241 - 29.11.03


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Storia di un malinteso

Franco Cardini con Andrea Borghesi


Medievalista, docente dell’Università di Firenze, autore di libri come Noi e l’Islam: un incontro possibile? (Laterza 1994), Europa e Islam: storia di un malinteso (Laterza 1999), Il ritmo della storia (Rizzoli 2001). Franco Cardini è uno dei massimi esperti di Islam, della sua storia e di come la cultura musulmana venga percepita nel mondo occidentale. Nei giorni in cui il sondaggio dell’Eurobarometro ha diffuso l’opinione secondo la quale la maggoranza dei cittadini europei considera Israele un pericolo per la pace mondiale, abbiamo chiesto al professor Cardini il suo punto di vista sulla questione israelo-palestinese e come si vede l’Islam dall’Europa.

Il sondaggio effettuato dalla Commissione europea su un campione di cittadini ha dato un risultato, per molti versi sorprendente sulla percezione da parte del 59% degli intervistati di Israele come pericolo per la pace. Lei, professor Cardini, che è uno studioso attento ai rapporti tra occidente e oriente come giudica questi risultati?

Penso che il sondaggio va preso come tutti i sondaggi, cioè senza dargli un particolare credito, ma anche senza demonizzarlo troppo. Esiste in Europa una preoccupazione per la politica statunitense, e questo spiega perché oltre la metà risponda che anche gli Stati Uniti sono un pericolo per la pace, come esiste una preoccupazione per l’attuale politica di Israele. In base a questo si tende a rivedere anche l’intero atteggiamento di quel paese. Non credo si possa dire, come ha fatto qualcuno, che mettere sullo stesso piano i terroristi palestinesi e la legittima difesa israeliana sia un confondere gli attaccanti con gli attaccati. La realtà è un po’ più complessa. È questione di pura accademia discutere sul fatto a chi appartenga quella terra. Questo è un uso infausto della storia. Bisogna tener presente, soprattutto, come si è arrivati a questa situazione: l’esito della Shoah ha obbligato molti ebrei a defluire verso Israele, al di là dell’ideologia sionista, che ha un carattere nazionalista di stampo romantico, legittimata da quello che stava succedendo in Europa.

Non le sembra ci sia stato uno scivolamento tra antisionismo e antisemitismo e, addirittura, tra un giudizio negativo sulla politica di Sharon e l’antisemitismo, non crede insomma che ci sia una tendenza a far coincedere gli atteggiamenti verso il popolo di Israele con il suo governo, la storia degli ebrei con il solo movimento sionista?

Evidentemente questa operazione tende ad evitare che si assuma un atteggiamento critico nei confronti dell’attuale dirigenza israeliana. L’equazione anti-Sharon o anti-Netanyau uguale anti-israeliano è un’equazione falsa e quella anti-israeliano uguale anti-semita è anch’essa falsissima. Quella anti-sionista uguale antisemita è anch’essa improponibile. Sono salti logici che non si possono ammettere. È vero invece, che la politica intrapresa da Sharon è di repressione e rappresaglia: si colpisce un’intera comunità o un intero villaggio perché si pensa, senza avere le prove, che all’interno ci siano terroristi. Noi abbiamo criticato duramente gli Usa per il loro atteggiamento nel Vietnam, ma qui non siamo molto lontani. Gli ultimi aggiornamenti della Convenzione di Ginevra, avvenuti nel 1976, definiscono questi atti come crimini di guerra. Che poi non si possano portare i responsabili di fronte ad un Tribunale, per evidenti motivi di equilibrio delle forze politiche, questo è un altro discorso. Se è vero che c’è il diritto di difendersi di fronte ad atti di terrorismo, è altrettanto vero che il terrorismo non si combatte con azioni indiscriminate. La storia militare insegna che questo è un errore, che serve solo ad inasprire le cose. Direi che la vera differenza è che dietro ai vietnamiti c’era buona parte del mondo comunista e tutto il fronte delle potenze liberali e socialiste durante la guerra, mentre dietro ai palestinesi non c’è nessuno.

Nel suo libro “Europa e Islam”, scrive che una vecchia regola storica dice che ciò che succede a Gerusalemme interessa tutto il mondo. Ora, vista la copertura mediatica degli attentati suicidi contro cittadini israeliani, come è possibile, stando almeno a quanto viene fuori dal sondaggio, una risposta quasi contraria da parte dell’opinione pubblica europea?

