L’autore è membro fondatore dell’
Economic
Policy Network di Washington. Il testo che
segue è tratto dall’intervento di Jeff
Faux al Convegno Europa
sociale. Problemi e prospettive, svolto a Roma
a cura della Fondazione Di Vittorio il 18 e 19 novembre
2003.
I
film di Hollywood rappresentano l’esportazione
più diffusa del modello americano. Un altro
tipo di esportazione contiene anch’essa una
larga parte di fantasia. Si tratta dell’idea
che gli Stati Uniti abbiano in qualche modo fondato
il modello economico “anglo-americano”,
presumibilmente superiore ad altre forme di economia
di mercato, e ritenuto in particolare migliore delle
forme socialdemocratiche dell’Europa continentale.
Il modello americano viene venduto nel mondo con etichette
diverse (come ad esempio “neo-liberalismo”
o “consenso di Washington”) ma sempre
con l’idea che le dimensioni e l’influenza
degli Stati Uniti attribuiscano al loro modello un
grande potere nel conflitto di idee sulla politica
economica esistente nel mondo. E’ un dibattito
questo che riguarda non solo il futuro dell’Europa,
ma il governo dell’economia globale.
Nel 1996, poco dopo essere diventato segretario dell’Organizzazione
Internazionale del Commercio (Wto), Renato Ruggiero
osservava: “non stiamo più scrivendo
le regole dell’interazione tra diverse economie
nazionali. Stiamo scrivendo la costituzione di un’unica
economia globale”.
Questa costituzione globale è stata scritta
per lo più in segreto – senza democrazia
- e in più posti, come il Fondo Monetario Internazionale,
il Wto, la Banca Mondiale e altre istituzioni internazionali.
Poiché non esiste un meccanismo che permetta
una partecipazione politica globale, il dibattito
avviene per le strade, a Jakarta, a La Paz a Genova,
un dibattito che può essere un po’ astratto,
ma le cui implicazioni politiche sono invece assai
reali.
Molti
sostenitori del modello americano, affermano l’idea
che l’Europa occidentale ha avuto nel recente
passato una crescita lenta perché il suo mercato
del lavoro è poco elastico, consente che i
lavoratori siano iper-protetti, si fonda su uno Stato
sociale troppo generoso che non fornisce abbastanza
incentivi a lavorare sodo.
Probabilmente in questo ragionamento qualche verità
c’è e non sarà difficile indicare
esempi di rigidità del mercato del lavoro,
regolamentazioni eccessive e inefficienze burocratiche.
Ma, allo stesso modo, si potrebbero portare esempi
di sfruttamento, di grandi iniquità e di corruzione
del governo rispetto al rapporto con la sanità
privata negli Stati Uniti.
In realtà i veri sostenitori del modello americano
ammettono che la vita economica negli Usa è,
per i normali lavoratori, meno sicura di quella europea,
che la società è fragile e che il settore
pubblico è abbandonato. Esempio notissimo è
quello del sistema sanitario. Noi americani paghiamo
molto per la nostra assistenza sanitaria, e in compenso
abbiamo copertura inferiore, prezzi tra i più
cari al mondo per i medicinali, un’attesa di
vita inferiore a quella delle nazioni più importanti
del mondo e anche a quella della ormai impoverita
Cuba.
Ma, secondo coloro che vendono il modello americano
all’estero, questi valori sono meno importanti
per la persona media rispetto all’opportunità
di arricchirsi. Questa visione, cioè, segue
le parole della signora Thatcher che una volta disse
che “la società non esiste”, con
la conseguenza che il perseguimento della ricchezza
da parte dell’individuo dovrebbe essere l’obiettivo
principe della politica economica.
Conclusione naturale di tutto questo ragionamento
sarebbe allora la necessità di seguire il modello
americano con i suoi mercati deregolamentati, con
lo scopo di realizzare una società in cui il
potere dei sindacati sia molto ridotto, i servizi
sociali privatizzati, e in cui si promuova austerità
in campo macro-economico e grandi libertà per
le imprese. Ebbene, se volessimo seguire questa strada,
si otterrà la prosperità all’americana.
