Medievalista,
docente dell’Università di Firenze, autore
di libri come Noi e l’Islam: un incontro
possibile? (Laterza 1994), Europa e Islam:
storia di un malinteso (Laterza 1999), Il
ritmo della storia (Rizzoli 2001). Franco Cardini
è uno dei massimi esperti di Islam, della sua
storia e di come la cultura musulmana venga percepita
nel mondo occidentale. Nei giorni in cui il sondaggio
dell’Eurobarometro ha diffuso l’opinione
secondo la quale la maggoranza dei cittadini europei
considera Israele un pericolo per la pace mondiale,
abbiamo chiesto al professor Cardini il suo punto
di vista sulla questione israelo-palestinese e come
si vede l’Islam dall’Europa.
Il sondaggio effettuato dalla Commissione
europea su un campione di cittadini ha dato un risultato,
per molti versi sorprendente sulla percezione da parte
del 59% degli intervistati di Israele come pericolo
per la pace. Lei, professor Cardini, che è
uno studioso attento ai rapporti tra occidente e oriente
come giudica questi risultati?
Penso che il sondaggio va preso come tutti i sondaggi,
cioè senza dargli un particolare credito, ma
anche senza demonizzarlo troppo. Esiste in Europa
una preoccupazione per la politica statunitense, e
questo spiega perché oltre la metà risponda
che anche gli Stati Uniti sono un pericolo per la
pace, come esiste una preoccupazione per l’attuale
politica di Israele. In base a questo si tende a rivedere
anche l’intero atteggiamento di quel paese.
Non credo si possa dire, come ha fatto qualcuno, che
mettere sullo stesso piano i terroristi palestinesi
e la legittima difesa israeliana sia un confondere
gli attaccanti con gli attaccati. La realtà
è un po’ più complessa. È
questione di pura accademia discutere sul fatto a
chi appartenga quella terra. Questo è un uso
infausto della storia. Bisogna tener presente, soprattutto,
come si è arrivati a questa situazione: l’esito
della Shoah ha obbligato molti ebrei a defluire verso
Israele, al di là dell’ideologia sionista,
che ha un carattere nazionalista di stampo romantico,
legittimata da quello che stava succedendo in Europa.
Non
le sembra ci sia stato uno scivolamento tra antisionismo
e antisemitismo e, addirittura, tra un giudizio negativo
sulla politica di Sharon e l’antisemitismo,
non crede insomma che ci sia una tendenza a far coincedere
gli atteggiamenti verso il popolo di Israele con il
suo governo, la storia degli ebrei con il solo movimento
sionista?
Evidentemente questa operazione tende ad evitare
che si assuma un atteggiamento critico nei confronti
dell’attuale dirigenza israeliana. L’equazione
anti-Sharon o anti-Netanyau uguale anti-israeliano
è un’equazione falsa e quella anti-israeliano
uguale anti-semita è anch’essa falsissima.
Quella anti-sionista uguale antisemita è anch’essa
improponibile. Sono salti logici che non si possono
ammettere. È vero invece, che la politica intrapresa
da Sharon è di repressione e rappresaglia:
si colpisce un’intera comunità o un intero
villaggio perché si pensa, senza avere le prove,
che all’interno ci siano terroristi. Noi abbiamo
criticato duramente gli Usa per il loro atteggiamento
nel Vietnam, ma qui non siamo molto lontani. Gli ultimi
aggiornamenti della Convenzione di Ginevra, avvenuti
nel 1976, definiscono questi atti come crimini di
guerra. Che poi non si possano portare i responsabili
di fronte ad un Tribunale, per evidenti motivi di
equilibrio delle forze politiche, questo è
un altro discorso. Se è vero che c’è
il diritto di difendersi di fronte ad atti di terrorismo,
è altrettanto vero che il terrorismo non si
combatte con azioni indiscriminate. La storia militare
insegna che questo è un errore, che serve solo
ad inasprire le cose. Direi che la vera differenza
è che dietro ai vietnamiti c’era buona
parte del mondo comunista e tutto il fronte delle
potenze liberali e socialiste durante la guerra, mentre
dietro ai palestinesi non c’è nessuno.
Nel suo libro “Europa e Islam”,
scrive che una vecchia regola storica dice che ciò
che succede a Gerusalemme interessa tutto il mondo.
Ora, vista la copertura mediatica degli attentati
suicidi contro cittadini israeliani, come è
possibile, stando almeno a quanto viene fuori dal
sondaggio, una risposta quasi contraria da parte dell’opinione
pubblica europea?
È vero che siamo condizionati dai media e
reagiamo a questi condizionamenti come i cani di Pavlov.
Questa è una coartazione della libertà.
