Tratto
dall’ultimo numero di Reset
(n.99 gennaio-febbraio 2007), in edicola e in libreria.
Considerate questo articolo una lettera aperta ai responsabili
della Rai. Le proposte che contiene rappresentano un
ultimo treno, un’estrema chance per produrre almeno
una piccola novità che inverta una tendenza di
lungo periodo e riavvicini il servizio pubblico radiotelevisivo
alla sua missione istituzionale, quella per cui in Italia
si paga il canone, la stessa per cui in Gran Bretagna
i costi della Bbc sono sostenuti dallo Stato.
La missione pubblica
Che cosa sia questa missione si può sintetizzare
così: un servizio reso ai cittadini, all’opinione
pubblica nel “garantire – cito dal contratto
di servizio tra il ministero del Tesoro e la Rai –
la libertà, il pluralismo, l'obiettività,
la completezza, l'imparzialità e la correttezza
dell'informazione” e poi ancora “favorire
la crescita civile ed il progresso sociale; promuovere
la cultura, l’istruzione… riservando, in
tutte le fasce orarie anche di maggiore ascolto, un
adeguato e proporzionato numero di ore di trasmissione
all'informazione, educazione, formazione, promozione
culturale”.
La Rai si è allontanata da questa missione per
due ragioni fondamentali: la prima è la dipendenza
dai partiti, che controllano attività e nomine
e che perseguono finalità diverse da quelle descritte
nel contratto; la seconda è quella che comunemente
viene chiamata “competizione” con la televisione
commerciale e che meglio sarebbe definire “concorso
duale al monopolio”. Il risultato è un
disservizio palese come il Tg1 sotto la direzione di
Clemente Mimun, la cui natura propagandistica, partitica,
distorsiva, asservita era di tragica evidenza. Pubblicherò
personalmente alcune trascrizioni di edizioni di prima
serata. Non si pensi che un cambio di direttore (da
Mimun a Gianni Riotta), per quanto benvenuto e decisamente
migliorativo, sia sufficiente a liquidare il problema.
Tanto più che esso non è il risultato
di una riflessione critica, ma la conseguenza di un
risultato elettorale!
La cultura della discussione
La proposta che avanzo come “estrema chance”
nella gravissima situazione italiana è quella
di introdurre vari elementi della “democrazia
deliberativa” che chiamerò per comodità
“democrazia della discussione” traducendo
il termine delle scienze politiche che usano la parola
inglese to deliberate che significa “discutere
attentamente i pro e i contro di una questione prima
di decidere”. Diciamo subito che non si tratta
di discutere di più ma di discutere meglio, adottando
un metodo critico verso il modo in cui spesso si forma
la opinione e si prendono le decisioni, senza i necessari
approfondimenti, adottando punti di vista per le ragioni
più varie, spesso indipendenti dal merito e legate
a impressioni superficiali. La “democrazia della
discussione” è poco conosciuta in Italia
(anche dai dirigenti politici) al di fuori ovviamente
degli addetti ai lavori non pretende di portare la competenza
dei cittadini fino a un’utopistica, e assurda,
perfezione, ma invita semplicemente a migliorare un
po’ le cose: più informazioni, più
attenzione dei professionisti dell’informazione
al contenuto delle decisioni, maggiore fiducia nella
intelligenza degli elettori, clima più trasparente
nei rapporti tra cittadini e politici. Di questa cultura
ha bisogno certamente la Rai. Un ente pubblico che ha
legittimato per anni un’informazione asservita
ai bisogni dei partiti e dei loro leader, al dettaglio,
e al tempo stesso, le trasmissioni più banali
e commerciali deve aprire una stagione di riflessioni
sulla propria natura, credibilità, funzione.
Come si giustifica e che cosa insegna ai suoi aspiranti
professionisti, e nelle sue scuole, una Rai che affida
la nomina delle direzioni dei Tg ai partiti?
La “cultura della discussione” ha decisamente
molto da offrire: come addestrare alla neutralità
generazioni di professionisti abituati a servire i partiti?
Come distaccarsi da una tradizione che legittima il
mandato politico fino ad insediare un consiglio di amministrazione
interamente etichettato dai partiti?