Qualsiasi danno ai valori della comunità, della
solidarietà e dell’uguaglianza sarà
più che compensato da un aumento della produttività
e della crescita economica, che a sua volta dovrebbe
alimentare la prosperità per tutti coloro che
vi abbiano contribuito.
C’è qualcosa di profondamente falso intorno
a questa argomentazione. Come i film di Hollywood,
il cosiddetto “modello americano” non
rispecchia la realtà. Un prodotto destinato
all’esportazione può differire dal prodotto
che con la stessa etichetta è venduto sul mercato
nazionale; quando parliamo di “modello americano”,
infatti, ci riferiamo un riflesso super-semplificato,
idealizzato e distorto, di come si muove attualmente
l’economia americana.
Devo dire che molti, politici miei concittadini e
sapientoni vari, vendono al resto del mondo un paradigma
economico, il riflesso del sogno di ciò che
vorrebbero imporre in America, ma che non sono stati
capaci di realizzare, soprattutto perché gli
americani non lo acquisterebbero.
La gente comune non perde il proprio tempo a pensare
a come fare del mondo la propria immagine. La classe
di governo del mio paese ha però la tendenza
ad appioppare al resto del mondo nozioni astratte
che non sono andate del tutto bene negli Stati Uniti.
Per esempio, dopo la prima guerra mondiale, Woodrow
Wilson, un democratico, cercò di imporre la
sua idea di democrazia all’estero nel momento
in cui molti dei nostri cittadini non avevano diritto
di voto. Dopo la seconda guerra mondiale, Roosvelt
e i fautori del New Deal, con più successo
di Wilson, influenzarono la ricostruzione dell’Europa
occidentale con idee socialdemocratiche che erano
troppo radicali per l’America a quel tempo.
Oggi, gli ideologi repubblicani vogliono rifare l’Iraq
secondo una versione che faccia piacere all’economia
americana. Il governatore americano dell’Iraq
ha annunciato recentemente la sua intenzione di stabilire
un sistema di “imposta unica” che i conservatori
repubblicani hanno cercato di attuare senza successo
negli Stati Uniti per trent’anni.
Alcuni iracheni, guardando ai loro interessi, si sono
dichiarati favorevoli alla proposta; allo stesso modo
sono in molti che dagli Stati Uniti vedrebbero con
piacere una situazione che portasse l’Europa
verso un sistema americanizzato, ma gli europei dovrebbero
osservare con attenzione cosa succede negli Usa prima
di acquistare il modello americano.
Partiamo dall’affermazione per cui la ricchezza
americana sia dovuta al fatto che il suo mercato del
lavoro è flessibile. Tutti noi sappiamo che,
in generale, il mercato del lavoro americano è
meno protettivo e fornisce i datori di lavoro di maggiore
forza sui lavoratori che quello europeo. Ma questo
è accaduto per almeno mezzo secolo, anche quando
la crescita statunitense era più bassa e la
disoccupazione più alta di quella delle economie
dei maggiori paesi europei.
Negli ultimi due decenni, effettivamente, l’economia
americana è cresciuta più velocemente
di quanto non sia accaduto in Europa. La domanda è,
allora: possiamo attribuire questa recente crescita
più rapida negli Usa – o anche una significativa
parte di essa – a leggi più flessibili
in materia di lavoro? Se per “flessibilità”
intendiamo la capacità dei manager di utilizzare
la forza lavoro in modo più efficiente, invece
che più semplicemente di far lavorare di più
e con paga più bassa, la risposta è,
no. Infatti, le leggi sul mercato del lavoro in America
sono diventate meno flessibili negli ultimi dieci
anni. Dopo l’elezione di Bill Clinton nel 1992,
il Congresso approvò una legge che permetteva
ai lavoratori di avere del tempo libero per badare
alla famiglia senza essere penalizzati; è aumentato
il salario minimo, le agenzie federali che regolano
il mercato del lavoro hanno aumentato il loro organico
per affrontare le violazioni delle regole sulla salute
e sulla sicurezza, le ingiuste condizioni di lavoro
e lo sfruttamento del lavoro. È vero che il
tasso di sindacalizzazione è sceso (ma è
questa una tendenza che si verifica da venticinque
anni) e che esso è, piuttosto, il risultato
dello svuotamento dell’industria manifatturiera
e delle leggi sul lavoro restrittive in vigore fin
dal 1946.
