrebbe il
nuovo membro più popoloso, l’unico prevalentemente
islamico, e come tale in grado dialogare proficuamente
con i vicini islamici dell’Europa. É
l’unico grande paese islamico ad avere un rapporto
estremamente solido (qualcuno dice ormai addirittura
di vera e propria “alleanza strategica”,
persino militare) con Israele. L’unico degli
Stati islamici che si affacciano sul Mediterraneo
a non avere mai fatto la guerra allo Stato ebraico.
Questo gli consente di poter avere un ruolo decisivo
nella stabilizzazione del conflitto arabo-israeliano
in Medio oriente. Nello stabilizzare la polveriera
irachena potrebbe avere un ruolo fondamentale, non
di meno conto di quello dell’Iran. Potrebbe
rivelarsi la chiave per tenere sotto controllo le
altre polveriere vicine in lenta ebollizione, dal
Caucaso all’Asia centrale ex sovietica.
Tanto più che gran parte dei problemi più
“insolubili” che tormentano il nuovo secolo
erano iniziati proprio da lì nel secolo scorso,
alla fine della guerra che avrebbe dovuto “porre
fine a tutte le guerre”, e che invece finì
per alimentarle quasi tutte. La Palestina era una
provincia turca. Così come lo era l’Irak
prima che lo inventassero, divisa nei “vilayet”
di Mosul (il nord curdo), Baghdad (il centro sunnita),
Bassora (il sud sciita). Avevano preso riga e matita,
e creduto di poter risolvere tutto sulla carta e con
le baionette, senza star ad ascoltare, non solo i
popoli interessati, ma nemmeno alcun dragoman.
Istanbul fu, durante l’occupazione alleata del
1919-21, la prima città pattugliata congiuntamente
da carabinieri italiani, marines americani, tommies
britannici e fantassins francesi. Ma non poteva essere
quella la soluzione.
Da allora, la Turchia è stata quasi costantemente
in bilico. Tra Germania e alleati nella Seconda guerra
mondiale. Tra Oriente e Occidente. Tra democrazia
e dittatura. Non ha scelto il peggio. Ma quel che
è in bilico è per definizione instabile,
esposto alle spallate. É l’unico paese
nella regione, accanto a Israele, in cui si vota davvero,
anche se con una democrazia ancora fragile e “sotto
tutela” da parte dei militari. C’è
chi ha sostenuto che potrebbe essere il vero modello
cui far riferimento nella grande scommessa sulla compatibilità
tra islam e democrazia. Le ultime elezioni le ha vinte
un partito islamico moderato, una sorta di “democrazia
cristiana islamica”, s’è detto.
Ma l’attrito coi generali è perennemente
in agguato. Ha un’economia dissestata, problemi
sociali immani; non ha petrolio, ma è dal Bosforo,
dal Mar nero e dagli oleodotti in Anatolia che passerà
gran parte del petrolio che l’Europa consuma
oggi e consumerà nei decenni a venire di questi
secolo.
Questa è la cerniera che le bombe, in tutta
evidenza, vorrebbero far saltare. Chiunque abbia mosso
i manovali, al Qaida o chi per loro, che si tratti
degli estremisti turchi che le autorità sostengono
di avere già individuato, o di terrorismo d’importazione,
dalla Siria, dall’Afgahnistan o da altrove.
Sullo sfondo certo c’è la guerra e il
dopoguerra in Irak. Gli attentati suicidi antibritannici
sono avvenuti proprio nel momento in cui George W.
Bush era in visita a Londra agli alleati britannici.
La strage nelle sinagoghe, pochi giorni prima, in
una città che non ha mai avuto ghetti, appariva
volta a interrompere secoli di relativa tolleranza
nei confronti degli ebrei, in fuga dalle persecuzioni
dell’Inquisizione, dei cosacchi, dei persiani,
dei principati Balcanici e del Danubio. Ma nel perverso
simbolismo del terrorismo ci deve essere una ragione
se non hanno deciso di colpire obiettivi americani,
o ad Ankara. Certo non era una “punizione”
nei confronti di una partecipazione turca alla guerra
che non c’è mai stata. La posta è
apparentemente ancora più grossa.
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