309 - 10.11.06


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Il ritorno del re (i partiti)
nella politica italiana?
Lorenzo Viviani

“Un anello per domarli tutti, un anello per trovarli, un anello per ghermirli e nell'oscurità incatenarli”. Potrebbe essere una buona sintesi riprendere la più celebre delle frasi del romanzo di Tolkien per celebrare la nascita di un soggetto partitico unitario in una delle due coalizioni politiche italiane. Un partito per domarli tutti? La frammentazione dell’offerta nel centrosinistra, lungi dall’essere elemento virtuoso sul modello gauche plurielle, è in lenta ma progressiva fase di ricomposizione, prima con la Margherita (tre in uno), poi con il Partito democratico (due in uno), e come auspicio anche con la costruzione del partito della sinistra radicale (e pluribus unum?). Una riduzione più che di ideologie ormai ampiamente secolarizzate, di apparati oligarchici, orfani e ultimi epigoni della stagione dei partiti del novecento, con enormi burocrazie articolate sul territorio anche se capaci – un tempo - di essere soggetti popolari, di massa.

Il rapido e traumatico scongelamento del sistema politico italiano, il crollo della Prima Repubblica, ad opera degli elettori tarda a “essere nuovamente congelato” con un’offerta politica stabile da parte dei partiti, e fa della Seconda Repubblica, almeno fino alle Europee 2004, più i titoli di coda della Prima che l’avvio di una nuova fase storica. Le fratture che avevano strutturato la politica del novecento, e in particolare i cleavage tradizionali stato/chiesa e capitale/lavoro, hanno una minore presa nello strutturare il campo (oggi non esiste un voto cattolico polarizzato come descrive bene Segatti in riferimento al voto 2006), e altre sono le variabili che si aggiungono nel determinare il voto (territori, età, esposizione ai mass media, titolo di studio). L’Italia e non solo si trasforma e il famoso ceto medio (uno dei frutti positivo della stagione scudocrociata) si erode tra chi (pochi) salgono e chi scende o teme di scendere. I nuovi ceti popolari scrivono Magatti e De Benedittis, sono “fluidi, diversificati, politicamente e socialmente invisibili, e fra essi è in atto una “subordinazione invisibile” che sostituisce il conflitto sociale con un diffuso senso di insicurezza e un mix di pragmatismo e conservatorismo valoriale”. Una sintesi condivisa da molti dei recenti rapporti e studi, che fotografa l’effetto di un ciclo economico e sociale di tipo europeo (e non solo), non imputabile alla politica economica di un governo nazionale. Se la società cambia i partiti cosa fanno?

Dopo una lunga stagione dove le elite dei partiti rappresentavano la guida di processi sociali di integrazione o di trasformazione, da molti anni ormai accade l’inverso, sono i cittadini la tète de la course e i partiti i poursuivant. Da qui i fenomeni ciclici di antipartisitmo e antipolitica degli anni novanta (introdotti dagli albori leghisti), di interessi in libera uscita che si autorappresentano, di società civile contro i partiti, di movimenti che sfidano la rappresentanza, di cittadini che partecipano e si informano oltre i partiti, senza i partiti. Fenomeni spesso scomposti, fluidi, contraddittori, intercettati da grandi speranze e da altrettanto grandi illusioni, da primavere di rinascita e dal Grande Imprenditore dell’Antipoliica Berlusconi Un partito per ghermirli e nell’oscurità incatenarli? Il Partito Democratico dovrà procedere per prima cosa ricucendo la distanza creatasi in questi lunghi anni tra elettori e partiti, senza ghermirli con vane promesse di una improbabile nouvelle vague della partecipazione politica nei luoghi della militanza tradizionale. Il partito in fieri non dovrà imbrigliare gli elettori cercando di rispolverare l’antidoto dell’ideologia per sanare la perdita (o la mancanza) di legittimazione delle elite, antico problema affrontato fin dai tempi della legge ferrea delle oligarchie da Roberto Michels. “Il Partito che già c’è senza volerlo ammettere”, dovrà far tesoro della fine dell’era glaciale del novecento (pensateci guerra fredda, sistemi congelati, ecc), e dovrà essere consapevole che la fine dei dinosauri-partiti se non chiama ad una completa palingenesi altrettanto non ammette restaurazioni.