Le date sono importanti, perché se la “flessibilità”
era la chiave per il successo economico, allora si
sarebbe dovuto avere un aumento della produttività.
Invece è solo dal 1995 che la crescita della
produttività statunitense è più
veloce di quella europea. Prima di allora, tutte le
maggiori economie europee occidentali hanno visto
il loro Pil crescere più virittura elocemente
che negli Usa, mentre nel 1989 Germania occidentale,
Francia Belgio, Olanda e Norvegia hanno adsuperato
i livelli di produttività americani.
Se, dall’altra parte, “flessibilità”
significa costringere la gente a lavorare più
ore e sfruttare i lavoratori più deboli, allora
questa affermazione ha qualche fondamento. Le ore
annuali lavorate negli Usa sono senz’altro le
maggiori in tutto il mondo industriale. Inoltre, lo
sfruttamento illegale dei migranti, soprattutto di
quelli irregolari, è ormai prassi diffusa.
L’Amministrazione Bush sta cercando di riportare
le lancette indietro. Ma, finora, poco è cambiato,
se non nulla, nella struttura del mercato del lavoro
perché si è verificata una forte opposizione,
anche tra i membri del partito repubblicano.
Allora, come si può spiegare la maggiore crescita
generale e la minore disoccupazione in America?
Credo che la risposta sia nella politica macroeconomica,
piuttosto che nelle differenze strutturali tra Stati
Uniti e zona Euro. Nonostante la cattiva fama di John
Maynard Keynes presso i responsabili politici di Washington,
i governanti americani – a prescindere dal partito
di appartenenza – sono stati più keynesiani
dei governi europei.
Oggi, per esempio, con un tasso di disoccupazione
del 6 percento, il deficit fiscale calcolato dal governo
per il 2003 è pari al 4,6% del Pil. La combinazione
di tagli alle tasse e crescita delle spese militari
ha acceso la crescita economica nel terzo trimestre
di questo anno. George Bush, che si descrive al resto
del mondo come il nemico del big government,
tiene attualmente discorsi accreditandosi il merito
di questa ricchezza economica a suo dire legata ai
tagli fiscali. Ora, questo argomento non sta sul lato
dell’offerta ma dalla parte della domanda. Il
principale consulente economico del presidente ha
detto recentemente: “il pacchetto del presidente
mette il denaro nelle mani del consumatore”,
e infatti si vede ad una forte crescita della spesa.
Negli ultimi vent’anni, noi americani siamo
stati molto più rapidi nell’abbassare
i tassi di interesse e nell’espandere il deficit
fiscale a fronte dell’aumento della disoccupazione.
Richard Nixon diceva nel 1969 cose che rimangono vere:
“siamo tutti keynesiani”. Per colmo d’ironia,
il presidente più keynesiano è stato
Ronald Reagan, il cui deficit ha contribuito a far
uscire l’economia americana dalla crisi degli
anni ’80.
A fronte di questo modello macroeconomico americano,
vediamo il modello europeo. L’Unione Europea
nel suo insieme ha un deficit minore – il 2,5
% del Pil – mentre il suo tasso di disoccupazione
è pari all’8,8%. I parametri di Maastricht
rappresentano una questione politica per gli europei.
Ma, comunque la si pensi sui parametri, è evidente
che il costo economico è rilevante.
Analogamente, la Federal Reserve americana ha seguito
una politica monetaria più espansionistica
rispetto a quella europea. Negli ultimi tre anni,
i tassi d’interesse reali comparabili sono stati
sempre più bassi di quelli della Banca centrale
europea, nonostante che il più alto tasso di
disoccupazione nell’Ue. Come abbiamo capito
dalla storia recente dell’economia giapponese,
tagliare rapidamente i tassi d’interesse a fronte
di un rallentamento della crescita è importante
quanto tagliarli profondamente.