La maggioranza dei mass-media è nelle mani
di forze politiche ed economiche che hanno sposato,
direi quasi in maniera totale, la causa del neoconservatorismo
americano e dell’appoggio all’attuale,
sottolineo attuale, dirigenza israeliana; si fa finta
che non esistano le risoluzioni dell’Onu contro
Israele, il muro di contenimento che si sta costruendo,
una politica, che è stata di molti governi
israeliani negli ultimi cinquant’anni, di repressione
e di concentramento dei palestinesi che li incoraggia
a lasciare la propria terra.
Vediamo le immagini spaventose dei pazzi di cadaveri
delle vittime del terrorismo palestinese, ma si tace
sugli effetti delle rappresaglie; i morti dell’altra
parte non vengono fatti vedere. Questa è una
visione distorta della realtà. Si realizza,
però, anche un effetto contrario, quello che
i fisici chiamerebbero un “residuo entropico”,
una sorta di contraccolpo che spinge le persone a
chiedere perché non si parla di quello che
avviene dall’altra parte.
E, al di là di questo, è giusto l’equilibrio
che si è proposto? Perché non va avanti
il progetto di pacificazione di Ginevra (quello approntato
da uomini politici non di governo e da intellettuali
palestinesi e israeliani che dovrebbe essere firmato
a Ginevra il prossimo 20 novembre, ndr) che sembrerebbe
una ripresa positiva e concreta dei patti di Oslo?
E poi: i colloqui di Camp David sono veramente saltati
perché Arafat ha abbandonato il tavolo delle
trattative? Ben Ami, allora ministro dell’Interno
di Barak, ha ammesso, per esempio, che, in quell’occasione,
l’offerta, ormai diventata famosa, della metà
di Gerusalemme ai palestinesi non esisteva; gli israeliani
concedevano solo il sobborgo sud-orientale della città,
da dove non si vede nemmeno la punta della moschea
di Omar; così pure la continuità territoriale
del futuro stato palestinese non è mai stata
oggetto di trattativa, tanto che il governo israeliano
non ha mai prodotto neppure una mappa a riguardo.
Eppure, quello che è passato attraverso i mass-media
è che Arafat, che certamente è un personaggio
equivoco e con pesanti responsabilità passate,
ha abbandonato il tavolo e non il fatto che quello
proposto ai palestinesi era un accordo a scatola chiusa
ed immodificabile.
Veniamo al rapporto tra Europa e Islam. Nel
suo libro, lei parla della Storia di un malinteso.
Di che cosa si tratta?
L’Islam “copre” un’area geografica
molto grande che va dall’Indonesia fino alla
parte più occidentale del nord Africa, nella
quale sono compresi molti paesi a maggioranza musulmana.
C’è, inoltre, una forte diaspora musulmana
che fa sì che l’Islam sia sparso in tutto
il mondo. Oltre a questo è da considerare che
esso non ha un vero centro, non ha chiese, non ha
un’organizzazione gerarchica unitaria. Un miliardo
e mezzo di persone, un quarto circa dell’intera
popolazione mondiale, professa la religione islamica.
Questo è un risultato di un processo secolare.
Fino al XV secolo l’Europa ha conosciuto un
Islam particolare, quello arabo-mediterraneo, poi
quello turco, mentre non ha praticamente avuto rapporti
con quello indiano, quello persiano, quello del sud-sest
asiatico. Le relazioni con l’Islam arabo-mediterraneo
erano positive, comprendevano scambi commerciali,
culturali, di buon vicinato, insomma, punteggiate
da episodi di scontro militare, che talvolta assumevano
carattere quasi cronico. Lo possiamo considerare l’epifenomeno
guerriero di un rapporto profondo, fondato su amicizia
reciproca e su comuni origini culturali.
Il malinteso nasce quando gli europei nell’Ottocento,
avendo bisogno di legittimare la loro politica colonialista,
hanno interpretato la storia come contrasto tra Cristianità
e Islam, perché avevano interesse a dimostrare
di aver sempre tentato di esportare cultura e civiltà;
poi, gli stessi musulmani hanno creduto a questa chiacchiera
romantica ed hanno creduto davvero che la storia dell’Europa
fosse quella di una continua tensione tra religioni;
e, infine, il cosiddetto fondamentalismo musulmano
ha ripreso, per ragioni prettamente politiche, questa
idea presentando la propria azione come la reazione,
giustificabile e giustificata, del mondo musulmano
a un’annosa politica di aggressione e spoliazione
subita. Questa impostazione dimentica che l’Occidente
non si può più definire con il termine
di Cristianità da almeno tre secoli, da quando
si sono avviati profondi processi di laicizzazione
degli Stati.
Un definirsi reciproco, quindi.