I nuovi sondaggi e nuove trasmissioni
Dalla riflessione di questi anni della “cultura
della discussione” vengono alcune proposte specifiche.
1) Introdurre la sperimentazione dei “sondaggi
deliberativi” (che per le stesse ragioni di cui
sopra chiameremo “sondaggi informati”).
Si tratta dei sondaggi sui quali Reset ha condotto una
campagna in questi anni (sulle sue pagine cartacee e
su quelle telematiche di Caffè
Europa): un campione di gente comune viene riunito
per un evento di tipo congressuale la cui diffusione
in tv e radio, e sui giornali, diventa occasione per
riflettere sul merito dei problemi, per verificare in
concreto e in modo spettacolare come, avendo più
informazioni e discutendo seriamente con esperti e con
altri di diverso parere, le opinioni possano cambiare
e di molto. I sondaggi informati, sull’esempio
del primo che si è condotto in Italia il 3 dicembre
2006 per iniziativa della Regione Lazio, possono diventare
una produzione tipica della Rai in occasione delle campagne
elettorali, amministrative, politiche ed europee. È
bene applicare la formula standard dei sondaggi deliberativi
ideata da James Fishkin, con lo Stanford Center for
Deliberative Democracy, perché è al momento
l’unica davvero collaudata e affidabile, in attesa
che maturi una nuova generazione di queste tecniche
spettacolari di consultazione.
2) Introdurre una trasmissione sull’opinione
pubblica, sul modo in cui si forma e sui vari modi in
cui la si inganna o la si condiziona. La propaganda
politica e i suoi effetti, la costruzione della agenda
pubblica di un paese, il modo in cui i politici mostrano
o nascondono le loro intenzioni in Italia e all’estero,
il funzionamento e il disfunzionamento di sondaggi tradizionali,
exit poll, il lavoro dei consulenti e del marketing
politico, tutto ciò può alimentare una
trasmissione televisiva che potrà apparire irrealizzabile
solo a coloro che concepiscono la televisione come diretta
emanazione dei poteri dei partiti.
3) I metodi di conduzione della discussione, la capacità
di interessare, attrarre il pubblico senza ricorrere
ai diverbi, anzi cercando di evitarli, la tenuta del
filo della attenzione sui temi pertinenti allo svolgersi
di una discussione bene informata, queste e tante altre
utili cose si possono imparare e mettere in pratica
a condizione di desiderarle. Il successo di ascolti
dei due duelli televisivi tra Prodi e Berlusconi ha
mostrato una prima novità che muoveva finalmente
nella direzione che stiamo descrivendo, ma è
giunta al termine di una campagna elettorale condotta
dai tg in modo orribile, con una quasi totale assenza
di argomenti pertinenti per lo più incentrata
su scambi di accuse personali.
Via dalla cultura dello spoil-system
L’uscita della Rai dalla fase della spartizione
elettorale delle spoglie non si farà, se mai
si farà, senza passare da una articolata enunciazione
di una diversa cultura politica, comunque la si voglia
chiamare, democrazia deliberativa, con James Fishkin,
Bruce Ackerman, Amartya Sen, John Ralws, o democrazia
della discussione, government by discussion,
se vogliamo seguire la formula cara a John Stuart Mill
e William Bagehot. La buona informazione, pluralistica,
indipendente, ricca, competente, interessante, ben sintetizzata,
aperta alle critiche non nasce dalla mediazione tra
le risse di partito, ma ha delle sue proprie basi, fiorisce
sulla professionalità di giornalisti e operatori
della tv che amino la propria indipendenza e il proprio
giudizio critico. Perché una nuova storia cominci
occorre che chi ha la responsabilità della Rai,
presidente, direttore, generale, consiglieri, muova
qualche difficile primo passo. C’è molto
scetticismo circa il fatto che tanti figli di partito
riescano a produrre qualcosa di “deliberativo”
e a contraddire il proprio atto di nascita (o di nomina)
nel posto che occupano. Sta a loro smentire. Noi questo
articolo-lettera aperta glielo faremo arrivare sulla
scrivania.
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