La spesa crea lavoro. Ed è l’impegno
a mantenere la spesa, una politica macroeconomica
flessibile – non una politica flessibile del
mercato del lavoro – che può spiegare
il minor tasso di disoccupazione negli Usa.
All’inizio degli anni ’90, la maggioranza
dei politici americani, come forse in Europa oggi,
pensava che il problema della disoccupazione fosse
sostanzialmente un problema di insufficiente qualificazione,
rigidi diritti sindacali e atteggiamenti anti-sociali
da parte dei lavoratori, soprattutto di quelli giovani.
Tuttavia, moltissimi lavoratori appartenenti a categorie
considerate all’inizio degli anni ’90
non impiegabili, nel 1999 avevano trovato occupazione
a tempo pieno. Come è stato possibile? Le leggi
sul mercato del lavoro non sono cambiate, gli atteggiamenti
non sono miracolosamente mutati, la formazione dei
lavoratori non ha fatto passi avanti, i sindacati
non sono scomparsi. È successo che la più
rapida crescita generata dalle politiche macroeconomiche
ha creato un mercato del lavoro più rigido
e i datori di lavoro hanno dovuto assumere persone
che dieci anni prima non avrebbero assunto. Quando
i mercati del lavoro sono rigidi, i datori di lavoro
sono portati ad investire in produttività,
cioè in macchinari e apparecchiature che distruggono
posti di lavoro. Questo può spiegare il fatto
che gli stati Uniti hanno potuto vantare una maggiore
produttività solo a partire dal 1995.
C’è un altro ingrediente essenziale del
vero modello americano che generalmente non viene
riportato sull’etichetta per l’esportazione.
È il credito a condizioni agevolate.
Il credito è la linfa del capitalismo, e i
governi americani hanno cercato di pomparla nell’economia
più rapidamente possibile. Le carte di credito
sono spedite praticamente a tutti, inclusi i bambini,
agli immigrati illegali ed anche, qualche volta, ai
morti. Il credito agevolato non solo mantiene alta
la domanda, ma ha aiutato a creare una cultura per
la quale i negozi sono aperti 24 ore al giorno e 7
giorni a settimana e il mercato ha potuto trovare
applicazione anche su Internet.
Dunque, contrariamente alla flessibilità del
mercato del lavoro, il tasso di indebitamento è
quello che è cambiato drammaticamente durante
il boom statunitense degli anni ’90. Il debito
come quota rispetto al reddito dei lavoratori è
aumentato costantemente fino a raggiungere picchi
assoluti. Il risparmio personale è sceso dal
8,5 per cento del reddito disponibile nel 1992 al
2,2 per cento nel 2000.
I governi degli Stati Uniti, cosiddetti conservatori,
hanno sovvenzionato il credito agevolato fino al punto
che con piccole quantità di denaro, tutti gli
americani possono accedere a mutui trentennali, che
le banche raccolgono e poi vendono ai mercati secondari
dei mutui garantiti dal governo. Il possesso della
casa, a sua volta, crea la sola opportunità
per la maggior parte degli americani di accumulare
ricchezza, e questa rappresenta una fonte costante
di domanda per il settore delle costruzioni e delle
abitazioni.
Il credito agevolato è anche sovvenzionato
da un sistema molto liberal sul fallimento delle imprese,
nel senso che il debito può essere liquidato,
e il consumatore fallito o la società possono
ritornare rapidamente nel mercato del credito. Un
recente e drammatico esempio è quello del gigante
delle telecomunicazioni, World Com, che è letteralmente
crollato nel giugno del 2002, con un debito di 41
miliardi di dollari. Il tribunale fallimentare è
riuscito a recuperare solo 5,8 miliardi del debito,
e l’azienda ha avuto la possibilità di
rinviare il pagamento mentre contemporaneamente accumulava
liquidità. A gennaio Wall Street si aspetta
che l’azienda sia fuori dal fallimento e possa
ritornare a fare profitti sul mercato. Questo è
il vero modello americano: grandi protezioni ai consumatori
e alle imprese contro le conseguenze dei loro errori
finanziari.