Sì, un tentativo di semplificare e di radicalizzare
il quadro complessivo, presentando appunto la storia
come il confronto continuo tra religioni e fedi inconciliabili
tra loro. Una cosa che non esiste se non nella testa
e nell’ideologia dei fondamentalisti, che non
sono soltanto musulmani.
Per quanto riguarda i tempi che stiamo vivendo, la
“terza ondata” musulmana, quella dell’immigrazione,
quale futuro prevede nel rapporto tra Islam ed Europa,
intesa come insieme di istituzioni e cultura? C’è
pericolo per la nostra concezione laica dello Stato
e dei rapporti sociali? Molti definiscono il rapporto
con l’immigrazione, in particolare con quella
musulmana, come un’assimilazione. Lei come giudica
quello che sta avvenendo?
Le assimilazioni non sono mai un fatto positivo.
Bisogna fare in modo che le ricchezze culturali convivano
liberamente tra loro. Tutto questo necessita di una
certa flessibilità da entrambe le parti.
Certamente il mondo magrebino, con il quale noi veniamo
principalmente a contatto, è vissuto negli
ultimi secoli ripiegato in sé stesso; è
un Islam che ha difficoltà ad accedere a valori
come la parità dei diritti tra sessi che non
appartengono alla loro cultura. Vorrei aggiungere,
però, che non esiste nemmeno una cesura totale
rispetto a questi valori. Sappiamo, infatti, che le
tradizioni sono molto dinamiche e che anche all’interno
dell’Islam ci sono scuole giuridiche aperte
ad una reinterpretazione della religione in direzione
di un rapporto più aperto con la cultura occidentale.
Uno sforzo dobbiamo farlo anche noi, però.
Fino a quando continueremo a intendere l’Islam
appiattendolo sui suoi aspetti più duri, più
integralisti, lo spingeremo ad identificarsi con essi,
facendo involontariamente il gioco dei fondamentalisti.
Sarebbe come se noi valutassimo il cattolicesimo pensando
a monsignor Lefevbre o ai benedettini trappisti. Ma
noi sappiamo che il cattolicesimo è irriducibile
ad una definizione restrittiva di questo tipo.
Chi ha scritto e detto dopo l’11 settembre
che quello alle Torri Gemelle era un attacco islamico
al mondo cristiano, ha dimostrato sì idiozia
e incultura, ma ha anche tentato una violenta coartazione
dell’opinione pubblica. A mio parere, chi ha
colpito il World Trade Center ha voluto bersagliare
il centro simbolico dell’economia e della finanza
mondiale.
L’evocato scontro tra civiltà,
allora, non esiste?
È il concetto stesso di civiltà che
va compreso bene. Le civiltà sono per loro
natura dinamiche ed aperte. Per esempio, il concetto
di Occidente si è evoluto nei tempi. Quando
i Greci parlavano di Occidente parlavano alla loro
striscia di terre e di isole elleniche contrapposta
all’Impero persiano, quando ai primi del Novecento
si parlava di un tramonto dell’Occidente, si
intendeva dire che stava tramontando l’egemonia
europea; quando oggi si parla di Occidente si parla
di qualcosa che ha il centro e il fulcro negli Stati
Uniti d’America, di cui l’Europa, al massimo,
può essere considerata la sponda orientale
di un orizzonte atlantico-americano. Questi esempi,
presi dalla storia, dimostrano che una civiltà
occidentale non esiste se non nelle astrazioni di
chi, volta per volta, ne reinterpreta il concetto
a proprio uso. Lo stesso vale per l’Oriente.
Queste categorie servono ad un uso demagogico della
storia.
Per seguire la sua visione, questa Europa,
lembo orientale dell’occidente americano, quale
ruolo potrebbe avere nel mondo?
Parto da un esempio: quando si parla di forze armate
europee complementari alla Nato, si vuole intendere
solo un maggior impegno unilaterale dell’Europa
per rafforzare un’alleanza che ha un’egemonia
americana. I fatti di quest’anno dimostrano
che con una forza preponderante a disposizione qualsiasi
accordo internazionale non regge. Solo oggi gli Stati
Uniti ricorrono all’Onu perché questo
avallo potrebbe nella situazione di crisi in Iraq
servire a qualcosa. L’accordo si fa facilmente
dando una fettina di gestione del futuro petrolio
iracheno alla Mobil per far tacere Chirac, mano libera
a Putin nel Caucaso in cambio della sua astensione
benevola in Consiglio di Sicurezza sull’ultima
risoluzione.
Allora, se, da una parte, quello che è stato
fatto dall’Unione a livello economico funziona
procurando, tra l’altro, danni all’area
del dollaro e prospettando una sostituzione della
divisa americana con l’euro, bisogna dar corso
coerentemente a queste premesse realizzando una vera
unione politica e militare.
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