È vero che siamo condizionati dai media e reagiamo a questi condizionamenti come i cani di Pavlov. Questa è una coartazione della libertà. La maggioranza dei mass-media è nelle mani di forze politiche ed economiche che hanno sposato, direi quasi in maniera totale, la causa del neoconservatorismo americano e dell’appoggio all’attuale, sottolineo attuale, dirigenza israeliana; si fa finta che non esistano le risoluzioni dell’Onu contro Israele, il muro di contenimento che si sta costruendo, una politica, che è stata di molti governi israeliani negli ultimi cinquant’anni, di repressione e di concentramento dei palestinesi che li incoraggia a lasciare la propria terra.
Vediamo le immagini spaventose dei pazzi di cadaveri delle vittime del terrorismo palestinese, ma si tace sugli effetti delle rappresaglie; i morti dell’altra parte non vengono fatti vedere. Questa è una visione distorta della realtà. Si realizza, però, anche un effetto contrario, quello che i fisici chiamerebbero un “residuo entropico”, una sorta di contraccolpo che spinge le persone a chiedere perché non si parla di quello che avviene dall’altra parte.

E, al di là di questo, è giusto l’equilibrio che si è proposto? Perché non va avanti il progetto di pacificazione di Ginevra (quello approntato da uomini politici non di governo e da intellettuali palestinesi e israeliani che dovrebbe essere firmato a Ginevra il prossimo 20 novembre, ndr) che sembrerebbe una ripresa positiva e concreta dei patti di Oslo? E poi: i colloqui di Camp David sono veramente saltati perché Arafat ha abbandonato il tavolo delle trattative? Ben Ami, allora ministro dell’Interno di Barak, ha ammesso, per esempio, che, in quell’occasione, l’offerta, ormai diventata famosa, della metà di Gerusalemme ai palestinesi non esisteva; gli israeliani concedevano solo il sobborgo sud-orientale della città, da dove non si vede nemmeno la punta della moschea di Omar; così pure la continuità territoriale del futuro stato palestinese non è mai stata oggetto di trattativa, tanto che il governo israeliano non ha mai prodotto neppure una mappa a riguardo. Eppure, quello che è passato attraverso i mass-media è che Arafat, che certamente è un personaggio equivoco e con pesanti responsabilità passate, ha abbandonato il tavolo e non il fatto che quello proposto ai palestinesi era un accordo a scatola chiusa ed immodificabile.

Veniamo al rapporto tra Europa e Islam. Nel suo libro, lei parla della Storia di un malinteso. Di che cosa si tratta?

L’Islam “copre” un’area geografica molto grande che va dall’Indonesia fino alla parte più occidentale del nord Africa, nella quale sono compresi molti paesi a maggioranza musulmana. C’è, inoltre, una forte diaspora musulmana che fa sì che l’Islam sia sparso in tutto il mondo. Oltre a questo è da considerare che esso non ha un vero centro, non ha chiese, non ha un’organizzazione gerarchica unitaria. Un miliardo e mezzo di persone, un quarto circa dell’intera popolazione mondiale, professa la religione islamica. Questo è un risultato di un processo secolare. Fino al XV secolo l’Europa ha conosciuto un Islam particolare, quello arabo-mediterraneo, poi quello turco, mentre non ha praticamente avuto rapporti con quello indiano, quello persiano, quello del sud-sest asiatico. Le relazioni con l’Islam arabo-mediterraneo erano positive, comprendevano scambi commerciali, culturali, di buon vicinato, insomma, punteggiate da episodi di scontro militare, che talvolta assumevano carattere quasi cronico. Lo possiamo considerare l’epifenomeno guerriero di un rapporto profondo, fondato su amicizia reciproca e su comuni origini culturali.

Il malinteso nasce quando gli europei nell’Ottocento, avendo bisogno di legittimare la loro politica colonialista, hanno interpretato la storia come contrasto tra Cristianità e Islam, perché avevano interesse a dimostrare di aver sempre tentato di esportare cultura e civiltà; poi, gli stessi musulmani hanno creduto a questa chiacchiera romantica ed hanno creduto davvero che la storia dell’Europa fosse quella di una continua tensione tra religioni; e, infine, il cosiddetto fondamentalismo musulmano ha ripreso, per ragioni prettamente politiche, questa idea presentando la propria azione come la reazione, giustificabile e giustificata, del mondo musulmano a un’annosa politica di aggressione e spoliazione subita. Questa impostazione dimentica che l’Occidente non si può più definire con il termine di Cristianità da almeno tre secoli, da quando si sono avviati profondi processi di laicizzazione degli Stati.

Un definirsi reciproco, quindi.

