238 - 18.10.03


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Due radici, un continente

Roberto Esposito con Mauro Buonocore e
Alessandro Lanni


“Fino a qualche decennio fa, scienze della natura e scienze dello spirito erano due cose completamente distinte, ora questa separazione sta venendo meno”. E sulla fine della netta distinzione tra cultura scientifica e umanistica trova spazio la biopolitica, un terreno di ricerca sul quale sta lavorando Roberto Esposito, professore di Filosofia teoretica all’Istituto Universitario Orientale di Napoli.

Professor Esposito, ci spieghi un po’ più nel dettaglio: che cos’è la biopolitica?

E’ un concetto che è stato rilanciato da Foucault negli anni Settanta. Vita e politica hanno sempre vissuto uno stretto rapporto tra di loro, ma a partire dalla fine del Settecento, sottolinea Foucault, la politica ha iniziato a guardare più esattamente al il bios cioè alla vita corporale, alla salute, alla morte, alla sanità, alla vechiaia: ha investito il corpo biologico del proprio sguardo. Questa nuova attenzione ha però avuto un doppio risvolto. Da un lato esiste una tendenza totalitaria della biopolitica, il nazismo ne è un esempio: il potere politico afferra la vita e la chiude in un campo di concentramento. Dall’altro, invece in questa idea una potenzialità che porta a ripensare il vecchio lessico della politica da nuove prospettive.

Una di queste nuove prospettive è il suo lavoro sulla definizione di comunità.

Ho iniziato a lavorare intorno al concetto di comunità spinto, tra l’altro, dall’insoddisfazione verso le definizioni correnti. Infatti, con la parola comunità, si intende sempre qualcosa che è caratterizzato da un’identità e da un’appartenenza che può avere varie forme ed essere fondata sul sangue, sulla cultura, sulla lingua o sulla religione. Ho provato a spostare questo modo di intendere la comunità partendo dalla sua etimologia. Comunitas, deriva dal termine latino munus che significa dono, servizio nei confronti dell’altro. Quindi l’idea originaria da cui è nato il termine comunità non risiede nell’appartenenza, ma, al contrario, nell’offerta, nell’alterazione, nella donazione. Da questa prospettiva, allora, il significato di una parola che è sempre stato sinonimo di una piccola patria si capovolge per rivolgersi all’apertura verso l’alterità.

Apertura che la contrappone al concetto di immunità.

E’ così. Se pensiamo ai diversi usi della parola immunità ci troviamo sempre lo stesso significato di protezione, di salvaguardia. In medicina si può essere immuni da un contagio, nel linguaggio giuridico vuol dire protezione dalla legge comune, come nel caso ad esempio di un personaggio politico. Immunità è quindi l’esatto contrario di comunità, il suo opposto, la sua faccia negativa.
La mia tesi è che la società contemporanea è sempre più caratterizzata da una tendenza immunitaria che porta a un detrimento della comunità condivisa e di conseguenza a una riduzione della sfera dell’esperienza, o addirittura a una negazione della vita stessa.

Se volessimo portare le sue parole nella realtà concreta, dove potremmo notare i sintomi della generale tendenza all’immunità?


Le guerre seguite agli attentati dell’11 settembre mi pare che possano essere lette come una doppia ossessione immunitaria. Da una parte il fondamentalismo islamico vuole immunizzarsi dalla secolarizzazione occidentale, dall’altra l’Occidente vuole immunizzarsi rispetto alla sua alterità. Un mondo affidato a questa sindrome immunitaria rischia di esplodere se non si dà più spazio alla dimensione comunitaria.

Lei parla di un mondo fatto di aperture verso l’alterità che si contrappone al suo opposto, a un modo di guardare le cose con gli occhi della chiusura e dell’appartenenza. Che ruolo sta svolgendo l’Unione Europea in tutto questo? Pare che le politiche europee siano decisamente orientate all’allargamento dei confini verso est, una tendenza che sembrerebbe andare incontro alla sua idea di comunità.