Non in questa direzione invece agiva l’amministrazione
conservatrice di Ronald Reagan che reagì al
collasso di una importantissima banca, così
come in maniera diversa ha reagito il governo giapponese
a crisi più recenti. L’Amministrazione
Reagan non esitò allora ad intervenire sulle
banche inviando burocrati dello stato a vedere quali
banche avrebbero potuto sopravvivere e quali no; spese
500 miliardi di dollari dei contribuenti per riorganizzare
il sistema bancario: non lasciò che fosse il
mercato a risolvere il problema.
Quindi, se noi andiamo a guardare al di là
delle etichette che vengono apposte sulla versione
da esportazione del modello americano, possiamo notare
che i governi americani non esitano ad intervenire
nell’economia privata. I settori più
grandi e di maggiore successo dell’economia
americana sui mercati internazionali – prodotti
militari, l’agricoltura, i sistemi informatici
ad alta tecnologia – sono prodotti che vedono
massicci investimenti e sostegni governativi.
Il libretto di istruzioni che viene inviato con la
versione destinata all’esportazione del modello
americano invita l’acquirente a rimanere aperto
rispetto al rischio dell’indebitamento, ma non
ricorda che oggi l’America, se ancora galleggia,
è proprio grazie all’indebitamento, perché
compriamo dal resto del mondo più di quanto
vendiamo. E tutto questo avviene da più di
venticinque anni. Non risparmiamo abbastanza per compensare
il saldo e quindi abbiamo un deficit corrente, un
debito netto dell’intero paese, compresi prestiti
e debiti, che dalla metà degli anni ’80
è aumentato costantemente. Ormai siamo al 25%
del Pil. Se la curva dovesse rimanere inalterata,
gli economisti di Wall Street ritengono che da qui
a tre anni arriveremo al 40%, che è il livello
al quale è crollata l’economia argentina.
Quello che rende l’America diversa da nazioni
come ad esempio l’Argentina, è certamente
l’utilizzo del dollaro. È stata la valuta
di tutte le riserve, è il metro di pagamento
principale per il petrolio e le transazioni internazionali,
è considerato un “porto sicuro”
per gli investitori quando hanno paura di scombussolamenti
politici in qualche parte del mondo.
Ma anche un paese grande e così ricco come
gli Usa non può all’infinito comprare
all’estero più di quanto non venda, indebitandosi
per compensare la differenza. Prima o poi, il deficit
commerciale dovrà essere sostanzialmente ridotto,
se non eliminato completamente. Occorrerà una
svalutazione del dollaro, un sostanziale rallentamento
dell’economia. Un agnete di borsa di Wall Strett
ha detto recentemente: “prima, o forse poi,
i nostri creditori asiatici si sveglieranno”.
Il risultato sarà, “un riaccendersi dell’inflazione,
forse il caos nei mercati finanziari, un minor tenore
di vita”.
Già oggi, intravediamo segnali che potrebbero
avvicinarci a questo limite. L’euro è
più forte del dollaro e, seppure lentamente,
varie transazioni finanziarie oggi vengono condotte
utilizzando questa moneta. È bene considerare
il dollaro alla luce di quanto è avvenuto alla
fine degli anni ’90 in Borsa: sappiamo che le
azioni erano assolutamente sopravvalutate, sapevamo
che la bolla sarebbe scoppiata ma non sapevamo quando.
E neanche oggi lo sappiamo.
È utile riflettere sul modello americano e
su quello europeo, così come è altrettanto
utile chiedersi quanto possa funzionare il modello
americano in paesi privi dello straordinario vantaggio
di possedere la valuta più importante al mondo.
In questi ultimi vent’anni la classe politica
di molti paesi ha cercato di rendere la propria economia
ad immagine e somiglianza di quella americana, con
risultati poco positivi. Il Pil mondiale è
diminuito, la distribuzione del reddito tra un paese
e l’altro è peggiorata – e probabilmente,
escludendo la Cina, sta diminuendo anche all’interno
di ogni singolo paese. Ma valutare le politiche economiche
di quasi 200 paesi con oltre 6 miliardi di abitanti
non è facile. Però in Nordamerica abbiamo
un esempio molto evidente di come si possa replicare
il modello americano in altri paesi.