Sì, un tentativo di semplificare e di radicalizzare il quadro complessivo, presentando appunto la storia come il confronto continuo tra religioni e fedi inconciliabili tra loro. Una cosa che non esiste se non nella testa e nell’ideologia dei fondamentalisti, che non sono soltanto musulmani.

Per quanto riguarda i tempi che stiamo vivendo, la “terza ondata” musulmana, quella dell’immigrazione, quale futuro prevede nel rapporto tra Islam ed Europa, intesa come insieme di istituzioni e cultura? C’è pericolo per la nostra concezione laica dello Stato e dei rapporti sociali? Molti definiscono il rapporto con l’immigrazione, in particolare con quella musulmana, come un’assimilazione. Lei come giudica quello che sta avvenendo?

Le assimilazioni non sono mai un fatto positivo. Bisogna fare in modo che le ricchezze culturali convivano liberamente tra loro. Tutto questo necessita di una certa flessibilità da entrambe le parti.
Certamente il mondo magrebino, con il quale noi veniamo principalmente a contatto, è vissuto negli ultimi secoli ripiegato in sé stesso; è un Islam che ha difficoltà ad accedere a valori come la parità dei diritti tra sessi che non appartengono alla loro cultura. Vorrei aggiungere, però, che non esiste nemmeno una cesura totale rispetto a questi valori. Sappiamo, infatti, che le tradizioni sono molto dinamiche e che anche all’interno dell’Islam ci sono scuole giuridiche aperte ad una reinterpretazione della religione in direzione di un rapporto più aperto con la cultura occidentale. Uno sforzo dobbiamo farlo anche noi, però. Fino a quando continueremo a intendere l’Islam appiattendolo sui suoi aspetti più duri, più integralisti, lo spingeremo ad identificarsi con essi, facendo involontariamente il gioco dei fondamentalisti. Sarebbe come se noi valutassimo il cattolicesimo pensando a monsignor Lefevbre o ai benedettini trappisti. Ma noi sappiamo che il cattolicesimo è irriducibile ad una definizione restrittiva di questo tipo.

Chi ha scritto e detto dopo l’11 settembre che quello alle Torri Gemelle era un attacco islamico al mondo cristiano, ha dimostrato sì idiozia e incultura, ma ha anche tentato una violenta coartazione dell’opinione pubblica. A mio parere, chi ha colpito il World Trade Center ha voluto bersagliare il centro simbolico dell’economia e della finanza mondiale.

L’evocato scontro tra civiltà, allora, non esiste?

È il concetto stesso di civiltà che va compreso bene. Le civiltà sono per loro natura dinamiche ed aperte. Per esempio, il concetto di Occidente si è evoluto nei tempi. Quando i Greci parlavano di Occidente parlavano alla loro striscia di terre e di isole elleniche contrapposta all’Impero persiano, quando ai primi del Novecento si parlava di un tramonto dell’Occidente, si intendeva dire che stava tramontando l’egemonia europea; quando oggi si parla di Occidente si parla di qualcosa che ha il centro e il fulcro negli Stati Uniti d’America, di cui l’Europa, al massimo, può essere considerata la sponda orientale di un orizzonte atlantico-americano. Questi esempi, presi dalla storia, dimostrano che una civiltà occidentale non esiste se non nelle astrazioni di chi, volta per volta, ne reinterpreta il concetto a proprio uso. Lo stesso vale per l’Oriente. Queste categorie servono ad un uso demagogico della storia.

Per seguire la sua visione, questa Europa, lembo orientale dell’occidente americano, quale ruolo potrebbe avere nel mondo?

Parto da un esempio: quando si parla di forze armate europee complementari alla Nato, si vuole intendere solo un maggior impegno unilaterale dell’Europa per rafforzare un’alleanza che ha un’egemonia americana. I fatti di quest’anno dimostrano che con una forza preponderante a disposizione qualsiasi accordo internazionale non regge. Solo oggi gli Stati Uniti ricorrono all’Onu perché questo avallo potrebbe nella situazione di crisi in Iraq servire a qualcosa. L’accordo si fa facilmente dando una fettina di gestione del futuro petrolio iracheno alla Mobil per far tacere Chirac, mano libera a Putin nel Caucaso in cambio della sua astensione benevola in Consiglio di Sicurezza sull’ultima risoluzione.
Allora, se, da una parte, quello che è stato fatto dall’Unione a livello economico funziona procurando, tra l’altro, danni all’area del dollaro e prospettando una sostituzione della divisa americana con l’euro, bisogna dar corso coerentemente a queste premesse realizzando una vera unione politica e militare.



 

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