In realtà la situazione europea mi sembra solcata da un’ambiguità. L’identità europea può essere intesa, infatti, sia nel senso comunitario di allargamento e di rottura di confini, sia nel senso immunitario di un’Europa che si chiude rispetto agli altri mondi. La mia impressione è che in una prima fase del progetto dell’Unione prevalesse l’idea comunitaria; penso ad esempio ai Trattati di Schenghen, quando l’attenzione era molto forte sulla necessità di far cadere le frontiere tra gli stati europei. Poi però è avvenuto uno spostamento nel modo di intendere quegli stessi accordi che si sono caricati anche di un altro significato, più orientato verso la chiusura di quella piccola Europa nei confronti del resto del mondo. C’è stata quindi un’oscillazione dall’ambito comunitario a quello immunitario. Adesso assistiamo di nuovo a una spinta, guidata dalle idee e dalle esigenze dell’allargamento, verso il modello comunitario. L’Ue può essere guardata sia come una chiusura protettiva dell’Europa dal resto del mondo, sia come rottura dei confini interni e di apertura al mondo slavo.

Queste idee diverse e contrapposte rappresentano due radici storiche
Dell’Europa. Il cosmopolitismo e l’universalismo, da una parte; dall’altra l’idea delle piccole patrie, dei forti legami con le proprie identità, dei nazionalismi. Possiamo dire che la cultura europea è nata ed è cresciuta lungo queste due direzioni?


Sì, sono due opzioni presenti nella storia dell’Europa. Forse potremmo dire che l’illuminismo ha rappresentato di più la spinta cosmopolitica, mentre il romanticismo ha invece rappresentato il ritorno dell’idea di patria, di nazione e delle radici etniche. Però non è possibile contrapporre romanticismo e illuminismo in maniera netta perché sono vettori culturali che si compenetrano. In ogni paese c’è questa doppia anima che si confronta. Credo che alla fine prevarrà la spinta all’integrazione perché, pur evitando qualsiasi mitizzazione della globalizzazione, mi pare evidente che la situazione attuale non consente più la resistenza di singoli paesi alle tentazioni di chiusura verso l’esterno. Se ad esempio guardiamo al referendum svedese sull’adozione dell’euro, notiamo che ha vinto il no, ma credo che si tratti di un esito temporaneo, la vittoria di una posizione che non può reggere a lungo.

Riguardo a quella che definisce la spinta immunitaria dell’Europa, alcune voci vorrebbero un’Unione che si caratterizzasse chiaramente come una potenza contrapposta al potere degli Usa, sia in termini militari che economici e culturali. Altri invece, confortati anche dalle parole della bozza di Costituzione elaborata dalla Convenzione, aspirano invece a un’Europa che esca dalla logica della contrapposizione per identificarsi con una forza politica che sappia conciliare esigenze e voci diverse della politica internazionale. Che ne pensa?

Credo che da questo punto di vista l’Europa abbia bisogno di un’identità culturale che la distingua dagli Stati Uniti. Questo però non vuol dire porre le basi per una contrapposizione, ma dare spazio a quello che si potrebbe chiamare un universalismo delle differenze. Vivere in un mondo globale non deve necessariamente essere sinonimo di un mondo identico, fatto di un’unica grande identità. Mi riferisco piuttosto a un’integrazione delle differenze, cioè a un’Europa e un’America integrate attraverso le loro differenze invece che subalterne l’una rispetto all’altra.

Ecco, l’identità culturale. Ma anche qui le discussioni si accendono e confrontano opinioni molto diverse. I valori religiosi sono forse la parte più evidente e rumorosa della questione, soprattutto la loro presenza nel testo della costituzione.

Per certi versi capisco bene la posizione laica di chi non vuole nella costituzione un chiaro riferimento alle radici cristiane. Dal mio punto di vista personale, però, credo che sia importante sottolineare che il cristianesimo non è nato in Europa né in Occidente, e si è caratterizzato originariamente come una religione dell’universalismo, non del particolarismo, dell’alterità e non dell’identità. Solo in seguito è diventato anche la difesa di uno spazio e di un’identità intesa in senso rigido, come ad esempio durante le crociate. Se ci fosse nella costituzione un riferimento ai valori cristiani, io, pur essendo laico, non mi scandalizzerei tanto.


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