“Fino
a qualche decennio fa, scienze della natura e scienze
dello spirito erano due cose completamente distinte,
ora questa separazione sta venendo meno”. E
sulla fine della netta distinzione tra cultura scientifica
e umanistica trova spazio la biopolitica, un terreno
di ricerca sul quale sta lavorando Roberto Esposito,
professore di Filosofia teoretica all’Istituto
Universitario Orientale di Napoli.
Professor Esposito, ci spieghi un po’
più nel dettaglio: che cos’è la
biopolitica?
E’ un concetto che è stato rilanciato
da Foucault negli anni Settanta. Vita e politica hanno
sempre vissuto uno stretto rapporto tra di loro, ma
a partire dalla fine del Settecento, sottolinea Foucault,
la politica ha iniziato a guardare più esattamente
al il bios cioè alla vita corporale,
alla salute, alla morte, alla sanità, alla
vechiaia: ha investito il corpo biologico del proprio
sguardo. Questa nuova attenzione ha però avuto
un doppio risvolto. Da un lato esiste una tendenza
totalitaria della biopolitica, il nazismo ne è
un esempio: il potere politico afferra la vita e la
chiude in un campo di concentramento. Dall’altro,
invece in questa idea una potenzialità che
porta a ripensare il vecchio lessico della politica
da nuove prospettive.
Una di queste nuove prospettive è il
suo lavoro sulla definizione di comunità.
Ho iniziato a lavorare intorno al concetto di comunità
spinto, tra l’altro, dall’insoddisfazione
verso le definizioni correnti. Infatti, con la parola
comunità, si intende sempre qualcosa che è
caratterizzato da un’identità e da un’appartenenza
che può avere varie forme ed essere fondata
sul sangue, sulla cultura, sulla lingua o sulla religione.
Ho provato a spostare questo modo di intendere la
comunità partendo dalla sua etimologia. Comunitas,
deriva dal termine latino munus che significa
dono, servizio nei confronti dell’altro. Quindi
l’idea originaria da cui è nato il termine
comunità non risiede nell’appartenenza,
ma, al contrario, nell’offerta, nell’alterazione,
nella donazione. Da questa prospettiva, allora, il
significato di una parola che è sempre stato
sinonimo di una piccola patria si capovolge per rivolgersi
all’apertura verso l’alterità.
Apertura
che la contrappone al concetto di immunità.
E’ così. Se pensiamo ai diversi usi della
parola immunità ci troviamo sempre lo stesso
significato di protezione, di salvaguardia. In medicina
si può essere immuni da un contagio, nel linguaggio
giuridico vuol dire protezione dalla legge comune,
come nel caso ad esempio di un personaggio politico.
Immunità è quindi l’esatto contrario
di comunità, il suo opposto, la sua faccia
negativa.
La mia tesi è che la società contemporanea
è sempre più caratterizzata da una tendenza
immunitaria che porta a un detrimento della comunità
condivisa e di conseguenza a una riduzione della sfera
dell’esperienza, o addirittura a una negazione
della vita stessa.
Se volessimo portare le sue parole nella realtà
concreta, dove potremmo notare i sintomi della generale
tendenza all’immunità?
Le guerre seguite agli attentati dell’11 settembre
mi pare che possano essere lette come una doppia ossessione
immunitaria. Da una parte il fondamentalismo islamico
vuole immunizzarsi dalla secolarizzazione occidentale,
dall’altra l’Occidente vuole immunizzarsi
rispetto alla sua alterità. Un mondo affidato
a questa sindrome immunitaria rischia di esplodere
se non si dà più spazio alla dimensione
comunitaria.
Lei parla di un mondo fatto di aperture verso
l’alterità che si contrappone al suo
opposto, a un modo di guardare le cose con gli occhi
della chiusura e dell’appartenenza. Che ruolo
sta svolgendo l’Unione Europea in tutto questo?
Pare che le politiche europee siano decisamente orientate
all’allargamento dei confini verso est, una
tendenza che sembrerebbe andare incontro alla sua
idea di comunità.
