Cè da chiedersi perché la maestosa mostra
"Roma e lo stile classico di Raffaello 1515-1527", aperta a Mantova fino al 30
maggio, non sia stata allestita proprio a Roma. Del resto proprio nella città papalina si
svolse la luminosa parabola artistica del pittore di Urbino. E fu nella medesima città
che continuarono ad essere attivi i suoi seguaci: dalla morte del maestro, avvenuta nel
1520, alla diaspora determinata dal celebre sacco capitolino perpetrato nel 1527 dai
Lanzichenecchi di Carlo V.
Forse la Roma vaticana di oggi, quella che nel Cinquecento ricoprì di commissioni e onori
Raffaello, è stata troppo impegnata nei preparativi per limminente scadenza
giubilare per poter mettere in cantiere unesposizione di questa portata e, classico,
respiro. Il Vaticano ha coinvolto nei lavori del Giubileo anche la Roma dellaltra
sponda del Tevere, quella laica: che, dal canto suo, ossia sul versante della politica
espositiva gestita dalla Soprintendenza e da soggetti privati, appare da anni e tuttora
impegnata in un discorso serratissimo sullarte a Roma nel Seicento: Pietro da
Cortona e Caravaggio, Bernini e Borromini e Algardi. Naturalismo e Barocco, quindi. Però
anche classicismo del XVII secolo: lAlgardi attualmente in mostra al Palazzo delle
Esposizioni e il Poussin recentemente conclusosi nella medesima sede di via Nazionale, ad
esempio; Andrea Sacchi, anchesso prossimamente di scena nella capitale. E allora
perché non intervallare la sequenza seicentesca dei Bernini e degli Algardi con una
mostra come quella di Mantova sul Cinquecento di Raffaello e compagni dal momento che essi
tanta parte ebbero proprio nella ripresa classica del secolo successivo?
Probabilmente è giusto così: va bene far giungere il popoloso tour
degli appassionati darte in tutte le città dItalia. Tanto più se si tratta
di splendide città darte come Mantova e anche se lantica corte gonzachesca è
ancora oggi uno dei luoghi più scomodi da raggiungere (col treno, almeno). Ma Mantova ha
un legame in realtà assai solido con la mostra. Non tanto, o non solo, con Raffaello. Ma
con il raffaellismo che nella città impose il più grande degli allievi
dellurbinate, Giulio Romano. Che giunse in città nel 1524, lasciando la natia Roma
prima ancora della fuga di tre anni dopo dei suoi compagni di impresa. E che a Mantova,
dove rimase sino alla morte, avvenuta nel 1546, eseguì le splendide pitture di Palazzo
Te.
È proprio nella dimora di svago dei Gonzaga che viene oggi ospitata la mostra su
"Roma e lo stile classico di Raffaello" (dal 23 giugno al 5 settembre
lesposizione verrà allestita a Vienna, allAlbertina). E sarà interessante
mettere a confronto tra loro i circa 300 lavori, per lo più di grafica (disegni e
incisioni). Per poi, alzato lo sguardo verso lalto, mettere a contrasto laurea
e olimpica armonia delle figure disegnate da Raffaello con il catastrofico, grottesco e
tragico diluvio di "Giganti" in caduta libera affrescato da Giulio sul soffitto
di Palazzo Te.
Nonostante abbia infranto lapollinea classicità del maestro
tramutando il suo dettato in concitato e passionale manierismo, Giulio Romano "fu
lerede più vero" di Raffaello. Lo scrive convinto Konrad Oberhuber, curatore
della mostra, alla fine del suo ampio saggio presente nel catalogo dellesposizione
(edito da Electa). Più "vero" anche se effettivamente il più diverso rispetto
a Raffaello: più vicino al maestro proprio forse perché seppe andarsene lontano dai
magnifici e diciamoci la verità irraggiungibili lidi della classica armonia
raffaellesca.
Oberhuber tributa il dovuto omaggio al più infedele dei discepoli di
Raffaello dopo aver in realtà sotratto al "corpus" delle opere di Giulio Romano
diverse opere per restituirle, o attribuirle, proprio al suo maestro. È il caso, ad
esempio, della cosiddetta Madonna Hertz, la seconda immagine della sequenza di 10 opere
che vi vi proponiamo avendole tratte dal catalogo (edito da Electa) dellesposizione:
la piccola tavola proviene dalla collezione romana di Palazzo Barberini ed uno dei pochi
dipinti in mostra. È stata tradizionalmente e con valide ragioni attribuita a Giulio
Romano finché Oberhuber, nel 1992, non ha ricondotto questa "invenzione di mirabile
equilibrio" al genio di Raffaello escludendo, per altrettante puntuali osservazioni,
il tocco dellallievo.
Il maestro o lo scolaro, dunque? Il bello dellattribuzionismo sta
nella varietà e labilità delle proposte, che posso essere sempre contraddette. Per cui
non è detto si debba necessariamente scegliere definitivamente. Tanto più che in questi
casi ci troviamo dinanzi ad opere che nascono dal rapporto tra il capo bottega e i suoi
discepoli. Gli scambi tra chi fa scuola e coloro i quali apprendono non sono mai a senso
unico. E un quadro come la "Sacra famiglia con san Giovannino" di Los Angeles è
di Giulio Romano, cui viene concordemente attribuito da quando fu scoperto nell82,
ma è anche di Raffaello dal momento che il disegno preparatorio, scoperto grazie ai raggi
infrarossi sotto lo strato di pittura ad olio, sembra proprio di mano del maestro.
Raffaello si dotò di una variegata e già specializzata équipe di
collaboratori per far fronte alla impressionante mole di lavoro e il papa e il suo
entourage gli rovesciarono addosso dal 1514 a l 1520: le Stanze vaticane, tanto per fare
un esempio, e i progetti di architettura per San Pietro; e poi le pale daltare, gli
affreschi delle logge, larchitettura di diverse ville, ma anche i cartoni per gli
arazzi, eccetera. Giulio Romano e Giovanni Francesco Penni, che furono in qualche modo i
luogotenenti di Raffaello, coordinarono il lavoro di Polidoro da Caravaggio di Giovanni da
Udine e di altri ancora. Agostino Veneziano, Marcantonio Raimondi, Marco Dente da Ravenna
e Ugo da Carpi, invece, divulgarono il disegno e le invenzioni del maestro attraverso
lincisione, sia quando Raffaello era in vita sia dopo.
La mostra di Mantova è composta, come sé detto, soprattutto di fogli: disegni e
incisioni. Questa scelta, in parte certamente dovuta alla difficoltà di far muovere i
preziosissimi dipinti dellUrbinate, ha un senso preciso. Lopzione per il
"bianco e nero" ha infatti senso proprio in nella logica oscura, nel lavoro
sotterraneo e faticoso che sono alla base delle opere prodotte nel cantiere raffaellesco.
La mostra curata da Oberhuber, per mostrarci lessenza dellopera di Raffaello,
esibisce il prima e il dopo del lavoro. Nella celebre bottega papalina dellUrbinate
la mente e la mano del maestro impostarono i prodotti lasciando ai collaboratori il
compito di completarli e di divulgarli attraverso la produzione seriale: magari anche
tradendone la, francamente, lirriproducibile classicità prodotto della fragile
sintesi di antichità e natura.