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Immagini/ Rosso vivo, il sangue nell’arte

Carlo Alberto Bucci

 

La mostra curata da Francesca Alfano Miglietti al Pac di Milano e basata sul "Rosso vivo: mutazione, trasfigurazione e sangue nell’arte contemporanea" suggerisce un paio di considerazioni sull’argomento dell’esposizione, che resterà aperta fino al 21 marzo, qui rappresentata da una selezione di 10 immagini tratte dal catalogo della mostra che è stato edito da Electa.

Due riflessioni, tante quante sono le sezioni tematiche ideali in cui è suddivisa la rassegna: che da un lato propone artisti operanti sulla sacralità ancestrale del sangue e sui riti legati al versamento di questo liquido corporeo; e dall’altro presenta autori attenti piuttosto ad interrogarsi sulle mutazioni imposte al corpo dalla tecnologia, dalla scienza e dall’industria genetica.

Il "rosso vivo", questo colore che porta in sé l’informazione nutritiva e vitale del sangue, è solo un pretesto cromatico. Al bianco del manifesto e dell’arte luminosa di Lucio Fontana o al nero terreno e arcaico dell’informale di Alberto Burri si oppone il rosso del sangue. Si tratta di un colore che il chiarore della pelle ci fa apparire blu e che solo lacerando il tessuto epidermico viene alla luce mostrando la sua originale cromia. Col sangue, in pittura, non ci si fa nulla. È solo a partire dagli anni Settanta, quando l’arte si è riappropriata di una ritualità appartenente al territorio dell’antropologia del sacro, che il sangue ha preso a sgorgare dal corpo degli artisti e da quello degli artisti/sciamani: ad esempio l’americano Chris Burden che nel 1971, durante una performance, si è fatto sparare un colpo di pistola nel braccio; o la francese Gina Pane, cui è stata dedicata l’anno scorso una bella antologica a Reggio Emilia, che violava il corpo dell’arte – ossia la sua persona, la propria pelle – tagliandola e disegnandovi con una lametta affilata; oppure l’italiano Claudio Cintoli, che alla fine degli anni Settanta, con "Haqeldama, il campo del sangue", aveva rivissuto e teatralizzato la nascita, e la morte, attraverso un’azione basata sul sangue mestruale.

Questi artisti non sono in mostra, perché non più attivi. Mentre nel segno del sangue troviamo altri autori contemporanei che, incidentalmente o più frequentemente, simulano o immettono sangue e significati annessi nelle loro opere: a Milano è esposta una bella "Crocefissione" di Serrano, un ironico "Sacro cuore" di Pierre e Gilles, oppure croci rosse e cuori impressi sul ferro, ad opera del sanguinolento bodyartista Franko B.

La mostra di Milano si presenta come contenuta antologia rispetto alla espnsa e multiforme tendenza che, almeno dagli anni Novanta, ha portato nel territorio delle "belle arti" idee e suggestioni elaborate nel campo della letteratura e del cinema di fantascienza. Si tratta di un ricco campionario composto da intelligenze artificiali, robotica, industria genetica, corpi mutanti, eccetera – il tutto spesso condito con un’atmosfera noir o in salsa gotica – che già le esposizioni "Post Human" del ’92 o, persino, la Biennale veneziana di Jean Clair del 1995 avevano provveduto a documentare e rilanciare.

Nell’altra ideale sezione della mostra di Milano, quella sul corpo e sulle sue metamorfosi contemporanee, ci si interroga, nei migliori dei casi, su quale è e quale sarà l’impatto sul corpo delle moderne tecnologie: il terzo braccio del mutante Sterlac, il viso in metamorfosi chirurgica della "divina" Orlan, gli innesti operati tra animali di specie differenti dall’"impagliatore" Thomas Gruenefeld, oppure la chirurgia al computer di Aziz+Cucher che elaborano le immagine fotografiche facendo nascere visi privi di occhi e bocca.

Si chiede alle arti visive di non isolarsi rispetto al vorticoso ritmo della rete di comunicazioni che sta trasformando la società occidentale. Si chiede alla poesia di abbandonare i territori dell’autonomia e dell’autoreferenzialità per contaminarsi e trasformarsi continuamente nel contatto coll’esterno. Che è poi quanto andavano predicando le avanguardie artistiche di inizio secolo nel momento in cui opponevano una davvero forte e globale idea del moderno ad una società che tale ancora non era, almeno nei suoi aspetti esteriori e urbani. Soltanto che per Boccioni, tanto per citare uno di questi giganti del Novecento, il luogo dove esperire la frantumazione del corpo e la sua compenetrazione con il paesaggio della strada – da dove arrivava la suggestione – non era il proprio corpo. Ma l’area interna della tela, oppure l’aria intorno alla scultura che si immetteva nella forma e le donava l’idea di un tempo tridimensionale, profondo, multiplo e immobile. Il proprio corpo, Boccioni, se lo fece massacrare in guerra, perdendolo insieme con la vita; e insieme ad altri futuristi o semplici poveri cristi che al grande conflitto del 1915-1918 e all’utopia del moderno donarono inutilmente le proprie esistenza, intelligenza e membra.

Le tragedie dell’umanità sono cosa troppo immensa e terrbile perché l’arte possa anche solo rappresentarle? È un problema che "La vita è bella" di Roberto Benigni sta portando in auge. L’arte va presa sul serio ma, al tempo stesso, considerando che si tratta pur sempre di una finzione. Giocare con la vita che sta fuori dall’opera può voler dire violarne impunemente il silenzio e il dolore.

C’è poi infine da chiedersi se davvero l’arte sia nata per stare al passo con i tempi e in accordo con le mutazioni che la tecnologia impone al corpo sociale. Le terribili implicazioni che l’atomica ha avuto nella storia sono solo uno degli aspetti secondari che hanno indotto molti artisti del secondo dopoguerra a interrogare la materia nel segno dell’informale. Se una cosa terribile e immensa come la bomba di Hiroshima ha avuto poco o nessun peso nella storia dell’arte, è allora così importante per la ricerca visiva contemporanea che nei laboratori di genetica si cloni una pecora? Che chirurghi rifacciano i connotati ad anziani desiderosi di ringiovanire, o innestino mani di un uomo sul polso monco di un'altra persona? Che donne portino in grembo la vita concepita da altri? Chiedendo al corpo di adeguarsi alle mutazioni e alle metamorfosi che la mente è in grado di creare si impone al cervello di limitare le proprie capacità creative. L’immaginazione, infatti, mette al mondo infinite forme e personalità rispetto alle quali il povero corpo non potrà mai adeguarsi, né innestandosi braccia meccaniche, né modellando il viso col lifting né iniettandosi virus. È francamente abbastanza mortificante e riduttivo pensare che l’invenzione, antichissima e sempre moderna, del Doppio debba voler dire inseguire con la propria pelle quell’Altro – ideale e insondabile – che è in noi.

 




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