In realtà la situazione europea mi sembra solcata
da un’ambiguità. L’identità
europea può essere intesa, infatti, sia nel
senso comunitario di allargamento e di rottura di
confini, sia nel senso immunitario di un’Europa
che si chiude rispetto agli altri mondi. La mia impressione
è che in una prima fase del progetto dell’Unione
prevalesse l’idea comunitaria; penso ad esempio
ai Trattati di Schenghen, quando l’attenzione
era molto forte sulla necessità di far cadere
le frontiere tra gli stati europei. Poi però
è avvenuto uno spostamento nel modo di intendere
quegli stessi accordi che si sono caricati anche di
un altro significato, più orientato verso la
chiusura di quella piccola Europa nei confronti del
resto del mondo. C’è stata quindi un’oscillazione
dall’ambito comunitario a quello immunitario.
Adesso assistiamo di nuovo a una spinta, guidata dalle
idee e dalle esigenze dell’allargamento, verso
il modello comunitario. L’Ue può essere
guardata sia come una chiusura protettiva dell’Europa
dal resto del mondo, sia come rottura dei confini
interni e di apertura al mondo slavo.
Queste idee diverse e contrapposte rappresentano
due radici storiche
Dell’Europa. Il cosmopolitismo e l’universalismo,
da una parte; dall’altra l’idea delle
piccole patrie, dei forti legami con le proprie identità,
dei nazionalismi. Possiamo dire che la cultura europea
è nata ed è cresciuta lungo queste due
direzioni?
Sì, sono due opzioni presenti nella storia
dell’Europa. Forse potremmo dire che l’illuminismo
ha rappresentato di più la spinta cosmopolitica,
mentre il romanticismo ha invece rappresentato il
ritorno dell’idea di patria, di nazione e delle
radici etniche. Però non è possibile
contrapporre romanticismo e illuminismo in maniera
netta perché sono vettori culturali che si
compenetrano. In ogni paese c’è questa
doppia anima che si confronta. Credo che alla fine
prevarrà la spinta all’integrazione perché,
pur evitando qualsiasi mitizzazione della globalizzazione,
mi pare evidente che la situazione attuale non consente
più la resistenza di singoli paesi alle tentazioni
di chiusura verso l’esterno. Se ad esempio guardiamo
al referendum svedese sull’adozione dell’euro,
notiamo che ha vinto il no, ma credo che si tratti
di un esito temporaneo, la vittoria di una posizione
che non può reggere a lungo.
Riguardo a quella che definisce la spinta
immunitaria dell’Europa, alcune voci vorrebbero
un’Unione che si caratterizzasse chiaramente
come una potenza contrapposta al potere degli Usa,
sia in termini militari che economici e culturali.
Altri invece, confortati anche dalle parole della
bozza di Costituzione elaborata dalla Convenzione,
aspirano invece a un’Europa che esca dalla logica
della contrapposizione per identificarsi con una forza
politica che sappia conciliare esigenze e voci diverse
della politica internazionale. Che ne pensa?
Credo che da questo punto di vista l’Europa
abbia bisogno di un’identità culturale
che la distingua dagli Stati Uniti. Questo però
non vuol dire porre le basi per una contrapposizione,
ma dare spazio a quello che si potrebbe chiamare un
universalismo delle differenze. Vivere in un mondo
globale non deve necessariamente essere sinonimo di
un mondo identico, fatto di un’unica grande
identità. Mi riferisco piuttosto a un’integrazione
delle differenze, cioè a un’Europa e
un’America integrate attraverso le loro differenze
invece che subalterne l’una rispetto all’altra.
Ecco, l’identità culturale. Ma
anche qui le discussioni si accendono e confrontano
opinioni molto diverse. I valori religiosi sono forse
la parte più evidente e rumorosa della questione,
soprattutto la loro presenza nel testo della costituzione.
Per certi versi capisco bene la posizione laica di
chi non vuole nella costituzione un chiaro riferimento
alle radici cristiane. Dal mio punto di vista personale,
però, credo che sia importante sottolineare
che il cristianesimo non è nato in Europa né
in Occidente, e si è caratterizzato originariamente
come una religione dell’universalismo, non del
particolarismo, dell’alterità e non dell’identità.
Solo in seguito è diventato anche la difesa
di uno spazio e di un’identità intesa
in senso rigido, come ad esempio durante le crociate.
Se ci fosse nella costituzione un riferimento ai valori
cristiani, io, pur essendo laico, non mi scandalizzerei
tanto.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it