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Immagini/Il pitto-fotografo Francesco Paolo Michetti

 

Carlo Alberto Bucci

 

 



Diversamente dalla mostra romana di sei anni fa che, per centrare la fase artistica dell’"Ultimo Michetti", proponeva un confronto serrato tra "pittura e fotografia", l’antologica di Francesco Paolo Michetti (1851-1929) attualmente aperta a Palazzo Venezia, sempre a Roma, propone quasi soltanto "dipinti, pastelli e disegni" dell’artista abruzzese, più qualcuna delle sue stampe a contatto da negativo.
La selezione di 10 immagini che qui vi proponiamo – riproduzioni tratte in parte dal catalogo dell’attuale mostra romana (Electa Napoli), parte da quello (Alinari) dell’esposizione del 1993 – pone invece l’accento sulla fotografia. Le prime quattro immagini sono infatti fotografie mentre la quinta ("Donna sulla battigia") è una tempera monocromatica derivata, sia compositivamente sia coloristicamente, dal bianco e nero delle stampe michettiane dedicate al tradizionale soggetto pittorico (pensiamo agli splendidi Cézanne) delle "bagnanti".

Tale scelta in favore di un riequilibrio tra pittura e fotografia non è solo determinata dalla qualità innanzitutto poetica degli scatti di Michetti, o dalla suggestione che deriva da tali disinibite inquadrature di fine Otto primi Novecento, realizzate per giunta in una estrema provincia dell’Europa di inizio secolo quale era l’Abruzzo dei pastori e delle marine adriatiche. Il fatto è che la scelta a favore della fotografia significò per Michetti una revisione piuttosto radicale della sua pittura. Con l’aprirsi del Novecento, e con la delusione per il sostanziale disinteresse riservato da pubblico e critica alle due mastodontiche e impegnative tele che aveva presentato all’Esposizione Universale di Parigi dell’anno 1900, Michetti diventa pittore intimo e lirico. Realizza per lo più quadri di piccolo formato, bozzetti o pastelli su carta; e libera la sua esuberante pennellata sia, quasi, del referente oggettivo, sia degli eccessi di virtuosismo dell’ipasto pittorico.

Anche nella pittura il Michetti isolato ma intenso del Novecento – "ultimo" solo per convezione, dal momento che fu attivo per ben 29 anni nel XX secolo – raggiunge quindi quella sorta di autonomia del linguaggio che parallelamente portava avanti in qualche modo anche nella produzione fotografica. In questo secondo ambito, infatti, lo scatto e la stampa diventano due fasi di un’opera a sé e non più soltanto – come gli era accaduto nell’Ottocento – lo strumento per precisi appunti: prelievi dal vero funzionali alla realizzazione del suo realismo in pittura.

La scelta, quasi assoluta, in favore della fotografia denota anche la vivida attenzione di Michetti nei confronti delle nuove tecniche e delle moderne teorie europee. Non dovette essere facile scegliere la sintesi cromatica e formale della fotografia per un’artista come Michetti che, imbevuto del virtuosismo di un Morelli o di un Palizzi, contattati nel periodo della formazione all’Accademia di belle arti napoletano, già dagli esordi degli anni Settanta dell’Ottocento veniva segnalato e celebrato per la facilità del tocco e per la brillantezza della sua pittura; e di tale virtuosistica freschezza di mano il bel "Autoritratto" del 1877 che qui vi proponiamo (figura 7) è un ottimo esempio.

Del resto nel solco del "moderno" Simbolismo europeo va anche inserita – nota Fabio Benzi nel catalogo della mostra di Palazzo Venezia – anche la pittura michettiana del secolo scorso, ossia le grandi composizioni dedicate ai riti e ai miti della sua terra: come la "Processione del Corpus Domini" del 1877, che lo fece imporre ventiseienne all’Esposizione nazionale di Napoli e che vi proponiamo in uno splendido pastello preparatorio per il quadro in costruzione (figura 10); o come "Il voto" della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma dipinto nel 1883, che nella nostra selezione di immagini è rappresentato (figura 8) da un altro bel pastello contenente tre studi per il devoto umilmente prostrato dinanzi alla santa icona; oppure, ancora, come la teatrale scena raffigurante "La figlia di Jorio", grazie alla quale Michetti fu premiato alle Biennale di Venezia del 1895, dieci anni primi che l’amico e sodale Gabriele D’Annunzio decidesse di mettere in tragedia il medesimo tema. Questa dimensione simbolica di Michetti, che non si palesa nella scelta di soggetti o di allegorie ma, scrive Fabio Benzi, che viene fuori originalmente dalla costante "volontà [dell’artista] di penetrare l’essenza della realtà naturale, popolare, l’epos abruzzese", ritorna anche negli "ultimi" quadri: le smisurate e impopolari tempere del 1900 con "Gli storpi" e con "Le serpi", presentate all’esposizione parigina di quell’anno.

Le due tele (che misurano centimetri 380 x 970 ciascuna) non sono presenti nella mostra aperta fino al 1° maggio a Palazzo Venezia. Ma sono esposte al MuMI di Francavilla al Mare – il nuovo Museo Michetti, recentemente costruito dagli architetti Ricci e Spaini per ospitare i due quadri insieme con altre opere e mostre d’arte contemporanea – ed aspettano che gli altri pezzi dell’antologica romana le raggiungano (la seconda tappa della rassegna inaugurerà a Francavilla il 25 maggio per chiudere il 30 agosto).

A proposito di mostre c’è da ricordare che la passione per il mezzo fotografico, oltre che la sua ricorrente utilizzazione, Michetti la condivise con il pittore e amico Giulio Aristide Sartorio (1860-1932), cui la Galleria Campo dei Fiori di Roma dedica una interessante esposizione (dal 25 marzo al 22 maggio) incentrata sui finali "Anni difficili: 1922-1932" dell’artista romano, i cui lavori ultimi possono essere utilmente messi a confronto con le vibranti prove pittoriche dell’"ultimo", intimo, e non più decadente, Michetti.

 

 

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