“L’ingresso in Europa della Turchia è
nel nostro interesse”. Gerhard Schroeder ha
forse trovato le parole giuste, per rassicurare l’opinione
pubblica tedesca (poco favorevole all’adesione
turca all’Unione), e per far felice il suo ospite,
il premier turco Tayyip Erdogan, al quale martedì
2 settembre ha promesso quell’atteso appoggio
tedesco che, ha dichiarato Erdogan, “ci renderà
la vita più facile”.
Il Cancelliere ha espresso “rispetto”
per le riforme già avviate dalla Turchia, e,
per replicare alle aspre critiche mossegli dall’opposizione
cristiano-democratica, ha ricordato che l’esecutivo
si sta muovendo su una linea di politica estera che
è da sempre propria della Germania. La Cdu-Csu,
ben conscia dell’impopolarità del tema,
aveva infatti annunciato che intende porre il tema
dell’adesione della Turchia all’Ue al
centro della campagna elettorale per le europee del
2004. “La Turchia appartiene ad uno spazio culturale
completamente diverso”, ha dichiarato un portavoce
del partito cattolico, lasciando intendere che il
problema, più che economico o di diritti umani,
è appunto religioso. “E’ una polemica
da quattro soldi”, ha concluso Schroeder, una
“campagna populistica che nuoce agli interessi
tedeschi” e che “contraddice anche la
politica del mio predecessore Kohl”.
Anche nella Spd, in verità, c’è
chi preferirebbe rimandare l’adesione turca,
ma, commenta la Sueddeutsche, “evita
di dirlo pubblicamente”, e la stessa base socialdemocratica
non è “turcoeuforica”. Il quotidiano
progressista ha così sintetizzato il dibattito
che si svolge in Germania, dove vivono quasi due milioni
e mezzo di turchi: “Il tema Turchia ha una forza
magnetica; sa attirare a sé tutte le paure,
paure di ogni colore e di diversa genesi, paura dello
straniero, dell’Islam, della minaccia e della
distruzione dell’ordine interno europeo. Tutte
le cose che si dicevano dell’allargamento ad
Est può esser detto ora con più leggerezza,
perché c’è un concetto che le
racchiude tutte: la Turchia”.
Al termine del suo incontro berlinese, Erdogan, che
ha detto di contare ora sulla Germania, ha definito
“irrevocabile” la scelta europeista, condivisa
dal 75% dei propri concittadini. “Noi –
ha dichiarato il premier turco – vogliamo portare
la democrazia del nostro paese al più alto
livello”. Rispondendo a chi contesta l’appartenenza
geografica e culturale europea di Ankara, il premier
ha ricordato che “l’Europa non ha mai
avuto confini immutabili” e che “non è
un club cristiano, ma una comunità politica
di valori”. Erdogan ha aggiunto che, al contrario,
l’adesione turca rappresenterebbe una grande
chance anche per l’Europa, per dimostrare che
“uomini di diverse religioni e culture possono
vivere insieme in pace ed amicizia”.
Le diffidenze in giro per il continente rimangono,
nonostante il governo turco, in carica da meno di
un anno, abbia già approvato quattro dei sette
pacchetti di riforme richiesti dall’Europa.
I rapporti con gli Stati Uniti si sono intanto fortemente
raffreddati. Il primo marzo scorso il Parlamento di
Ankara bocciò clamorosamente la richiesta di
transito di soldati statunitensi sul suolo turco,
ed ora l’amministrazione Bush chiede alla Turchia
l’invio in Iraq di 10.000 uomini (anche se il
ministro degli Esteri iracheno ha dichiarato di essere
contrario alla presenza di truppe di paesi confinanti).
Erdogan, in una intervista alla Frankfurter Allgemeine,
ribadisce che il suo governo è pronto a fare
la propria parte, ma solo nel caso in cui ci sia l’approvazione
della comunità internazionale, “e non
di pochi paesi”. La freddezza con gli Usa non
ha fatto comunque venir meno l’appoggio dell’Italia,
al momento il maggiore sponsor della causa di Ankara,
tanto che il premier Berlusconi il mese passato è
stato chiamato dal suo omologo turco a fare da testimone
di nozze del figlio. E la freddezza con gli Usa potrebbe
anche risultare utile per riavvicinarsi a quei due
colossi mitteleuropei, Germania e Francia, che hanno
espresso le maggiori riserve sul suo ingresso nella
Ue. Ma se l’appoggio della prima, alla fine
della visita berlinese, sembra sia stato conquistato,
la Francia, si sa, è un osso duro.
In un’intervista a Le Monde del novembre
2002, Valery Giscard d’Estaing, presidente della
Convenzione europea, disse che la “Turchia non
è un paese europeo”, e che il suo ingresso
nell’Ue avrebbe portato “alla fine dell’Unione”.
Giscard si prese allora il rimprovero del Presidente
dell’Europarlamento Pat Cox, nonché la
secca replica di Erdogan: “è un fondamentalista
cristiano”. In questi giorni, forse non a caso
in coincidenza con il tour europeo di Erdogan, Le
Monde ha raccontato tre storie di ordinaria crudeltà
che, nel sud-est turco, hanno visto la morte atroce
di tre donne, uccise dai propri parenti o mariti per
aver “tradito l’onore” della famiglia
o della tribù. Il quotidiano parigino ha citato
l’associazione Women for Women's Rights, secondo
cui il “61,2 % dei matrimoni sono combinati”.
Amnesty International però, i cui rappresentanti
sono riusciti proprio in questi giorni berlinesi a
incontrare il premier turco, ammette i progressi di
Ankara nel campo dei diritti umani, sebbene aggiunga
che c’è ancora molto da fare. Lo ha ammesso
lo stesso Erdogan, che sul tema delle torture ha promesso
“tolleranza zero”.
Ha scritto la Sueddeutsche: “La richiesta
di ammissione della Turchia è per l’Unione
europea una sfida enorme – chance e rischio.
Si può dibattere certo a lungo, se e come la
Turchia appartenga all’Europa. Si può
leggere e scrivere un’intera biblioteca. Ma
non è una questione di sapere, quanto di volere.
L’Europa è più di ciò che
era, dunque più della somma delle vecchie battaglie
e dei vecchi pregiudizi. L’Europa è ciò
che gli Europei vorranno farne”.
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