Taglia, spezza,
disarticola, insomma fa a brandelli le statue classiche, da sempre principale fonte
iconografica dell'antica Grecia. Chi si permette di fare questo? E Igor Mitoraj,
nato nel 1944, che inizia a studiare pittura a Cracovia sotto la guida di Tadeusz Kantor -
il grande pittore, scenografo e regista teatrale polacco - proseguendo poi gli studi a
Parigi nel 1968, dove scopre il fascino delle antiche culture americane e, proprio per
conoscerle direttamente, si trasferisce per un anno in Messico.
Nel 1974 torna a Parigi e, dopo avere ricevuto significativi
riconoscimenti nel campo della scultura, decide di dedicarsi esclusivamente a
questa. Trascorre lunghi periodi a New York e in Grecia toccando così i due estremi della
modernità e della classicità. Nel 1979 giunge a Pietrasanta in Toscana - il paradiso per
gli scultori. Qui scopre che il marmo, la terracotta e il bronzo sono i suoi
materiali e decide, nel 1983, di aprire uno studio dividendo la sua vita tra lItalia
e la Francia. Le sue sculture sono state esposte in numerose occasioni in Europa e negli
Stati Uniti: la mostra allAccademy of Art di New York nel 1989 ne ha sancito il
successo internazionale.
E quindi la classicità il referente principale di Mitoraj
che non disdegna di guardare anche alle culture dellestremo oriente - un mito forse
tramontato ma non finito, un richiamo costante per la civiltà occidentale, un
indissolubile componente del nostro Dna, un elemento che anche il più sfrenato modernismo
tecnologico non riesce a sradicare completamente. Non si tratta di un
"rinascimento" o di uno dei vari ritorni al passato: guai a parlare di
classicismo all'artista che ha espresso giudizi decisamente negativi sul principe del
neoclassicismo, Antonio Canova! La sua lettura della tradizione classica non vuole
esaltare (la sola rappresentazione dei modelli greci si auto-esalta) né adattare o
rimodellare, ma vuole rappresentare per frammenti il tempo che è passato su queste
sculture, così come frammentate ci sono giunte a rappresentare gli archetipi
dellantichità.
"Forse la frattura allude al mistero dellantico che si
manifesta a noi per frammenti, per allusioni, per evocazioni come i riflessi di
un'Atlantide scomparsa". Così Antonio Paolucci nel catalogo della mostra cerca di
spiegare il fascino che emanano queste opere. Probabilmente la scultura classica ha facile
presa sul pubblico contemporaneo oramai smarrito nella babele di linguaggi, informazioni e
mode di oggi, cui può risultare confortante anche la frantumata rappresentazione di
Mitoraj. Linterpretazione, o più precisamente la rilettura che troviamo nelle sue
sculture, può dare talvolta limpressione di una scoperta archeologica. Ma non è
un'operazione nostalgica né tanto meno ironica: sembra un intervento chirurgico, o
meglio, un'autopsia, per isolare gli elementi di maggior rilievo. Non cerca di dare una
risposta, anzi: ponendo lo spettatore in uno stato danimo di sospesa attenzione fa
sorgere invece interrogativi.
Meno riusciti sembrano i "pannelli" dove sono inseriti
oggetti e pezzi di statua, o i "tasselli" ricavati nel corpo delle statue,
poiché la forza delle opere di Mitoraj sta proprio nella purezza delloperazione che
non ha bisogno di contaminazioni di sorta. La mostra "Igor Mitoraj. Dei ed Eroi"
(catalogo Electa con testi di Calvesi, Kuspit, Lolli Ghetti, Medri e Paolucci) aperta fino
al 30 settembre, voluta dalla Cassa di Risparmio di Firenze per il 170° anniversario
della sua fondazione, si snoda tra il Museo Archeologico di Firenze e i Giardini di Boboli
con un allestimento che diviene esso stesso opera darte. Il confronto che si apre
tra gli originali conservati nel museo e le opere "nuove" sembra un dialogo tra
entità soprannaturali avvolte da una atmosfera ultraterrena, mentre linserimento
delle sculture nellartificio dei Giardini di Boboli - che rappresentano essi stessi
uno degli esempi più riusciti di giardino allitaliana, ricco di sculture - riporta
le statue a contatto con la natura, riproponendo un tema centrale per il mondo classico:
il rapporto tra luomo e luniverso.
Sono inoltre esposti, a Palazzo Pitti, un gruppo di disegni il cui
unico tema è la figura umana, che viene definita con pochi ed essenziali tratti. Pur
sempre avendo un contatto con la scultura, i disegni sono decisamente meno ingessati nel
tema portante della classicità, permettendo così l'emergere di sentimenti e sensazioni
che nelle altre opere non trovano spazio. Si resta con questa esposizione ancora una volta
stregati "dall'immutabile principio", come definì Winckelmann la bellezza
classica, anche se si tratta dei resti del naufragio di un mondo oramai scomparso.