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La guerra sempre uguale: Curzio Malaparte, reporter dai balcani

 

Consolato Paolo Latella

 


Curzio Malaparte (pseudonimo di Kurt Erich Suckert) è una delle figure tra le più controverse del nostro novecento, oggetto di roventi polemiche: interventista nella I Guerra Mondiale, fascista convinto della prima ora, dunque antifascista mandato al confino, quindi ufficiale nell’esercito italiano, poi con gli Alleati durante la liberazione, infine comunista e, per concludere, cattolico. Sintetizzando così la sua vita, si può avere l’idea di una personalità trasformista. In realtà si tratta di una figura ben diversa e complessa, un affascinante intellettuale dandy che voleva essere sempre al centro di ciò che è emergente, vivendo e soffrendo tutti i mutamenti del suo tempo.

Dopo un primo periodo "barocco" nella sua scrittura emerge sempre di più l’istinto "animale", di uno scrittore primordiale che va direttamente, senza mediazioni, ai sensi e alle sensazioni: "Kaputt" e "La pelle", due libri sulla guerra, due pugni allo stomaco in cui vengono esibite senza veli le distruzioni materiali e spirituali prodotte dai conflitti armati. Anche gli articoli scritti come corrispondente per il Corriere della Sera da vari fronti - Africa Orientale, Francia, Russia e Balcani - sono pagine memorabili per come è descritta la guerra. Proprio in alcuni di questi reportage sono state scattate le fotografie solo recentemente riscoperte ed esposte nella mostra in corso a Prato, " Malaparte fotografo – un reporter dentro il ventre del mondo", curata da Renato Barilli e Fabiano Fabbri e di cui presentiamo delle immagini. Non risulta che queste siano state mai utilizzate, anzi lo stesso autore si curò di stampare o sviluppare solo pochi esemplari delle migliaia che possedeva.

Sembra giusto soffermarsi sulle immagini scattate nei Balcani quando, al seguito delle armate tedesche, unico giornalista occidentale ad assistere al bombardamento di Belgrado ricordato spesso in questi giorni, tra il 10 aprile e il 9 maggio 1941 scrisse dodici articoli. Lo stile delle sue fotografie ha poco da condividere con quello dei grandi reporter americani di Life, con quella cura maniacale per la composizione, l'intenzione di cogliere l’attimo significativo, l’azione determinate o il fine propagandistico. Negli scatti di Malaparte nulla di ciò traspare, le situazioni sono spesso crude, colte con apparente disattenzione, non c’è retorica né trionfalismo ma un’attenzione per l’umanità dolente e dignitosa di fronte ai disastri della guerra. Non c’è nessun compiacimento estetico, le inquadrature sono spesso esasperate, con in primo piano oggetti insignificanti o il soggetto relegato ai margini.

Alcuni soggetti ricorrono frequenti, come i ponti distrutti (forse gli stessi che stiamo vedendo in televisione in questi giorni), le stazioni vuote e diroccate, le macchine squarciate e i tram immobili - le "carogne meccaniche" come le definisce - in attesa di passeggeri che non potranno più salirvi. Anche le persone, il "muro di carne", in queste fotografie non appaiono lontane da quelle mostrate oggi: camminano davanti alle macerie, non sembrano, nei loro atteggiamenti, nel modo di vestire, nei volti che si riesce ad intravedere, partecipi o testimoni della tragedia che invece stanno vivendo. Come le immagini di vita quotidiana trasmesse oggi da Belgrado, tutto sembra apparentemente normale.

Lungo le strade, accanto ai carri che forse servivano per scappare, sono ossessivamente presenti carogne di animali: non ci sono persone, allora come adesso non appare nessuno, scomparsi come scompaiono ora i profughi del Kosovo.

Le immagini non possono essere scisse dagli articoli di cui sono certamente corredo iconografico, un corollario degno dove si ritrovano chiari i temi sviluppati successivamente negli scritti. La penna svela quello che le fotografie non sembrano mostrare, come descrive questo brano tratto da "L'archivio segreto fra i binari del tram" pubblicato sul Corriere della Sera del 23 aprile 1941: "Le stesse persone: quella donna con un paniere vuoto appeso al braccio, quel vecchio con gli occhiali, col cappello duro, le gonfie mani infilate nei guanti di lana, quelle due ragazze che camminano a braccetto, e ridono con riso isterico, mostrando i denti bianchi, le labbra rosse, aggiustandosi ogni tanto, con gesto incosciente, le ciocche dei capelli arruffati e sporchi che pendono sulla fronte e sulle guance, fuori dal cappellino sgualcito. Sono sempre gli stessi: fanno il giro del quartiere, dello stesso quartiere. Senza uno scopo, senza una meta, senza sapere dove vanno."

I sensi sono la radice dei suoi scritti, e forse l'odore, quello più difficile da esprimere, può restituire in modo più immediato l'essenza della guerra vista e descritta dallo scrittore toscano: "L'odore dell'acciaio marcio vinceva l'odore dell'uomo, dei cavalli, (quell'odore di guerra antica); perfino l'odore del grano e quello acuto e dolce dei girasoli svaniva in quel fetore acre di ferro combusto, di acciaio in putrefazione, di macchine di morte." (dal romanzo Kaputt, 1944).

 


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