Trovare
una sola parola e descrivere Slavoj Zizec sembra un’impresa
impossibile per chiunque.
Eclettico. I suoi studi toccano interessi e ambiti
molto diversi, dalla teoria lacaniana alla critica
dei mezzi di comunicazione, dall’impegno politico
alla ripresa dei temi marxisti del feticismo delle
merci applicato alla società delle immagini
e delle informazioni.
Esplosivo. Sembra avvolto da un’energia neìascosta
e interminabile mentre parla, discute, gesticola animatamente.
E potrebbe continuare per ore se non riuscissi, di
tanto in tanto, a bloccarlo con qualche domanda.
Professore, ha un ritratto tutto suo dell’Unione
europea?
Quando rispondo a domande come questa molti miei
amici dicono che sono un paradosso vivente. Vede,
io mi considero un eurocentrista, ma allo stesso tempo
non sostengo affatto un’idea forte di Europa.
Credo fortemente che l’Europa nasca da una eredità
culturale che possiamo definire radicale e universale.
La cultura che ha avuto come culla questo continente,
dall’antica Grecia fino ai giorni più
recenti, ha visto nascere idee universali che hanno
viaggiato in tutto il mondo affermandosi come diritti
inalienabili. Le idee di libertà e di società
nate dal pensiero classico sono le pietre miliari
delle civiltà che sono seguite, dal cristianesimo
fino alla rivoluzione francese. Ecco che cosa penso
quando penso all’Europa, a un insieme di tradizioni
ciascuna molto aderente alla propria realtà
contingente, ma allo stesso tempo nate da una comune
ed universale tradizione.
E crede che l’Unione che stiamo costruendo
si stia facendo guidare da quest’idea di universalismo?
Le rispondo con una delle mie frasi preferite tra
quelle rese famose da Freud: “Che cosa vuole
una donna?”. Ponendo il quesito e lasciandolo
in sospeso, Freud voleva dire che è impossibile
penetrare il mistero dell’animo femminile. Per
l’Europa non è molto diverso. Non possiamo
dire con esattezza che cosa vorrà l’Europa;
io credo che ci sia una serie di progetti fra loro
diversi, alcuni sono conservatori, altri si vogliono
opporre al dominio culturale americano, alla globalizzazione,
alla perdita delle tradizioni europee. Quella che
però io auspico è un’Europa che
chiamo della democrazia radicale, che sappia guardare
alla società come a un corpo di simili, a un
tutto. Questa è, credo, l’unica alternativa
possibile per non rischiare di essere un clone delle
istituzioni che già esistono a livello globale.
Se poi invece lei vuole parlare della prospettiva
dell’Unione europea come unione economica, è
una prospettiva della quale non sono affatto interessato.
Il
mese di maggio 2004 sarà ricco di date importanti
per la storia dell’Unione. Probabilmente sarà
ratificata definitivamente la Costituzione, e certamente
si concluderà il processo di allargamento ufficializzando
l’entrata di dieci stati. La Slovenia, il suo
paese è fra questi. Che cosa porta la Slovenia
all’interno dell’Unione che già
non ci sia o che altri paesi non possono offrire?
Vuole una risposta precisa? Niente. Credo che la
Slovenia non può aggiungere qualcosa. Piuttosto
può togliere. Può togliere un po’
di arroganza alle nazioni che in Europa hanno un ruolo
troppo preminente, che hanno forti pretese di potere
a livello internazionale. Il luogo comune vuole che
quando si fanno domande di questo genere, ci si gonfi
il petto di orgoglio e di compiacimento e si inizino
a tessere le lodi di ciascun paese, dicendo che ha
delle magnifiche doti da portare nelle sedi dell’Unione.
La convinzione più diffusa è che nei
paesi dell’est le democrazie occidentali appaiono
stanche, un modello esausto, e quindi la Slovenia
e gli altri stati usciti dall’area comunista,
per cui la democrazia è una esperienza giovane,
ricca di motivazioni che potrebbero dare nuova linfa
per rivitalizzare anche le democrazie europee. Ma
io non sono del tutto d’accordo con queste posizioni.
Mi appaiono esageratamente ottimiste, soprattutto
nelle conclusioni.
Ma la Slovenia vuole l’Unione e l’Unione
vuole la Slovenia. Come se lo spiega?
Rispondere a questa domanda non è facile.
Quando si è fatto il referendum per l’ingresso
in Europa il “sì” ha vinto soltanto
con un margine ristretto di voti. La maggior parte
dei conservatori nazionalisti sloveni si sentiva minacciata
dalla prospettiva di aderire all’Unione perché
hanno paura dei controlli, delle regolamentazioni
e dei parametri che riguardano i diritti umani, le
pari opportunità delle donne. Insomma, potrebbero
essere costretti ad adottare delle leggi che potrebbero
minare la tradizione conservatrice slovena. Esiste
poi una piccola fazione di estrema sinistra che vede
l’Ue come una parte della Nato e dell’imperialismo
americano, è una porzione molto marginale della
politica nazionale, però si oppone in maniera
molto decisa. Personalmente credo che entrambi abbiano
torto, perché l’adesione all’Unione
non compromette la tradizione.
Perché la Slovenia vuole entrare in Europa?
Forse è una questione di comodo. Voglio dire:
man a mano che i paesi entrano nell’Ue si crea
una nuova linea di confine trai chi ne fa parte e
chi ne rimane fuori con il risultato di essere emarginati
tanto sul piano economico che su quello politico.
Un aspetto tipico dell’area balcanica è
l’ansia che hanno tutti di sentirsi un popolo
di confine. Sloveni, croati, tutti vogliono essere
riconosciuti come l’ultimo baluardo orientale
della civiltà europea. Tutti sembrano presi
dall’ossessivo desiderio di dire: qui finisce
l’Europa, dopo di noi non c’è nulla.
Allora esiste una spinta convinta e consapevole
a sentirsi parte del Vecchio Continente.
Sì esiste, ma nasce da una radice sbagliata.
Se entrare in Europa ha un senso, secondo me, sta
solo nella possibilità di debellare questa
ridicola ansia di opposizione che porta a dire io
sono dentro e tu sei fuori.
La Slovenia invece sta vivendo tutta questa faccenda
con uno spirito contrario, con l’orgoglio di
rappresentare un confine, di disegnare una linea che
la porta dentro la civiltà, di essere la barriera
di demarcazione della cultura dalla barbarie. Io sono
un convinto sostenitore dell’Europa, ma mi rendo
conto che stiamo affrontando la cosa con i presupposti
completamente sbagliati, con delle ragioni che non
ci fanno meritare di dirci europei.
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