Come l’Ue, il Nord American Trade Agreement
(Nafta) è più di un accordo di libero
scambio. Parafrasando Ruggiero, è la costituzione
di una economia continentale. Ma il Nafta è
anche la costituzione che tutela i diritti di un unico
cittadino, l’investitore delle multinazionali,
è un sogno di quello che molti politici e imprenditori
americani vorrebbero realizzare in America: non c’è
tutela per i lavoratori, per l’ambiente, nessuna
coesione sociale, non c’è nulla se non
i diritti degli investitori. Ora, in cambio di questi
straordinari diritti, i promotori del Nafta hanno
promesso che il Messico avrebbe avuto una crescita
economica protratta, che avrebbe migliorato la situazione
generale del paese, elevato il tenore di vita e creato
un ceto medio di consumatori ai quali Usa e Canada
avrebbero potuto vendere propri prodotti. A dieci
anni di distanza, la crescita del Messico è
stata al massimo la metà di quanto occorrerebbe
per dare lavoro sufficiente alla sua crescente manodopera
disponibile. Dal 2000, il Messico ha smesso di crescere.
I vantaggi economici, allora, sono stati pochi, i
costi umani e sociali molto alti. Milioni lavoratori
hanno avuto la vita distrutta in alcuni paesi del
Nafta. In Messico, per esempio, moltissimi lavoratori
rurali si sono dovuti trasferire. Nonostante lo spostamento
di molte industrie da Usa e Canada in Messico, il
salario medio reale, secondo quanto afferma anche
il governo messicano, nel gennaio del 2003 era inferiore
del 9% a quello del gennaio del 1994. Non v’è
dubbio che qualche messicano avrà avuto vantaggi
su prodotti americani e canadesi a basso prezzo, ma
in un paese dove il tasso di povertà arriva
al 50 per cento, il costo della vita di base della
stragrande maggioranza del popolo è aumentato.
Non sono cresciuti i posti di lavoro, c’è
una emigrazione pericolosa attraverso il confine statunitense.
Lo scorso 19 maggio molti lavoratori messicani sono
stati trovati morti asfissiati in un camion in Texas.
Uno dei sopravvissuti ha commentato: “per migliorare
la tua vita devi andare negli Stati Uniti”.
L’immigrazione illegale verso gli Usa dimostra
il fallimento del modello angloamericano esportato
per dare ricchezza altrove.
Questo non vuol dire che l’Europa non abbia
nulla da imparare dall’attuale esperienza economica
americana. Rendere accessibile il credito per l’acquisto
della casa ha contribuito a dare stabilità
sociale ed economica ed ha reso possibile per moltissimi
lavoratori mettere da parte un capitale per la vecchiaia.
È riuscito a incrementare la domanda per l’industria
dell’edilizia. Fare una politica fiscale e monetaria
più flessibile ha senso in qualunque economia
di mercato. Credo che questa è una cosa che
gli europei dovrebbero prendere in considerazione.
Penso anche che una maggiore mobilità sociale
e lavorativa – enfatizzando di meno le credenziali
legate all’istruzione – possa rappresentare
un vantaggio in termini di flessibilità; questa
anche è una cosa che l’Europa dovrebbe
utilizzare. Una forza dell’America, inoltre,
è il fatto di essere la terra che offre una
“seconda possibilità”, dove è
più facile per chiunque ricominciare dopo un
fallimento. Questo permette di avere dei meccanismi
flessibili.
Ci sono cose che gli europei possono imparare dagli
americani, ma è vero anche il contrario. Ma
la cosa importante è guardare alla nostra esperienza
di vita reale, e non semplicemente accettare la versione
hollywoodiana. Così, prima di decidere di importare
qualcosa in più del modello economico americano,
cercate di guardare con attenzione a come esso funziona
attualmente da noi.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it