Curzio Malaparte
(pseudonimo di Kurt Erich Suckert) è una delle figure tra le più controverse del nostro
novecento, oggetto di roventi polemiche: interventista nella I Guerra Mondiale, fascista
convinto della prima ora, dunque antifascista mandato al confino, quindi ufficiale
nellesercito italiano, poi con gli Alleati durante la liberazione, infine comunista
e, per concludere, cattolico. Sintetizzando così la sua vita, si può avere lidea
di una personalità trasformista. In realtà si tratta di una figura ben diversa e
complessa, un affascinante intellettuale dandy che voleva essere sempre al centro di ciò
che è emergente, vivendo e soffrendo tutti i mutamenti del suo tempo.
Dopo un primo periodo "barocco" nella sua scrittura emerge
sempre di più listinto "animale", di uno scrittore primordiale che va
direttamente, senza mediazioni, ai sensi e alle sensazioni: "Kaputt" e "La
pelle", due libri sulla guerra, due pugni allo stomaco in cui vengono esibite senza
veli le distruzioni materiali e spirituali prodotte dai conflitti armati. Anche gli
articoli scritti come corrispondente per il Corriere della Sera da vari fronti - Africa
Orientale, Francia, Russia e Balcani - sono pagine memorabili per come è descritta la
guerra. Proprio in alcuni di questi reportage sono state scattate le fotografie solo
recentemente riscoperte ed esposte nella mostra in corso a Prato, " Malaparte
fotografo un reporter dentro il ventre del mondo", curata da Renato Barilli e
Fabiano Fabbri e di cui presentiamo delle immagini. Non risulta che queste siano state mai
utilizzate, anzi lo stesso autore si curò di stampare o sviluppare solo pochi esemplari
delle migliaia che possedeva.
Sembra giusto soffermarsi sulle immagini scattate nei Balcani quando,
al seguito delle armate tedesche, unico giornalista occidentale ad assistere al
bombardamento di Belgrado ricordato spesso in questi giorni, tra il 10 aprile e il 9
maggio 1941 scrisse dodici articoli. Lo stile delle sue fotografie ha poco da condividere
con quello dei grandi reporter americani di Life, con quella cura maniacale per la
composizione, l'intenzione di cogliere lattimo significativo, lazione
determinate o il fine propagandistico. Negli scatti di Malaparte nulla di ciò traspare,
le situazioni sono spesso crude, colte con apparente disattenzione, non cè retorica
né trionfalismo ma unattenzione per lumanità dolente e dignitosa di fronte
ai disastri della guerra. Non cè nessun compiacimento estetico, le inquadrature
sono spesso esasperate, con in primo piano oggetti insignificanti o il soggetto relegato
ai margini.
Alcuni soggetti ricorrono frequenti, come i ponti distrutti (forse gli
stessi che stiamo vedendo in televisione in questi giorni), le stazioni vuote e diroccate,
le macchine squarciate e i tram immobili - le "carogne meccaniche" come le
definisce - in attesa di passeggeri che non potranno più salirvi. Anche le persone, il
"muro di carne", in queste fotografie non appaiono lontane da quelle mostrate
oggi: camminano davanti alle macerie, non sembrano, nei loro atteggiamenti, nel modo di
vestire, nei volti che si riesce ad intravedere, partecipi o testimoni della tragedia che
invece stanno vivendo. Come le immagini di vita quotidiana trasmesse oggi da Belgrado,
tutto sembra apparentemente normale.
Lungo le strade, accanto ai carri che forse servivano per scappare,
sono ossessivamente presenti carogne di animali: non ci sono persone, allora come adesso
non appare nessuno, scomparsi come scompaiono ora i profughi del Kosovo.
Le immagini non possono essere scisse dagli articoli di cui sono
certamente corredo iconografico, un corollario degno dove si ritrovano chiari i temi
sviluppati successivamente negli scritti. La penna svela quello che le fotografie non
sembrano mostrare, come descrive questo brano tratto da "L'archivio segreto fra i
binari del tram" pubblicato sul Corriere della Sera del 23 aprile 1941: "Le
stesse persone: quella donna con un paniere vuoto appeso al braccio, quel vecchio con gli
occhiali, col cappello duro, le gonfie mani infilate nei guanti di lana, quelle due
ragazze che camminano a braccetto, e ridono con riso isterico, mostrando i denti bianchi,
le labbra rosse, aggiustandosi ogni tanto, con gesto incosciente, le ciocche dei capelli
arruffati e sporchi che pendono sulla fronte e sulle guance, fuori dal cappellino
sgualcito. Sono sempre gli stessi: fanno il giro del quartiere, dello stesso quartiere.
Senza uno scopo, senza una meta, senza sapere dove vanno."
I sensi sono la radice dei suoi scritti, e forse l'odore, quello più
difficile da esprimere, può restituire in modo più immediato l'essenza della guerra
vista e descritta dallo scrittore toscano: "L'odore dell'acciaio marcio vinceva
l'odore dell'uomo, dei cavalli, (quell'odore di guerra antica); perfino l'odore del grano
e quello acuto e dolce dei girasoli svaniva in quel fetore acre di ferro combusto, di
acciaio in putrefazione, di macchine di morte." (dal romanzo Kaputt, 1944).