Uno sguardo teatrale: Josef Koudelka
Consolato
Paolo Latella
Spesso le bibliografie iniziano con "Fin dalla più tenera età si
appassionò
", e quella di Josef Koudelka non fa eccezione: nato nel 1938 in un
piccolo paese della Moravia, ha realizzato le sue prime fotografie verso i quattordici
anni. All'università sceglie di studiare ingegneria ma la passione per la fotografia non
lo abbandona, anzi alterna agli studi i reportage su spettacoli teatrali. Divenuto
ingegnere lavora per l'industria aeronautica fino a quando, nel 1967, decide di dedicarsi
totalmente alla fotografia.

Dopo l'esperienza in teatro che lo stesso Koudelka giudica fondamentale - "Agendo
tra gli attori potevo fotografare quante volte volevo la stessa scena. Questo mi ha
insegnato a trarre il massimo da una situazione. Per questo mi piace fotografare in
situazioni rituali nelle quali ritorno molte volte, dove so quello che succederà" -
inizia a fotografare le comunità degli zingari, ma pone anche lo sguardo su feste e
rituali che negli anni successivi lo porteranno a girare tutta l'Europa, coerentemente con
quanto detto.
La ritualità è quindi il soggetto principale del suo lavoro, assieme al vagabondaggio
che rappresenta un altro aspetto intimamente legato alla sua biografia. Rientrato dalla
Romania, dove stava seguendo alcuni gruppi di zingari, è in Cecoslovacchia pochi giorni
prima dell'invasione di Praga, documenta quei momenti drammatici e un anno dopo riesce a
farne giungere negli Stati Uniti le immagini che Elliott Erwitt, presidente della famosa
agenzia fotografica Magnum, apprezza particolarmente e distribuisce alle principali
riviste internazionali senza rivelare il nome dell'autore, per paura delle possibili
ritorsioni nei confronti del fotografo e della sua famiglia.

Nel 1970 Koudelka lascia il suo paese e inizia a spostarsi continuando a fotografare i
gitani e le feste popolari. L'anno successivo entra nell'agenzia Magnum, grazie alla
qualità delle sue immagini che rispecchiano pienamente la filosofia dei padri fondatori
di quest'agenzia - Henri Cartier Bresson, David Seymour e Robert Capa e di lì a
poco pubblica il lavoro "Gitanes: la fin du voyage" che riceverà il Premio
Nadar. Ma il viaggio non termina, Koudelka continua a muoversi e a fotografare. Intanto
muore suo padre e a questo punto, non temendo più ritorsioni, le fotografie
sull'invasione di Praga possono finalmente ottenere di essere pubblicate con il nome
dell'autore.
I titoli dei libri pubblicati rispecchiano la sua situazione: "Exils",
presentato nel 1987, esprime con onestà anche la sua solitudine, quella di un apolide, e
i soggetti continuano a essere gli emarginati della società, quelli che vivono esclusi
dalle novità, ancora legati a rituali antichi e oramai desueti, che si trovino in Spagna
o in Irlanda, in Inghilterra come in Svizzera. Koudelka torna in Cecoslovacchia solo nel
1990, quando può finalmente mostrare le proprie immagini. Ma piano piano l'uomo, prima al
centro dell'interesse, quasi scompare dalle fotografie. Perché?

Gli attori, gli zingari, gli emarginati, non riescono più a essere soddisfacenti per
le sue immagini, rigorosamente in bianco e nero. La società postmoderna li tratta come
soggetti di studio, come resti di un tempo oramai passato o come problema sociale da
reprimere, e non è certo questo che Koudelka vuole mostrare: nelle sue fotografie non ci
sono mai state nostalgia o forme di accondiscendenza, non c'era la ricerca di un paradiso
ma la consapevolezza di una realtà che si andava perdendo per sempre e alla quale, vista
ora la rimozione di questa umanità dalle sue rappresentazioni, da' forse un addio senza
ritorno.
Da alcuni anni Koudelka ha iniziato a fotografare con una macchina panoramica che
permette di raccogliere un angolo ampio di visuale. Ora i suoi soggetti sono quei luoghi
dove l'uomo è passato, ha costruito, prodotto, manifestato la sua civiltà con strade,
edifici e industrie per poi abbandonarli al degrado del tempo. Così adesso si manifesta
l'amore dell'artista, ma forse è meglio dire lo smarrimento, per tutto quello che
sparisce. I pochi uomini presenti nel suo ultimo lavoro CAOS sono personaggi "fuori
di testa", assolutamente slegati da ogni realtà e tradizione, e sono forse
testimonianze, o meglio relitti, di un mondo intossicato.

Berlino, Beirut, Vukovar, Mostar e il triangolo chiamato "nero" per il forte
inquinamento tra Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, come anche la costa francese da dove
parte il Tunnel della Manica, sono solo alcuni dei luoghi scelti per queste
"lunghe" immagini, quasi fondali teatrali: non è certamente un caso, conoscendo
la predilezione del fotografo per il teatro, che li faccia spesso sembrare finti proprio
come una scenografia, ma al tempo stesso, giocando con l'ambiguità del mezzo fotografico,
li renda terribilmente reali.
Certo lo sguardo non vuole essere neutrale, ma se non c'è nostalgia, la malinconia
comunque aleggia e, come un velo leggero, avvolge i panorami prescelti che, nonostante non
rappresentino le espressioni più alte dell'uomo, sono di forte impatto, solo riuscendo a
entrare nel sentimento di profonda umanità che Josef Koudelka ha sempre cercato.

Omaggio a questo grande fotografo è la mostra CAOS al Palazzo delle Esposizioni di
Roma dove, in anteprima mondiale, oltre a sessanta fotografie panoramiche sono presenti
numerose immagini che ricostruiscono il percorso artistico di Koudelka. L'Editore Federico
Motta ha pubblicato un volume curato da Bernard Noël e Robert Delpire che raccoglie 108
di questi affascinanti panorami.
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