Il Pd apre un cantiere in cui non sarà sufficiente cooptare i vertici della società civile, anche perché spesso fra partiti e società civile si colloca un terzo incomodo, la società tout court, senza aggettivi ma non senza peso politico. Il cammino verso il ritorno del re (i partiti) non potrà quindi essere il ritorno del vecchio re, il partito di massa, e non potrà eludere il confronto con il processo di personalizzazione della politica e ancora di più con il ruolo della leadership nella politica contemporanea. La vulgata corrente salottiera vuole i partiti strumenti vuoti, incapaci di funzione espressiva e identitaria, arroccati in una proceduralità a cui si accompagna la sbandata commerciale e pubblicitaria, cardini di critiche spesso associate ad un nostalgico rimpianto del come eravamo e alla individuazione del Grande Male, la spettacolarizzazione della politica. Demonizzare la leadership è come demonizzare le maree, e fare affidamento su una“diga del Mose”politica sembra quanto meno avventato. Al contrario il Partito democratico sfrutti le virtù della leadership politica come strumento per superare le secche della burocratizzazione e della immobilità di oligarchie partitiche chiuse nello stato e non più intermediarie tra il cielo e la terra, il potere e la società. Il nuovo partito si presenti agli elettori senza il mito del militante, sempre più raro e sempre meno gratuito nelle proprie motivazioni. Il Pd dovrà fissare con trasparenza alcuni diritti chiari e precisi su cui chiedere adesione e per convincere “solo” rispettarli. Quali? Il popolo dei quattro milioni di votanti alle primarie non chiede retorica, chiede poche cose ma concrete. In Europa, e nello spesso mal compreso sistema americano, si moltiplicano strumenti di democrazia interna nei partiti quali le primarie interne (vere, in un partito, e non simulacri di votazione per quote di coalizione) per selezionare la leadesrhip di vertice, la possibilità di esprimersi sulle grandi scelte, e la conoscenza e pubblicità (nel senso non commerciale) delle attività del partito. Il professor Vassallo a Orvieto ha suscitato “le ire funeste del Pelide Achille partiotocratico”, ma di fatto non ha detto che una massima del buon senso. “una testa, un voto”, destando la mai sopita sindrome Gargonza (Chianciano, Gargonza, ecc, per la buona salute del Pd proviamo a cambiare set geografico), assai simile ad un “hic manebimus optime”., dove “hic” sta per i partiti del vecchio conio . I partiti sono importanti, solo se sono capaci di guidare il processo politico e non ne sono ostacolo: fra Biancaneve e i sette nani forse dovremmo guradre con più attenzione a Biancaneve e non alle caratteristiche dei nani, spesso con un “glorioso passato alle spalle”. Tutto il resto, il bagaglio del passato fatto di mistica del buon militante devoto e operoso nelle micro-attività quotidiane, nelle liturgie di sezione, è, con più o meno rimpianto, un bel film in bianco e nero, da rivedere ma da cineteca. Il partito chiesa, casa, scuola, tutore, integratore e interprete dalla culla alla tomba non serve più e riproporlo suona come più come invadente intromissione in una sfera pubblica ri-aperta piuttosto che come rinascita di partecipazione. Il Partito democratico è la scommessa di un cammino necessario per uscire da quel ciclo di crisi quasi ventennale, “la storia infinita”diremmo con M. Ende, tanto lento quanto inadeguato nella società dei 5 secondi (il tempo medio che impiega un qualsiasi motore di ricerca per fornire la risposta ad una ricerca o del tempo di invio di una mail o di un sms).

Certo non si costruisce un partito nel tempo di uno spot tv, ma l’innesto di tradizioni, culture, amicizie, conoscenze maturate nelle istituzioni e nella società è ormai avvenuto. Quanto far durare ancora il travaglio? Per altro costruire il Pd sarà determinante come motore dell’intero sistema politico italiano, ed è auspicabile che sia in grado di produrre una sorta di spill over o, nei termini classici di Duverger negli anni dei partiti di massa, un nuovo “contagion from the (center)left”. La nascita del Pd può innescare (e di fatto già lo ha fatto) un processo speculare anche nel centro destra, con il formarsi graduale di un partito conservatore, unica vera strada per archiviare la grande supplenza del leader populista alla guida del partito del telecomando, che pur negli anni novanta ha introdotto, riconosciamolo, qualche elemento di rottura e novità nella politica italiana. Dai partiti del leader a partiti con leader capaci di segnare la rotta, con la politica che si rimette in moto e non abdica più a poteri esterni, giudici, imprenditori, banchieri ecc.

Una raccomandazione finale. Non sono le leggi elettorali e i sistemi di governo a fare la politica ma, al contrario, è quest’ultima che ne determina la validità e l’efficacia. Detto questo il partito in fieri non potrà non riflettere sulla riforma di un sistema elettorale (quello attuale è sciagurato senza se e senza ma) verso un modello maggioritario a doppio turno e il superamento del tabù della leadership. Senza paura e con tanti pesi e contrappesi, il tema della leadership è ormai più una legittimazione ex post che una rottura istituzionale. Nei partiti moderni è un dato e non una funesta profezia che siano i leader la sintesi politica, non più i quadri di partito, tutto sta nel costruire percorsi di vera democrazia interna e controllo nella loro selezione e insieme dei partiti organizzati per le nuove sfide. Continuare sulla strada della partitocrazia senza i partiti equivale a far trionfare populismi antipartitici, con leader più “Masaniello” che “Mitterand”, più tribuni della plebe che De Gasperi.

Per tornare alla citazione iniziale, questo è il tempo in cui sostare nella terra di mezzo (non ce ne voglia l’amarcord di qualche neocentrista) equivale a rinunciare alla modernizzazione del nostro sistema politico, per di più con la prova provata che Il Pd raccoglie più di quanto semina. Se pensiamo che in materia elettorale l’aritmetica non corrisponde mai alla legge ferrea del 1+1=2 e se valutiamo l’andamento elettorale della lista unitaria dalle europee in poi, osserviamo che questa volta l’aritmetica regge e se difetta, di poco, lo fa per eccesso rispetto alle liste di partito. Segno che la compagnia del PD dalle primarie in poi è pronta, e ha forse più coraggio dei suoi leader.


 

 

 

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